In crisi di astinenza per via di un’estate un po’ stanziale, settimana scorsa ho preso la macchina e sono andato a Basilea a vedere l’ampliamento del Kunstmuseum appena inaugurato e firmato dallo studio Christ & Gantenbein. Un ampliamento molto enfatico, allineato a quella insistita retorica con cui si guarda all’arte contemporanea. Musei che sembrano un po’ dei templi, pur nell’indubbia qualità architettonica e delle rifiniture. All’interno ci sono cose stupende, come la prima sala dove Barnett Newman, Mark Rothko, Clifford Still e Franz Kline dialogano con tre opere tutte del 1957. Anno decisamente stregante per tutti. Li sfida tutti, nella sua piccolezza, la Piazza di Giacometti. Ovvero quel che resiste dell’Europa contro l’arrembante America. Più avanti due grandi Wharol con la serie degli incidenti stradali, una serie di Cy Twombly, tra cui lo strepitoso, delicatissimo Nini’s painting del 1971, dedicato a Maria Antonietta Pirandello, moglie del suo gallerista Plinio De Martis. Poi un vitalissimo Boetti (anche nel titolo: “Tutto”). È uno dei più bei Robert Ryman che abbia mai visto.
Al piano meno uno c’è una sala davvero meravigliosa dei due Becher, dove davvero si capisce il senso potente della loro serialità: la capacità di usare lo sguardo per cogliere le costanti nelle strutture industriali, che assurgono a qualcosa di umilmente monumentale nella loro reiterazione. Un modo diverso di guardare alla modernità, non come mito, né come potenza ma come pratica che assomma pazienza, saperi, e anche audacia, pur nella ripetitività.
Si chiude con un immenso salone in cui Frank Stella, Donald Judd e Sol Lewitt vengono trattati come se fossero Michelangelo. Qui la retorica, anche un po’ zoppicante, prende il decisamente il sopravvento.
Che dire al confronto con gli spazi serrati, così tradizionali in cui il 900 dà il suo straordinario spettacolo all’ultimo piano dell’edificio storico? Una sequenza di sale con continui soprassalti, che danno la misura della grandezza di un secolo, che non aveva bisogno di sforare le misure e di avere spazi para religiosi per mostrarsi. L’elenco è lungo, ma quel secondo piano del vecchio Kunstmuseum, nel suo insieme è davvero un’esperienza con pochi paragoni. È raro avere una percezione così continua e ravvicinata della potenza di cui gli uomini sono stati capaci nel reinventare le forme e il modo di guardare il mondo. È stato un secolo vorace il 900, insaziabile, e capace anche di una grandezza che nessuno aveva messo nel conto. Un secolo che non è il secolo passato.
Personalmente, quelle sale sono una vera esperienza di pienezza e di vastità, anche se gli spazi sono angusti e la sequenza delle sale non fa leva su nessuna teatralità architettonica. Un’esperienza fisica, di forme che suggeriscono a ripetizione visioni appassionanti sull’umano. Intuizioni visive nelle quali oggi ci troviamo immersi e che incontri nel momento del loro scaturire (Mondrian, Klee, Van Doesburg, Arp, Delaunay).
Un meraviglioso Giacometti, Portrait d’Annette en blouse jaune (1964), duella con la selvaggia Femme au chapeau assise dans un fauteuil di Picasso (1946). La prima penetra lo sguardo sin nelle fibre dell’infinito; uno sguardo che con pazienza, pennellata per pennellata, ha agguantato un suo “per sempre”. La seconda invece divarica la vita, come se Picasso l’avesse dipinta non con un pennello ma con un forcipe. È il volto della vita che si “spacca” nell’atto di dar vita ad altra vita.
È un’esperienza, un impatto umano vero, trovarsi faccia a faccia con due quadri così, messi a pochi metri uno dall’altro; due quadri che ti fanno sobbalzare tra due dimensioni opposte ma ugualmente vere dell’essere.
In alto, dettaglio di Picasso; sotto, dettaglio di Giacometti.
