Robe da chiodi

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Corpus Domini, un titolo che pesa

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La scelta di ricorrere alle impronte digitali degli artisti per il manifesto e la copertina del catalogo di Corpus Domini, la mostra aperta a Palazzo Reale a Milano, suona come una chiara dichiarazione programmatica: il primo corpo con il quale si deve fare i conti è proprio il corpo dell’artista. Le impronte degli artisti viventi ci sono quasi tutte (Roberto Gober ha mandato un certificato di nascita). Per quelli che invece non ci sono più, hanno messo i loro pollici i componenti del team curatoriale. La sequenza di impronte manda un doppio messaggio. Da una parte ci dice che i corpi non sono astrazione, ma ingombrano e sporcano sempre la storia con la loro scia di fisicità. Dall’altra parte ci avverte che sui corpi oggi incombe l’invasività di un controllo sempre più pianificato. 

Nelle sale di Palazzo Reale, dove la mostra concepita da Francesca Alfano Miglietti è stata allestita, i corpi, o ciò che potentemente li evoca, hanno potuto mettere in scena una loro rivincita. Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima è un progetto di lungo corso, cullato dalla curatrice con la complicità di un personaggio unico come Lea Vergine, cioè di colei che già nel 1974 aveva esplorato l’esperienza della Body art. A Lea Vergine è dedicata infatti la prima sala del percorso, con una vetrina dove sono raccolte le sue pubblicazioni che testimoniano un’attenzione quasi militante sul tema del corpo nell’arte. Lea Vergine a Palazzo Reale aveva curato nel 1980 una mostra storica, quella dedicata all’Altra metà dell’avanguardia. È proprio grazie alla progressiva, crescente spinta impressa dalle artiste con la loro sensibilità che nel corso del Novecento il mondo culturale è tornato a fare i conti con l’irruzione dei corpi sulla scena dell’espressione figurativa: l’esperienza di Louise Bourgeois, purtroppo assente in questa mostra, ha rappresentato da questo punto di vista un passaggio capitale a partire dalla fine degli anni Quaranta, con la scelta di mettere al centro del proprio lavoro la sfera delle relazioni intime, dando loro forme poetiche, disinibite e potenti.

«Quella pensata insieme a Lea», scrive Alfano Miglietti nell’introduzione al catalogo pubblicato da Marsilio, «era “La mostra sul corpo nell’arte”, una mostra sul corpo nell’arte del Novecento, un’esposizione che avrebbe somigliato alle ricerche di entrambe, vicine e diverse. Corpus Domini nasce come progetto altro, come necessità di spostamento». Lo spostamento ha portato a orientare il progetto dall’orizzonte della Body Art a quello dell’Iperrealismo e soprattutto a dare spazio alle istanze dettate dal presente, a cominciare dall’emergenza dei corpi migranti. Si tratta di un’emergenza che ha anche delle ricadute concettuali, perché in tanti casi ci troviamo di fronte a corpi cancellati, che si palesano quindi sotto altre specie. 

Nel percorso della mostra si può ad esempio intercettare un filone di opere che parlano dei corpi attraverso gli involucri che li hanno ospitati, gli abiti in primis. In una delle prime sale ci si imbatte nella montagna nera di Le Terril Grand-Hornu, una delle ultime opere di Christian Boltanski. Le Grand-Hornu è una regione mineraria del Belgio; troviamo ammucchiati, fino a sfiorare il soffitto della sala, sotto una luce fioca, migliaia di vestiti da lavoro scuri che richiamano quelli indossati per tanti anni, ogni giorno, dai minatori. Abiti densi di corpi che hanno assorbito l’oscurità della terra. 

C’è molta densità anche nell’opera di Kimsooja. L’artista coreana è presente con quattro dei suo Bottari, fagotti fatti con lenzuoli colorati che contengono tutto il necessario per esistenze nomadi: sono i lenzuoli in cui si viene avvolti alla nascita e con i quali si viene sepolti nel momento della morte. Curiosamente anche Dayanita Singh espone dei fagotti, questa volta in fotografia: si tratta di tessuti sfumati di rosso che custodiscono plichi di documenti presi da archivi indiani. Time Measures è il titolo dato a queste opere, chiamate ciascuna a nascondere e proteggere i dati di una vita. Il muro di valigie di Fabio Mauri evoca invece abiti che sono stati drasticamente separati dai rispettivi corpi; Il Muro Occidentale o del Pianto è come un deposito bagagli ab aeternum, perché nessuno passerà mai a ritirarli. Sul muro una piccola edera rampicante stende pietosamente i suoi rami. Lo fronteggia un altro muro, costruito con bauli metallici made in Cina, dall’aspetto molto aggressivo e carcerario: al centro uno schermo mostra l’esecuzione capitale di un giovane attivista arrestato nei giorni della rivolta di Piazza Tienanmen. 

