Robe da chiodi

Piccoli quiz torinesi

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1. Come scegliere tre quadri di Matisse, avendo la possibilità di comperarli? Gianni Agnelli fece attenzione alla tovaglia: rossa a righe, che ricorre in tre quadri tutti anni 20. Una specie di geometria della felicità.

2. Ma si può scegliere anche un Matisse al quadrato. Cioè Matisse che in un quadro dipinge un altro suo lavoro leggero. Una carta blu graffiata di bianco, appesa al muro di una stanza in cui ci sono quattro cose, ma pare che non manchi niente.

3. Ma nella collezione Agnelli domina Canaletto. Mi sono divertito a notare come nella serie (bellissima) di vedute del 1726 ci sia una costante su cui l’occhio sorvola ma che in realtà fa da perno del quadro, quasi da vero punto di fuga: è il lampeggiare di un piccolo groviglio di nubi bianche nel centro di un cielo di solito cupo. Nubi di avvertimento a quelli che stan sotto. Signori belli, la rovina è imminente…

4. Infine, cambiando museo, che ne dite di questo particolare del ritratto di Antonello custodito a Palazzo Madama? Tutto è di una plasticità metafisica, ma il rigore mentale della costruzione approda in motivi di pura astrazione. Come suggerisce Angela, che ne avrebbe detto Fontana?

Post scriptum: certo che neanche Dante avrebbe potuto immaginare contrappasso più perfido per l’avvocato Agnelli. Per arrivare alla sua Pinacoteca che svetta nel cielo sopra il Lingotto (Renzo Piano ha fatto di meglio…) si deve passare per un mezzo chilometro di paccottiglia di un centro commerciale di serie B. Alla fine della traversata, tra un negozio di scarpe e uno di telefonini, c’è ls porta che fa salire a quel che resta del regno…

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Aprile 25th, 2011 at 9:45 pm

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Michelangelo, la Passione come evento in corso

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Alla mostra di Milano sui disegni di Michelangelo curata da Alessandro Rovetta, c’è anche questo arrivato dal British che mi sembra una delle cose più impressionanti mai uscito dalle mani di un artista (qui sopra il particolare della Madonna sotto la Croce). Ne ho scritto sul il sussidiario, e non mi ripeto. Ma andando avanti in quel ragionamento mi sembra di capire che la forza di questo disegno è quello di rappresentare un evento in corso. Michelangelo, come era accaduto per la Pietà Rondanini, procede non più per volontà di rappresentazione, ma per volontà di immedesimazione. Non c’è più distanza tra il segno, la figura e il soggetto (cioè Michelangelo stesso). Se guardate bene questo disegno vi accorgete che con quel suo brulichio, sembra generarsi ogni istante dalla carta, come per un processo endogeno che Michelangelo aveva innescato. Ma cosa poteva innescare un processo così? Non basta a spiegarlo la capacità unica, caratteristica di un genio, di andare nel profondo. Ci vuole un altro fattore. Io penso che Michelangelo si sia posto davanti a questi fogli con l’atteggiamento di chi definisce tutto se stesso come una domanda: una domanda di salvezza personale. Questo origina quell’immedesimazione, che fa della passione di Cristo un evento che c’entra con il nostro destino (dove destino sta per carne, ossa e anima). Michelangelo è il Giovanni sotto la croce, impaurito e implorante (immagine qui sotto). Uno che cerca il corpo a cui attaccarsi, come unica sponda, come l’unico approdo desiderato dal proprio cuore.

Avendo la natura di domanda, questo disegno è un file aperto. È un evento in corso.