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Sobbalzi a Basilea, tra Giacometti e Picasso
Dora Maar, pazza di Mozart
A Palazzo Fortuny, a Venezia, è in corso una mostra dedicata a Dora Maar. Leggete questa strepitosa pagina di Lea Vergine su di lei (da Schegge, intervista con Ester Cohen).
(Si sta parlando del cantiere delle grande mostra sull’Altra metà dell’avanguardia, del 1980)
«…come rintracciare Dora Maar, grande amore di Picasso con cui volevo parlare… Telefono a Edouard Löb, gentiluomo esperto di faccende russe. Gli telefono e mi dice che quella pazza, l’ho incontrata l’altro giorno al mercato che comperava un rametto di prezzemolo. Ma in che strada? Rue de Savoie. Andai a farmi avanti e indietro la stradina, nel senso che ficcavo la testa in ogni portone e guardavo le targhette delle cassette postali. Non avevo l’aria di una per male, e quindi mi lasciavano fare. Finché ad un certo punto trovai Dora Marcovich: sapevo che era di origini jugoslave. Suono un campanello e vengono fuori due tipe, una agghindata da pittore dell’Ottocento, l’altra nuda, con un drappo davanti. Dico, conoscete la signora Marcovich? Ah, la pazza. Sì, la pazza, al piano di sopra; ma tanto non le apre. Dunque era vero. L’avevo trovata. Feci le scale di corsa, ero dinnanzi ad una porta di legno ben sprangata. Pigiai il campanello. Si udiva la sonata K. 576 di Mozart… Lo ricordo come fosse ogg. Pigiai ancora; all’Allegro teneva dietro l’Adagio. Evidentemente era al piano. Non sentiva. Insistetti. Mozart cessò di colpo. Ci fu un lieve tramestìo. Qualche secondo di silenzio e… di nuovo il piano. Inutilmente ripiglia il campanello, aveva staccato la corrente. Le coinquiline che giocavano all’atelier avevano il numero di telefono. Come giustificazione del fatto che la ritenevano una schiodata di testa, dissero che la Marcovich farneticava di avere la casa piena di Picasso e giù a sghignazzare. La chiamai, ma niente.r Richiamai la sera e questa alzò subito il telefono e mi disse una cosa del tipo, Madame Dora Maar ne reponde pas au téléphone! forte. Mesi fa, alla sua morte , sono andati in asta i Picasso di Dora Maar…»
Proviamo a “Rovesciare il 900”
«Spesso mi sono chiesto perché la pittura fosse così progredita e perché la letteratura si fosse lasciato tanto distanziare». Lo scrisse Andée Gide nel suo Faux-Monnayeurs. Non ho competenze tali per dire se l’ammissione di Gide corrisponde alla realtà, ma mi piace molto pensare che davvero le arti figurative nel secolo scorso abbiano saputo metter a segno una progressione clamorosa. “Progressione” dà l’idea di un’intensità incalzante di esperienze che portano avanti la storia molto più di quanto si sarebbe potuto immaginare. Progressione è anche una coscienza che si fa sempre più acuta, pur nella molteplicità delle visioni e delle sensibilità. Io penso che, come diceva Testori (che pur è stato amico solo di un pezzo di 900…), l’espressione artistica abbia giocato a suo vantaggio un fattore costitutivo: quello di aver comunque sempre (o quasi sempre) a che fare che l’irriducibile fisicità del manufatto. E quello che poteva sembrare un vincolo si è trasformato in stimolo e fattore di forza.