Nella sala contigua centinaia di scarpe legate da una raggiera di fili di cotone rosso “camminano” in assenza di corpi: Chiharu Shiota, un’artista giapponese che si era fatta notare con un’installazione ugualmente corale all’ultima Biennale, le ha volute tutte spaiate. Sembra un’opera nata da un tacito patto di condivisione a distanza e i fili, con quell’andamento così ordinato e lirico potrebbero simboleggiare l’aspirazione, spesso repressa, a sperimentare percorsi comuni. 

L’Iperrealismo è l’altra nota dominante della mostra e introduce il tema dell’assedio che consumismo e tecnologia hanno portato alla realtà fisica dei corpi. L’Iperrealismo taglierà a breve il traguardo di cinquant’anni di storia, essendo uscito allo scoperto a documenta 5 di Kassel nel 1972, ma la sua parabola è tutt’altro che esaurita: in mostra si va dall’opera di John Deandrea del 1971, passando per il classico Douane Hanson e approdare a Marc Sijan e Gavin Turk, tutt’e due con lavori del 2015. Un’energia manipolatoria fa irruzione invece nella scultura di Marc Quinn, interprete di inquietanti scenari del post umano con il suo uomo gravido o con la Venere metropolitana plasmata in cemento e incisa di cicatrici. 

Se un appunto si può fare a questo progetto espositivo, è quello di non avere fatto pienamente i conti con il titolo, così potente ed evocativo. Corpus Domini contiene quel genitivo che, oltre a essere fattore cardine per chi crede, è anche un fattore che innesca una quantità di ipotesi di lavoro e di suggestioni, come si può evincere dal bel testo in catalogo del cardinal Gianfranco Ravasi, come pure da quello di Chiara Spangaro. Del resto ci sono opere in mostra che possono anche essere lette in raccordo con quel titolo: lo struggente busto d’uomo di Zharko Basheski, artista macedone, è in fondo un contemporaneo Cristo agonizzante; gli organi umani ricostruiti nella fragilità del vetro e disposti sul tavolo da Chen Zen sono come commoventi reliquie di un corpo sociale che chiede un senso per le proprie sofferenze. E il continuo ritorno dei vestiti come materiali sui quali tanti artisti lavorano, richiama la veste di cui Cristo è spogliato e che viene giocata ai dadi dai suoi aguzzini. 

Quel titolo ha infatti un tale contenuto di storia e di memoria che non si può pensare risuoni neutro e non chieda di stabilire dei raccordi. Del resto il “corpo glorioso” evocato nel sottotitolo per indicare una situazione relativa al passato, nella gran parte dei casi era anche un corpo ferito, segnato da altre “rovine”. Basta entrare in Duomo per rendersene conto: come ogni anno in questo periodo, tra le navate sono esposti gli straordinari quadroni con storie e miracoli di San Carlo, iperbolica rappresentazione di una fisicità assediata da un’altra dolorosissima pandemia di oltre quattro secoli fa. Attraversare la piazza e andare a vederli è un utile completamento all’esperienza di questa mostra.

Pubblicato su Domani, 14 novembre 2021

Antony Gormley Creta / Clay, (14 elementi / elements) Courtesy l’artista / the artist e / and Galleria Continua Foto: Stephen White & Co.

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Gennaio 15th, 2022 at 10:18 am

Emma Ciceri/1. Da una schiena all’altra

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La mano di Emma che accarezza la schiena di Ester. Lì vicino c’è la Pietà Rondanini, con quella schiena della madre ricurva sul Figlio. È davvero intenso e “necessario” il dialogo che Emma Ciceri ha instaurato con l’ultimo capolavoro di Michelangelo.