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Aprile 22nd, 2011 at 8:06 am

Una riscoperta in periferia: il gioiello umile di Figini Pollini

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Che ne dite della facciata di questa chiesa? Per me è stata una scoperta, perché su tanti libri di architettura del 900 avevo visto immagini della stessa chiesa, ma solo dell’interno, per via delle grandi soluzioni che Figini e Pollini avevano escogitato. La chiesa è quella della Madonna dei Poveri a Baggio. Anno 1956. Una chiesa che sorgeva in mezzo alle case minime abitate allora dagli immigrati arrivati dal Sud (la media era di 60mila arrivi all’anno!). Questa chiesa nella sua disarmante semplicità si adegua al contesto, è “dei Poveri” nel nome e nella concezione. Mi hanno colpito l’equilibrio di tutti i rapporti, gli inserti di laterizio come tocco di bellezza svuotata di ogni enfasi, la solennità che pur nella sua radicale sobrietà la chiesa riesce a darsi. È una chiesa che sussurra la sua presenza nel tessuto della periferia. Sono un ammiratore, anzi, di più, sono un fans, del razionalismo esatto ma pacato di Figini e Pollini. Un razionalismo che non ha mai nulla di astratto né di intellettualistico. Penso che la facciata degli stabilimenti Olivetti ad Ivrea sia una delle cose più belle e umanamente civili del 900 italiano. Qui si confermano, con meno mezzi a disposizione. Ma con un’intelligente comprensione della funzione dell’edificio: che è quello di riuscire a raccordare la dimensione della povertà a quella della bellezza.

Da qui due riflessioni. Primo, qui c’è un suggerimento interessante a chi deve mettersi a progettare chiese oggi. Lo definirei un approccio affettivo. Sentire il luogo, il contesto; aver presente il volto di chi la frequenta; e i santi che la popoleranno. Una sorta di umile processo preliminare di osmosi.

Secondo, qui c’è lo spirito migliore di Milano. Un razionalismo ragionevole. Una bellezza con i piedi per terra. Una modernità inclusiva del meglio del passato (dovreste vedere il grigliato di mattoni che sul retro chiude l’abside). Di questo c’è da essere grati a Montini, che si era preso i rischi della modernità, suggerendo discretamente una strada da percorrere.

Un grazie agli amici di 30Giorni che mi hanno dato l’occasione di approfondire questa storia…

Written by gfrangi

Aprile 21st, 2011 at 8:31 am

Da Albini a Ponti, l’Italia delle geniali cose da poco

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In questi giorni bazzicando qua e là per il Salone del mobile, mi sono seduto su una sdraio larga e ospitale disegnata da Vico Magistretti (foto sotto), sull’agile Superleggera di Gio Ponti, su una seggiola anche lei leggerissima di Chiavari che un gruppo di ragazzi appassionati ha deciso di rilanciare ( foto sopra; andate a vederla anche sul sito www.segnoitaliano.it). Poi ho rivisto il Veliero di Franco Albini, rimesso in catalogo da Cassina (foto sotto). L’ho rivisto collocato in un contesto simil casa, restare aereo e sospeso, seppur carico di libri. Cose geniali, che non temono di esser anche cose da poco. Cose semplici e leggere, che mettono di buon umore. A Venezia il 20 riaprono il negozio Olivetti disegnato da Scarpa restaurato: leggendo l’articolo di Fulvio Irace che lo annuncio, scopro che ha una dimensione di 20 metri di profondità per solo 5 di larghezza. Dalle foto me ne ero fatto idea di uno spazio fluido e senza ristrettezze: magie di Scarpa. È vero, è un pezzo di magnifica archeologia, visto che la realtà produttiva che aveva fatto essere quel gioiello è stata spazzata via. Ma è pur sempre un altro sintomo di un’Italia che non vuole perdersi.

Sono spezzoni di un’Italia magnifica, che sapeva trovare risposte alte a questioni banali. Anche Koolhaas ne ha parlato alla biennale per la democrazia di Torino, ha avuto parole di elogio per l’architettura italiana di primo Novecento, facendo coraggiosamente riferimento anche all’architettura della stagione fascista. Ha elogiato l’indistinto tipico di certe aree urbane della prima metà del Novecento, dove tutto era aperto, «anche la possibilità di avventura», in confronto agli spazi urbani superorganizzati di oggi, dove «ogni metro è occupato da un’opera d’arte, ogni percorso è definito, dove niente può più avvenire. Angosciante».