Insomma, mi piace davvero pensare che il secolo passato sia stato, dal punto di vista delle arti figurative, davvero un grande secolo, forse uno dei più grandi. E che letture complessivamente un po’ “depressive” (venute dopo quelle ideologiche) non tengono conto della quantità di energia e anche di positività messa in campo. Sono letture scontate, stereotipate, che ingabbiano tutto il “nuovo” emerso. Per questo mi è venuta l’idea (e la voglia, soprattutto) di organizzare con l’Associazione Testori e il Centro culturale di Milano questo percorso, e di intitolarlo proprio Rovesciare il 900. È un percorso in otto tappe (la prima lunedì 25), che affronterà con la voce di esperti che hanno accettato questa “sfida” otto nodi (Elena Pontiggia, Marco Meneguzzo, Elio Grazioli, Flavio Fergonzi, Riccardo Venturi, Maria Teresa Maiocchi e Demetrio Paparoni). Avrebbero potuto essere infinitamente di più, ovviamente, a testimonianza di quanta ricchezza c’è stata in questo secolo. Il secolo più irruente della storia artistica. Mi piace provare a rivederlo come secolo vitale, positivo aldilà delle grandi inquietudini che lo hanno percorso. Un secolo che ha nelle Demoiselles d’Avignon la clamorosa porta d’accesso. (nell’immagine sopra, un disegno di Picasso dai Taccuini per le Demoiselles d’Avignon). Un quadro che ha dentro l’energia di una scossa tellurica, un quadro esito di una lotta, un vertice espressivo furioso che ha dato slancio a tutto il secolo. Come se Picasso avesse detto a tutti: si può fare, si può essere assolutamente moderni e assolutamente grandi (quindi anche classici) al livello dei grandi del passato. Cominciamo da lì.
Ultimissima su Picasso
Questa sera ultima visita guidata a Picasso. È stata anche per me un’esperienza, perché il cercare di spalancare alle persone l’orizzonte vero di Picasso diventa un esercizio che costringe a capire meglio e ad avere più chiare le idee in testa.
Mi sono mosso su due linee. Una più aneddotica: scandire le stagioni di Picasso seguendo il filo dei suoi rapporti con le varie donne della sua vita. C’è una relazione tra l’operare artistico e questi amori che non è da sottovalutare: ogni donna suscita in Picasso un approccio diverso alla realtà. La sala ipersensusale della mostra milanese con i nudi di Marie Thérese Walter parla da sola (diceva Hockney che Picasso per aver dipinto quadri come questi deve aver passato davvero tanto tempo a letto con lei). La passione successiva con Dora Maar provoca un cambio di registro, nella direzione di una drammaticità a tratti quasi ossessiva.
La seconda linea invece è stata quella di insistere molto sugli anni cruciali della genesi e dell’affermazione del cubismo. Una stagione breve, ma oltremodo decisiva. È quella la stagione in cui Picasso combatte la sua vera e decisiva battaglia, dopo la quale si ritroverà forte di una libertà e di una spavalderia che gli permetteranno di andare al galoppo per il resto della vita, facendo tutto e anche a volte il contrario di tutto.
Ma quale fu questa battaglia? Innanzitutto non fu battaglia metaforica, perché i testimoni profondi di quella stagione, Gertrude Stein e Guillaume Apollinaire ne parlano proprio in questi termini. È una lotta ci dicono. Un combattimento. Di una prova eroica scrive addirittura Gertrude. «I grandi poeti e i grandi artisti hanno come funzione sociale quella di rinnovare senza requie l’apparenza che riveste la natura agli occhi degli uomini. Senza i poeti e senza gli artisti gli uomini si annoierebbero rapidamente della monotonia naturale… e ogni ordine svanirebbe», scrive Apollinaire.
Il cantiere delle Demoiselles conferma la drammaticità della prova che Picasso affronta: sono centinaia i disegni e i bozzetti preparatori; sei mesi di lavoro per arrivare a quel quadro che nessuno gli aveva commissionato e che solo doveva far nascere come per obbedire a una spinta che dentro lo dominava («la pittura mi ha sempre preso per mano e mi ha fatto fare quello che lei voleva», diceva Picasso). Picasso deve dare struttura a una visione nuova, vergine cioè contemporanea, della realtà. Qualcosa che non si era mai visto. L’epicentro della battaglia è il corpo; il corpo della donna, in particolare, forza generatrice di vita e polo di irresistibile attrazione. Picasso si taglia i ponti alle spalle, cala quei tendaggi alle spalle delle cinque creature selvagge. Non c’è più una possibilità di rifugiarsi nello spazio comunque sicuro prodotto dalla prospettiva. C’è solo la superficie della tela su cui si gioca tutto.