Grazie alla disponibilità della direzione dei Musei del Castello Sforzesco, ha potuto stare a lungo, a tu per tu con la Pietà, nei giorni di chiusura. Lei ed Ester a vivere in quel contesto una condizione di vicinanza che da quando Ester è nata, è diventata per loro una condizione quotidiana e inalienabile. È nata così “Nascita Aperta”: due video che vanno in simultanea, dove gli stessi gesti si rimbalzano, compiuti in casa e al museo, cioè nella “casa” della Pietà. La presentiamo lunedì proprio al Museo della Pietà (dalle 14 alle 18) dove poi l’opera resterà per un mese: il progetto è di Casa Testori, curato da Gabi Scardi. L’installazione, ha scritto Gabi Scardi, “è una dichiarazione di adesione all’esistenza in ogni sua forma, anche là dove la vita si fa insondabile”. Aggiungo che è un’opera che ha la forza di una complementarietà: è complementare alla Pietà, perché dimostra come questo capolavoro sia “necessario” alla nostra vita. “Nascita Aperta” è un titolo che oltre ad essere bellissimo contiene un paradosso: la Pietà è immagine umanissima ma di una morte. Associarla alla Nascita che ogni giorno si compie nel rapporto tra Emma ed Ester, diventa una chiave per andare in profondità rispetto a quel capolavoro. Che quindi parla di vita, nella forma drammatica e anche dolcissima di un abbraccio sconfinato.

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Ottobre 9th, 2021 at 5:36 pm

Emma Ciceri/2. La Pietà come Nascita

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Ci vogliono ragioni profonde e anche una grande delicatezza per entrare in dialogo con un capolavoro impossibile da “circoscrivere” come la Pietà Rondanini di Michelangelo. Le ragioni di Emma Ciceri non sono molto distanti da quelle che hanno mosso il vecchio Michelangelo davanti a quel blocco di marmo. È un senso di infinità che si spalanca dentro la percezione di una finitezza, di una irrevocabile imperfezione. È quella dimensione solidale dei corpi, che in forza d’amore ribaltano la gravità della fatica e del limite in esperienza ascensionale.

Le ragioni per lavorare al cospetto della Pietà stavano dunque in una corrispondenza con quel capolavoro, vissuta e pensata. Emma si è accostata in punta di piedi, come a cercare riscontri tra la propria esperienza di madre e quella fissata, o meglio erosa, nel marmo da Michelangelo. Ha così trovato un’eco di quella dimensione imprevedibile che consiste nello scoprirsi sostenuti nel momento in cui si è sostegno: un confluire dei corpi in relazioni dove i ruoli non sono più rimarcabili, tanto che, come lei stessa ha confessato, è approdata alla convinzione che «la regia di “Nascita Aperta” dovesse essere di Ester».

Questa energia di ascolto ha trovato poi un suo corrispettivo nell’esito: il video è un lavoro che trova la sua intensità proprio nella delicatezza con cui sta un passo indietro, vela, allude, stabilisce corrispondenze silenziose. La scelta allestitiva è stata del tutto coerente con questa modalità di linguaggio: i due schermi, volutamente di dimensioni ridotte, sono stati collocati in una delle nicchie dell’Ospedale Spagnolo, protetti da una struttura a libro, appartati. E proprio per questo in profonda relazione con la Pietà.

Come Casa Testori siamo stati felici di accompagnare Emma Ciceri in questo percorso che l’ha portata ad operare all’ombra di un’opera che Giovanni Testori tanto amava. Credo infine che questa esperienza, resa possibile dall’apertura intelligente e dallo spirito di collaborazione della dirigenza del Castello Sforzesco, indichi una modalità vera e non strumentale di relazione tra arte contemporanea e opere del passato. Con tutta l’umiltà che ha caratterizzato il suo intervento, Emma Ciceri ha reso evidente come la Pietà Rondanini, capolavoro non finito e infinito, si prolunghi dentro le fibre della vita presente. Il titolo scelto da Emma allude, credo, anche a questo.