Written by gfrangi

Aprile 18th, 2011 at 8:01 am

Roma, la mano faro di Gianni Dessì

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Da una mano all’altra. Se Milano ha Cattelan, Roma ha ( per poco però) la gigantesca mano di Dessì, che troneggia davanti a Sant’Ivo alla Sapienza. È un reperto primordiale, vagamente informe, tendente a farsi zampa, con quelle dita che si chiudono ad uncino, come quelli di un volatile dalle proporzioni spaventose. È una gigantesca mano regressiva e animalesca, che non manca di una sua struggente tenerezza, con quel gesto di voler tener alta la casa – lanterna, inserto completamente geometrico e artificiale che completa la scultura. Nelle sue dimensioni così volutamente sballate, non vuole cercare dialoghi pretestuosi con il luogo. Accetta la sua natura di corpo estraneo, come uno zombie che però a questo punto nessuno vorrebbe più cacciar via da lì. È interessante perché fa riflettere sulla natura della scultura oggi, che quasi ha imbarazzo del suo ingombro, della sua invasività. Che si fa regressiva per recuperare una sua ragione (mi vengono in mente i meteoriti vegetali di Franz West).

Altra notazione che rubo da una bella pagina che Federico De Melis ha dedicato a Dessì su Alias. Il gesto di questa mano ricorda quello di Caravaggio che irrompe in scena nella Cattura di Cristo di Dublino, brandendo con concitazione una lanterna. Anche Dessì ha trovato una mano totem che si fa faro in tempi oscuri.

Written by gfrangi

Aprile 13th, 2011 at 9:03 pm

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Chi si risente, Jasper Johns

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Intervista di Vincenzo Trione a Jasper Johns sul Corriere della Sera. Jonhs vive appartatissimo nella sua tenuta del Connecticut. Non si concede praticamente mai alle occasioni mondane, per cui avero convinto a rispondere alle domade è stato un colpaccio. Ma a volte se un artista non parla, c’è un motivo: non è portato a scoprirsi. Così vale per Johns che risponde con precisione alle domande ma senza mai affondare. Si guarda bene di entrare in un ciclone mediatico. Segnalo questa parte della confessione: «A volte la libertà poetica può condurre al nulla. Altre volte può dischiudere nuove percezioni, nuovi modi di sentire. Gli artisti possono farsi carico di responsabilità politiche in diversi modi. Alcuni pensano che queste “preoccupazioni” non vadano espresse apertamente, ma debbano restare nella trama invisibili di quadri o sculture. Altri mostrano una totale assenza di sensibilità etica (almeno a livello conscio): ma non per questo i loro dipinti mancano di autenticità. Per quanto mi riguarda vorrei essere fuori da qualsiasi dimensione sociale. Ma è difficile: siamo immersi in un determinato mondo, e i nostri segni inevitabilmente ne risentono».

Written by gfrangi

Aprile 12th, 2011 at 12:41 pm

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Ancora Paladino, Ai Weiwei e Parmiggiani. Appunti dal week end

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Vista la mostra di Paladino. I suoi eroi sono i dormienti o uomini con il volto girato verso il muro. Posso dire che non è il tipo di eroe che mi interessa. Paladino è un artista in perenne stand by: non si coglie un percorso. È un artista il cui orologio si è fermato, un po’ come fosse anche lui uno degli uomini ingessati per l’eternità dall’eruzione di Pompei. È un artista di un intimismo da ritorno al privato: il suo Mi ritiro in silenzio a dipingere un quadro (1977), mi sembra rivisto oggi l’idea di uno che si mette nell’angolo e ci sta bene. Voleva essere una risposta, non barricadera, al dominio del concettuale e del minimalismo. Ma c’è da ricordare che c’erano in quel momento artisti che scegliendo la pittura non stavano affatto nell’angolo. Tra i vecchi Bacon e De Kooning. Tra i giovani i nuovi selvaggi tedeschi.