«Le pose violente delle figure sembrano vogliano rompere lo spazio scialbo del dipinto, si scagliano l’una contro l’altra per ferirsi, come se volessero superarsi reciprocamente in durezza e impeto… Picasso è interessato soprattutto all’intensità corporea» (Werner Hofmann). Vuole arrivare a mettere più oggettività, più realtà dentro la tela: far sì che le forme non siano rappresentazione di quelle presenze, ma siano tutt’uno con esse. Per questo sono forme convulse, spezzate che però per rompere il velo devono emergere con una chiarezza nuova e senza confronti. Sono loro stesse il soggetto del quadro: non un tema, non una narrazione. Loro stesse nel loro bisogno feroce di rompere il velo, di mostrarsi al mondo, di “essere”. Lo sguardo selvaggio delle cinque donne dice questo, parla di una sfida lanciata: dice che non c’è altra ragion d’essere di quel quadro se non mostrare che loro ci sono. Mettono pressione, irrompono senza essere state chiamate. Non c’è più nessuno scollamento tra le forme con cui appaiono sulla tela e le forme che le fanno essere.
La dinamica delle Demoiselles perciò è una dinamica che rovescia i punti fermi. Senza più spazio alle spalle, il loro sguardo di un’intensità selvaggia traccia un punto di fuga che sta fuori dal quadro: è come un proiettile tracciante che perfora lo spazio. Così Picasso embrionalmente concepisce il cubismo, che sarà proprio il compimento di questo ribaltamento. «Non ci si rivolta contro le consuetudini dell’illusionismo per girare le spalle al mondo delle cose; si vuole oltrepassarlo, con un contributo di realtà più grande e più preciso». «Si tratta di portare nel quadro la stratificazione spaziale degli oggetti». «Il corpo, fino ad allora chiuso, viene aperto, comunica con ciò che gli attorno e quel che gli sta attorno entra nella forma chiusa ma ormai spezzata» (Hofmann). Picasso ha consapevolezza di quello che accadendo, che non si tratta dell’invenzione di un nuovo stile “moderno” (sarà questo alla fine l’orizzonte di Braque). Si tratta di aprire un terreno nuovo per la rappresentare (mettere in scena) la densità del reale, in senso libero, aperto, contemporaneo.ù
Come spesso i grandi balzi si generano da intuizioni semplici: è quel che racconta Gertrude Stein, quando dice che Picasso ha l’ambizione di restituire sulla tela lo sguardo proprio di un bambino quando è in braccio a sua madre. Quello sguardo totale che si può generare fissando un particolare; totale perché così ravvicinato (fisicamente e affettivamente). Uno sguardo che genera una visione straordinariamente coerente: perché i quadri della stagione breve del cubismo analitico mostrano una coerenza formale indiscutibile, che sfiora una perfezione. A chi guarda (noi) il compito di inoltrarci dentro quelle immagini, senza la pretesa “passatista” di ricomporle ma inseguendo quella quantità di piani, di prospettive, di strati, di forme. Non c’è più una leggibilità univoca. Ma non c’è una complicazione: il cubismo riduce la molteplicità dei dati visibili a poche famiglie di forme a cui riesce poi ad attribuire una certa realtà: si tratta di cose che “comunicano” tra loro per affinità. Ecco perché alla fine l’approdo è altamente poetico. «La chiarezza che ne accende le forme interne, li fa nuovi oggetti, veri oggetti» (Pasolini su Picasso)
Vedere Picasso con gli occhi di Gertrude
In questo dicembre fortunosamente picassiano, almeno per noi milanesi (38mila biglietti a settimana…), ho riletto il libretto di Gertrude Stein su Picasso (Adelphi). È un testo in cui la forza della tesi è prevaricante e quindi spiega le inesattezze che contiene e un procedere più a cerchi concentrici che rettilneo. La Stein non racconta una storia, racconta un’epica. Proprio per questo per conoscere Picasso non si può non leggerlo. Mi sono segnato queste tre intuizioni. La seconda in particolare è un’intuizione chiave.
Bruttezza. «Dallo sforzo per generare intensità, dalla lotta per generare questa intensità deriva sempre una certa bruttezza: chi viene dopo può fare, di questa cosa, una cosa bellissima, visto che è già stata inventata, sa quello che fa; è inevitabile invece che l’inventore, il quale non sa quello che inventa, faccia una cosa che ha la sua bruttezza».
Bambino. «Un bambino vede la faccia di sua madre, e la vede in modo completamente diverso da come la vedono gli altri. Non sto parlando dell’anima della madre, ma dei tratti, dell’intera faccia; il bambino la vede molto da vicino, è un faccia grande per gli occhi di un piccino, il bambino per un po’ vede solo una parte della faccia della madre, conosce un tratto e non l’altro: alla sua maniera, Picasso conosce le facce come un bambino, conosce le facce, la testa, il corpo… Ognuno è abituato a completare l’insieme con quello che sa: ma Picasso quando vedeva un occhio, l’altro non esisteva più, per lui esisteva solo quello che vedeva… Il cubismo di Picasso fu lo sforzo di fare un quadro con queste cose visibili e il risultato fu sconcertante per lui e per gli altri».
(nota: questo brano è stato letto dalla direttrice del Museo Picasso di Parigi nell’incontro di preparazione per le guide della mostra milanese. Scelta molto giusta, perché più di tante letture scolastiche, questa intuizione della Stein arriva davvero al cuore del cubismo d Picasso. Da parte mia aggiungerei, che quello di Picasso è anche l’occhio della madre: schiacciato sul bambino in senso fisico – lo tiene tra le braccia – e ovviamente in senso affettivo).
Vedere. «Le complicazioni sono sempre facili, ma una visione diversa da quella di tutti è molto rara. Ecco perché i geni sono rari: complicare le cose in modo nuovo è facile, ma vedere le cose in modo nuovo è difficile. Picasso vedeva qualcos’altro, non una complicazione diversa, ma una cosa diversa. Lui non vedeva progredire le cose come la gente le vedeva progredire nell’Ottocento, vedeva le cose progredire mentre essi non progredivano. Questo era il Novecento. In altre parole lui era contemporaneo alle cose e vedeva queste cose, non vedeva come gli altri, come tutti credevano di vedere, cioè come loro stessi le vedevano nell’Ottocento».
Giri di danza con Picasso
Per fortuna c’è Picasso. È il primo pensiero che mi è venuto uscendo dalla mostra che ha restituito finalmente Palazzo Reale di Milano alla sua dignità. Sono i quadri traslocati dal museo parigino dell’Hotel Salé, quindi il gioco è stato facile. Ma averli sotto casa è pur sempre una bella sensazione; e l’allestimento sobrio e spazioso studiato da Lupi, Migliori e Servetto scandisce il percorso con un ritmo che esalta l’individualità delle opere e crea degli insiemi in cui nessun quadro si accavalla sull’altro. Insomma Picasso è messo in condizioni ideali per colpire e affondare ogni nostra più riposta riserva nei suoi confronti.
Qualche piccola nota. Guardate quanti quadri tra quelli in mostra siano datati al giorno/mese/anno. Fatti in un lampo, con una facilità/felicità che sembra perdurare ancora davanti ai nostri occhi. L’indicare il giorno di esecuzione è un gesto di spavalderia, come una sfida al tempo per dimostrare di essere stato più veloce di lui. Così facendo Picasso scassa le regole che tengono il presente lontano da quel passato. La data indicata è sempre un “appena ieri”.
È evidentemente meravigliosa la sala degli anni 20 con le Donne che corrono sulla spiaggia (notate l’apertura a compasso di braccia e gambe della donna in secondo piano: uno slancio totale e senza riserve verso la vita); a fianco c’è uno dei quadri più belli della mostra, la Danse Villageoise. Un lui e lei, di una potente gioventù, allacciati in una danza d’altri tempi: ma qui Picasso va oltre l’esercizio di forza che gli riesce sempre in maniera paurosamente facile. Nello sguardo del ragazzo infila qualcosa che non era nel copione: lui non guarda lei, a cui pure è allacciato con un gesto che dichiara un affetto senza tentennamenti. Lui scruta davanti a sé, con una venatura di controllatissima inquietudine. Si legge in profondità come uno struggimento sul suo volto. Scruta il futuro, la strada che lo attende, i passi da fare. Non si crogiola nella felicità del presente, pur avendone tutte le ragioni. Gli è istintivamente chiaro che il vero senso di quell’istante è di svelare una promessa: e a quella lui guarda. Davvero un grande quadro, memorabile per l’idea di uomo che sa esprimere (un’idea che sarebbe piaciuta a Péguy; a proposito, avete notato che quel casuale alone azzurro attorno al volto sembra un’aureola mediterranea…)
Ed è bellissima la sala che segue, la più delicata perché arriva dopo gli anni top, quelli a cui Picasso era riuscito di mettersi nella scia di Giotto e Masaccio. La sala ha solo quattro quadri, tutti improvvisamente sgorganti colori a piene mani. Sono quattro finestre spalancate sulla bellezza femminile; corpi annodati con una felicità che va oltre ogni impudicizia e mette per una volta a tacere la prepotenza sessuale di Picasso. Quattro canti accesi dalla luce di quel sole che s’affaccia alle spalle del Nu à Boisgeloup.