Palazzo Reale. Detto questo, l’allestimento della mostra realizzato da  Giovanni Tortelli è magnifico. Semplicissimo, rigorosamente bianco, ma con una capacità di valorizzare gli spazi dalasciare a bocca aperta: non sembra nemmeno di essere a Palazzo reale. Speriamo che chi farà mostre d’ora in poi tenga conto di questa lezione…

L’artigiano cinese. Hanno arrestao Ai Weiwei, l’artista cinese che ha riempito la Turbin Hall della Tate Modern con 15 milioni di semi di girasole in ceramica realizzati dagli artigiani da più di 1600 lavoratori della città cinese di Jingdezhen, famosa per la produzione della porcellana Imperiale. Mi è piaciuta la motivazione: “L’artigianato contro la produzione di massa”. Detta da un cinese è una bella sfida. Ma Richard Sennett nel suo stupendo libro L’uomo artigiano (Feltrinelli) ci aveva avvertito che un’invwersione di marcia era possibile….

Claudio e Claudia. Infine. Domani va all’asta la racconta di Claudia Gian Ferrari da Sotheby’s. Sul cartoncino d’invito c’era questo bella cosa di Parmiggiani. Delicato epigono morandiano.

Written by gfrangi

Aprile 11th, 2011 at 10:58 am

Troppa prosopea per Paladino

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Fa un po’ sorridere questa prosopopea che sta accompagnado la mostra di Mimmo Paladino a Palazzo Reale a Milano. Sembra di trovarsi di fronte a un evento epocale: oggi il Corriere proponeva addirittura una doppia pagina con una grande foto della Montagna di sale su cui campeggiava una frase francamente un po’ esagitata di Arthur C. Danto: «… non c’è niente che regga il confronto con l’imponente Montagna di sale disseminata di cavalli arcaici; il mondo dell’arte dell’ultimo quarto di secolo non ha nulla di paragonabile…» (diamine, ma dove ha vissuto negli ultimi 25 anni Danto?). Tutta questa retorica toglie ogni stimolo a una mostra che francamente non ne forniva molti in partenza. Paladino in questi anni lo abbiamo visto dappertutto. Non è certamente un artista presuntuoso ma è un artista che gode di troppo consenso. Che non si mette mai di traverso. Ho visto l’aereo sponsorizzato Piaggio in Galleria, con la fusoliera dipinta dall’artista. Mi è sembrato un concentrato di banalità: Cacciatore di stelle (lo suggerisco per la cover di una prossima riedizione del Piccolo principe…). La Montagna di sale è fuori luogo, schiacciata nella Piazzetta reale. Sembra ingombrante e goffa nel rapporto con lo spazio, mentre è nata per essere aerea e lievitante.

In queste settimane a Milano girava un altro artista di qualche anno più giovane di Paladino. Imparagonabile l’energia, la varietà di soluzioni e la forza di novità che William Kentridge ha sprigionato e comunicato. Un artista mobilitato e mobilitante. Ha scritto di lui Carolyn Christov-Bakargiev: «Il senso di distanza dai centri di potere culturale e il desiderio simultaneo di impegnarsi nel mondo gli hanno garantito un privilegio e un fardello: la capacità di muoversi all’interno della complessità, di essere sincero, compassionevole, arguto e intelligente, evitando al tempo stesso gli approcci cinici e ironici che ai nostri giorni caratterizzano la maggior parte dell’arte intelligente e criticamente consapevole dell’Occidente».

Paladino, al confronto, sembra davvero un bel pittore del secolo scorso.

Written by gfrangi

Aprile 5th, 2011 at 9:55 pm

Paci e Mastrovito, rendez-vous sotto la croce

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Due situazioni intercettate questa settiamana. Adrian Paci, albanese classe 1969, arrivato in Italia con una borsa di studio dal 1992, ha realizzato per la chiesa di San Bartolomeo una Via Crucis: fotografie in bianco e nero prese dalla realizzazione di un suo film, stampate su alluminio. Una rappresentazione molto pasoliniana. Secionda situazione: Casa Testori, veranda. Andrea Mastrovito, bergamasco, classe 1978, interpreta lo spazio usando le tre grandi finester come fossero altrettante ante di un politicco sulla Crocifissione. La tecnica è la più sobria possibile, ma anche quella più ad effetto: il disegno è stato ricavato chiudendo gli spiragli di luce delle tapparelle lasciate appena sollevate.