Ma è come sempre solo una tappa. Alla fine degli anni 30, altro giro di danza: Picasso già torna a dipingere corpi come con la clava, a smontarli per possederli, o meglio per dimostrarne l’interiore potenza…
Tre pensieri random su Vermeer
Vermeer e Roma. Mi fa sorridere l’idea di Vermeer (e soprattutto degli altri “piccoli” olandesi) sia approdato a Roma. Loro furono antitetici a quello che era Roma in quei decenni. Tutti centripeti, tanto la Roma berniniana era centrifuga; tutti focalizzati su un microcosmo, mentre a tutto a Roma era macro. Un po’ claustrofobici contro la trionfante ariosità della città papalina. Due mondi che più lontani non si potrebbero immaginare. C’è una curiosa intervista sul Corriere della Sera a uno storico belga, Jan De Maere, che per spiegare Vermeer racconta il risucchio verso il privato che la società olandese subì con l’austerità protestante, dopo il 1627. Ci si veste di nero, chi è rimasto cattolico la cappella se la fa in casa, «si dà massima importanza all’essere normali, al controllo sociale». E fa un esempio: «Per esempio era scontato non chiudere le tende di casa, così da mostrare a tutti la propria vita, nulla andava nascosto». In fondo nella pittura olandese dei petits maîtres i quadri sono come quelle finestre spogliate di tende. Si vede dentro tutto. Anche Vermeer s’adatta a quello schema. Il che non gli impedisce di trovare punti di fuga. Come ha scritto Ungaretti, la pittura di Vermeer è tutta un “qui”, «ma a me pare che quel “qui” sia una vastità».
Si sa che Vermeer ha un bel debito verso Marcel Proust, che nella Prisonniére definì la Veduta di Delft il più bel quadro del mondo. «Una piccola ala di muro gialla (“petit pain de mur jaune”), di cui non si ricordava, era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente, simile ad una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che basta a se stessa». La cosa risaputa è che quel muro giallo non esiste e su questo “giallo” Lorenzo Renzi aveva scritto (edizione Il Mulino) un bellissimo libro cercando di non di risolverlo ma di spiegarne le ragioni. «Il solo muretto in predicato è quello all’estrema destra (in particolare quello centrale della serie della sequenza di tre muri), ma il colore giallo è quello del tetto inondato di sole. Proust deve avere associato il muretto di sinistra con il colore del tetto di destra». Un errore di superficialità? No, scrive Renzi: «Proust si documentava non per scrupolo di esattezza ma di verità». È a suo modo una chiave per capire Vermeer, che pur inseguendo un’esattezza, non si lascia mai definire da quella. È proprio ciò che lo distingue dai Petits maîtres. La sua è un’esattezza che scappa, che sfugge sempre di mano. Imprendibile come il pulviscolo nell’aria.
Vermeer e Picasso. Un terzo pensiero bizzarro mi veniva mettendo in fila alcuni dati materiali della vita di Vermeer: lentissimo a dipingere, un catalogo di poche decine di quadri, un mercato locale, una vita alle prese con problemi economici, una vita per altro breve, e anche molto riservata, monogamo, un’eredità di poco conto. Rovesciate tutti questi dati e avrete il profilo di Picasso, l’altro mattatore dell’autunno espositivo…
Dodici motivi più che sufficienti per amare Picasso
Me ne sono segnati 12, di motivi. Ma potrebbero presto diventare di più. Magari li aggiungete voi. È un gioco, ma serve a farsi un’idea più chiara sul perché Picasso, che piaccia o non piaccia, riesce sempre a essere (o a sembrarci) il più grande.