Innanzitutto colpisce la coincidenza dei due fatti, che porta a riconsiderare il fatto che il soggetto della crocifissione è un soggetto forse “inevitabile” per un artista. Non è una questione di crederci o meno: è un punto di condensazione dell’umano che non ha paragoni. Ognuno ci arriva per strade sue e con corde sue. Quella di Paci è una Via Crucis delicata ma disperatamente solitaria. Non c’è più folla ad accompagnare Gesù. C’è rimasto solo un manipolo di amici, tra capannoni di una periferia dismessa. Quella di Mastrovito è una Crocifissione leggera, quasi sussurrata (le croci sono sagomate un po’ di traverso). È molto importante il percorso che Mastrovito racconta nel catalogo: aveva saputo che quello era il luogo dove venivano esposte le persone della famiglia per l’ultimo omaggio. E quindi è come se la funzione, pur episodica, di quel luogo avesse segnato anche le strutture. Perché quella della morte non è esperienza che passa.

Né in Paci né in Mastrovito si coglie una minima enfasi retorica; sono crocifissioni in diverso modo scarne, spogliate di ogni orpello e di ogni dispositivo drammatizzante. Questo ce le fa apparire come davvero “necessarie” all’interno del loro percorso. Se poi dovessi cercare di spiegare perché due artisti di quella generazione, certamente figli di una secolarizzazione spinta, approdino alla crocifissione, non so rispondere in altro modo che così: la croce è il destino dell’uomo riportato in alto, ri-innalzato. È il momento drammatico da cui ciascuno passa proposto come imprevedibile accettazione (le braccia aperte, il il consegnarsi a un’altra volontà). È la morte che accade in alto, davanti al mondo, e non nelle cantine della vita. È la sola idea di morte agganciata ad una speranza. Immagino che per un artista riuscire a dire questo sia la cosa più grande che possa augurarsi.

Written by gfrangi

Aprile 2nd, 2011 at 1:21 pm

La primavera del disegno

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Su Le Monde oggi c’è una pagina che celebra il ritorno al disegno degli artisti contemporanei, in particolare giovani. Al Palais de la Bourse si è aperto il Salon du Dessin (sino al 4 aprile) che ha attratto altre manifestazioni collaterali in altri luoghi della città. La pagina è corredata con il disegno di un giovane artista americano Matt Bollinger (immagine qui sopra), che mostra quale freschezza pungente riservi il disegno manuale nell’era dell’artificio (è esposto a Drawing Now Suite, al Carrousel du Louvre). Potrebbe esserci al suo posto un disegno di Andrea Mastrovito (immagine qui sotto), il giovane che oggi inaugura una ambiziosissima e sorprendente personale a Casa Testori a Novate, e avrebbe fatto lo stesso effetto. Il disegno nella sua fragilità e transitorietà si mostra capace di un’energia e di un’immediatezza anche laddove (come nei due casi citati) è frutto di un lavoro sottile e certosino. Il disegno permette ancora uno sguardo ingenuo, diretto, capace di portare a galla tutto. Vincent Bioulès, che insegna disegno all’Ecole des Beaux- arts di Parigi racconta su Le Monde la ragione profonda di questa primavera del disegno, sulla base della sua esperienza: «Si ha sempre l’impressione di vedere il reale, ma quando cominci a disegnare, mi rendo conto di non aver visto niente. Il disegno è una sintassi per appropriarsi del mondo. È la potenza della decifrazione del reale».

Ricordo di aver letto nel libro di John Berger Sul disegnare (Schewiller) questo pensiero che mi è rimasto impresso: «Disegnare non è solo misurare e annotare, è anche ricevere. Quando l’intensità dello sguardo raggiunge un certo grado, diventiamo consapevoli che un’energia altrettanto intensa viene verso di noi, attraverso l’apparenza di quello che stiamo scrutando. L’intera opera di Giacometti ne è la dimostrazione».

(Aggiungo che fa parte di questa primavera del disegno anche l’opportunità di vedere i disegni capolavoro di Michelangelo , sia architetto che no, al Castello Sforzesco)

Written by gfrangi

Marzo 30th, 2011 at 10:37 pm