1. È un genio bambino, bambino sino all’ultima pennellata della sua vita.
2. Ha la baldanza del semplificatore nell’era tristissima delle complessità.
3. Non riesce ad essere ideologico neanche quando si propone di esserlo.
4. Riesce ad essere di nuovo masaccesco, senza avere più il mondo di Masaccio
attorno a sé (per conferma vedi immagine qui sopra).
5. Non ha dovuto scrivere niente per spiegare quel che era.
6. È un artista sessualmente irrefrenabile, senza mai essere vizioso.
7. Ha un ego gigantesco, ma lo rovescia in prodigalità espressiva. Cioè non tiene
il suo ego per sé.
8. È uno che costruisce anche quando distrugge (questa l’ha detta lui di sé).
9. Per lui l’arte non è mai fatica, nel senso che tutto gli riesce magnificamente
facile.
10. Non aveva mai bisogno di arrivare primo per dimostrare di essere il primo.
11. Non ha mai ceduto alla tentazione di fare della pittura una religione (né di
fare pittura religiosa).
12. Più che dipingere, ha scaraventato figure e forme sulla tela.
Pensieri fluidi a proposito del Guggenheim di Ghery
«Quando il Guggenheim aprì i battenti, ciò che rimaneva della prosperità di Bilbao era un lungofiume dickensiano disseminato di arruginite piattaforme per i cargo e di spettrali magazzini». Così scriveva Danny Lee, inviato del New York Times. Faccio questa citazione perché alla base del fenomeno Guggenheim c’è un fattore che nell’incontro tenuto al Museo Diocesano ieri sera non ho esitato a definire miracolistico. L’architettura di un non architetto (mai laureato) come Frank Ghery che plana su una città uscita malconcia dal fordismo riuscendo a trascinarla ad un’imprevedibile riscossa, ha qualcosa di miracolistico. È tale addirittura nel suo Dna: con quella capacità di conciliare gli opposti. È artificiosità pura, ma poi insegue forme organiche (dall’alto si leggono i petali di un fiore; di lato la sagoma di un grande pesce); è arbitrarietà, ma controllatissima; è colossale rispetto alle misure di una città come Bilbao, ma poi la scopri integratissima, addirittura osmotica rispetto al fiume e connessa senza forzature con gli assi di scorrimento della città. Notavo che l’escamotage di far passare l’edificio sotto il ponte che attraversa il Nervion e farlo rispuntare al di là con la torre che si apre a doppia punta, sembra una mimesi del fiume: come l’acqua anche l’architettura di Ghery scorre, fluisce sotto il ponte. Bello quello che dice un architetto antitetico a Ghery come Gregotti: «Ghery sembra aver guardato con grande cura l’ambiente circostante ed aver scelto la metafora della grande nave, e quella della memoria della tradizione siderurgica della città, per costruire l’eccezionale argentea immagine del suo museo».
Notavo soprattutto che per quanto “miracolistica” l’architettura di Ghery si nutra di rapporti, non espliciti ma profondi. Notavo ad esempio che lo sconfinamento morfologico dell’architettura nel vegetale o nell’animale è esperienza che Gaudì aveva portato a livelli ancor più estremi. Notavo che ci sono quadri cubisti di Picasso (anche in collezione Guggnheim) possono anche essere visti come sovrapporsi di squame con tutte le sfumature del grigio (vista da vicino la copertura di titanio sembra cercare effetti simili). Infine notavo con grande sorpresa che sempre il Guggenheim (a Venezia) ha in collezione una scultura di Boccioni che sembra il prototipo della forma del museo di Bilbao. Non è un pesce ma un cavallo (1915); però siamo sempre in un orizzonte di fluidità, dove una specie finisce nell’altra. Certo è sin ovvio sottolineare che il Guggenheim geneticamente nasce dall’idea dinamica della scultura di Boccioni. È architettura instabile, magmatica, mobile. È una forma che non “acchiappi” perché ti sguscia dallo sguardo, cambiando connotati ad ogni istante. Ma insieme ha la pigrizia solenne propria degli edifici fuori scala: come un gigantesco animale messo a riposo, che di tanto in tanto ci si aspetti dia uno scossone.
PS: Che ci sia qualcosa di miracolistico in questo edificio lo ha ammesso lo stesso Ghery. «Costruire questo museo è stato un po’ come costruire Notre Dame. Ma qui la città ci era già cresciuta attorno».
PS/2: Notavo che le gigantesche sculture di Richard Serra, con i loro passaggi angusti, sinuosi sono il contraltare dell’edificio che li ospita. Come passare da uno spazio cosmico, a quello delle stradine assediate di una cittadina medievale.
PS/3: L’idea di far colorare di rosso da Daniel Buren l’arco del ponte sul Nervion mi sembra sia stata una pessima idea, fuori luogo e di disturbo. Come l’avrà presa Ghery?
Un grande dimenticato del 2011, Renato Guttuso
Il 2011 sono stati cent’anni dalla nascita di Renato Guttuso, ma l’anniversario è passato via in una sostanziale indifferenza. Eppure sarebbe stato interessante riaprire oggi il capitolo che lo riguarda. Guttuso non è un artista a cui si debbano invenzioni o intuizioni di quelle imprescindibili. È sempre stato nella scia dei tempi e di alcune linee maestre aperte da altri (Cézanne, Picasso), senza mai nasconderlo. C’era un fondo irriducibile di sincerità in lui che lo rende ancor oggi umanamente e culturalmente interessante. Ricordo di un’intervista all’Europeo in cui spiegava la sua diffidenza dall’espressionismo, che agiva facendo violenza sulle cose, mentre a lui interessava portare a galla la violenza delle cose, dove violenza non era una categoria affatto negativa, ma alludeva alla vitalità delle cose. “Un artista deve cercare la realtà come essa è, cercare di raggiungere le cose come sono”, diceva. Affermazioni persin banali, ma che lasciano intendere quel suo desiderio di sfilarsi dalle spire del soggettivismo. Che ci sia riuscito è un’altra questione: si può dire che questa intenzione la si scorge sempre davanti a tutte le sue opere più riuscite.
Ma in Guttuso c’è un altro aspetto interessante connesso a questo: è la malinconia, conseguenza di quel senso di fallimento e di inadeguatezza rispetto a quello che avrebbe voluto essere. C’è uno scollamento tra le cose e il modo con cui le cose rifluiscono anche in un’interiorità amica delle cose come la sua. C’è in Guttuso come un’impossibilità di adesione netta e semplice, a cui pur aspira. C’è un’intercapedine che si frappone tra il suo sguardo senza riserve e ciò che poi il suo artista metabolizza. E onestamente Guttuso non censura questa sua difficoltà. Basta vedere i ritratti dei primi anni, tra cui spicca quello ad Antonino Santangelo, del 1942, uno dei grandi quadri del dopoguerra, certamente uno di quelli di più intensa partecipazione umana alla temperie di quella stagione (un quadro, per dirla tutta, umanamente memorabile). C’è in questo quadro così aderente al piano delle cose, un senso di irrimediabile sconfitta, una malinconia che va ovviamente in rotta di collisione con tutte le certezze ideologiche. È questa sincerità squadernata che rende Guttuso un artista irriducibilmente simpatico nel senso più profondo e coinvolgente del termine. Simpatico cioè amico. Cioè innamorato delle cose, ma ferito dalla consapevolezza che quelle stesse cose erano destinate a sfuggirgli (quanto è lontano da lui il prepotente senso di possesso picassiano). Diceva sempre che l’artista vero è uno che va allo sbaraglio. Anche nella coscienza di non portare a casa quel che desiderebbe. Guttuso in fondo è uno che, con tutti i suoi limiti, è andato allo sbaraglio rispetto alla realtà e rispetto anche a se stesso. Per questo sarebbe stato molto salutare riscoprirlo.