(Prefazione al volume di prossima uscita dedicato a “Nascita Aperta”)

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Ottobre 9th, 2021 at 5:32 pm

Ettore Sottsass su Enzo Mari

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«Che l’Enzo Mari tra tutti quelli che fanno questo buffo, ambiguo, incerto e scivoloso mestiere che oggi si chiama “design”, sia uno che insegue con più disperazione e accanimento il sogno di sottrarlo (questo mestiere) al suo peccato originale, di riscattarlo dalla corruzione, di metterlo in qualche modo a disposizione della storia malinconica della gente che cammina per le strade piuttosto che a disposizione delle presunzioni stizzose delle aristocrazie al potere, questo si sa; lo sappiamo benissimo e proprio per questo – se posso dirlo qui – gli vogliamo bene: per questa sua impaurita dolcezza per la quale, se si mette a fare qualche cosa, lo fa sperando di riempire in qualche modo qualcuno di quei vuoti, orribili, neri come buchi di peste, che si vedono e non si vedono (ma che ci sono) sotto la finta pelle perfetta di questo ansante corpo della “civiltà avanzata”».

Tratto dal catalogo della mostra di Enzo Mari alla Triennale di Milano

Written by gfrangi

Gennaio 29th, 2021 at 9:02 am

Kjartansson alla Chiesa del Lazzaretto

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Se Gino Paoli incrocia san Carlo

Adesso che va a terminare si prova un filo di nostalgia: nostalgia per quella meravigliosa canzone che per un mese è risuonata in quel piccolo ottagono, le cui dimensioni sono inversamente proporzionali al grande carico di memoria. L’intervento che Ragnar Kjartansson (a cura di Massimiliano Gioni, progetto di Fondazion Trussardi) ha pensato per la chiesa di San Carlo al Lazzaretto a Milano aveva la grazia di una cosa immaginata e realizzata nel posto giusto, al momento giusto, e soprattutto (che è la cosa più rara) con il tono giusto.

Il posto è il cuore di quello che un tempo era il Lazzaretto ai margini della città, fuori da porta Orientale. I pilastri e gli archi sono gli stessi che si erano presentati agli occhi di Renzo nel capitolo XXXVI dei Promessi Sposi. «Il tempietto ottangolare che sorge elevato sul suolo d’alcuni gradi…», scrive Manzoni. Si è creato così un collegamento, concreto e non solo simbolico, con una stagione che ha segnato la storia e la memoria della città: il grande stemma di San Carlo iscritto nel pavimento alle spalle degli organisti-cantanti era lì a sottolinearlo. San Carlo era anche sulla pala dell’altare, mentre comunicava, in quello steso luogo, i malati di peste. Curioso il fatto che il testo di Gino Paoli evochi uno spazio senza più pareti, proprio com’era in origine questa piccola chiesa, aperta su tutti i lati perché gli ospiti del Lazzaretto potessero assistere ai riti.

Anche il momento scelto per proporre questo rito condiviso è sembrato “psicologicamente” azzeccato. Con molta delicatezza Kjartansson ha offerto al pubblico la possibilità di un’esperienza riparativa: quella per rimarginare la profonda ferita collettiva causata dalla pandemia. All’artista islandese è riuscito di intercettare con sorprendente sensibilità un bisogno inespresso, un tacito desiderio di senso di fronte all’angoscia sperimentata: la canzone di Gino Paoli è diventata così la struggente colonna sonora di questo desiderio, una preghiera laica spalancata verso “cieli immensi” e “alberi infiniti”. 

Infine il tono: è il sigillo poetico all’architettura di questo progetto. È un tono profondamente poetico, trattenuto nell’allestimento, giustamente ridotto all’essenziale, rispettoso del luogo (la lucina rossa del tabernacolo segnalava il fatto che quella restava sempre una chiesa). Kjartansson ha lasciato lavorare i materiali che aveva tra le mani, permettendo loro di contaminarsi. Naturalmente il materiale centrale era la canzone di Gino Paoli, trasformata in scultura sonora, che come l’artista ha sottolineato, contiene la capacità di trasformare lo spazio, che è una «caratteristica fondamentale dell’arte». Il riferimento non è solo allo spazio “chiuso” delle case a cui siamo stati costretti nel lockdown. È lo spazio della nostra immaginazione che è chiamata a pensare un mondo che non può e non deve essere come quello di prima.  

Scritto per la newsletter Telescope il 25 ottobre

Written by gfrangi

Novembre 10th, 2020 at 9:22 am

Casa Iolas, sogno smisurato e smisurato disastro

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Smisurato è stato il sogno che l’ha fatta essere. E smisurata è stata la tragedia che l’ha ridotta in rudere. È all’interno di queste opposte iperboli che tra 1962 e 1987 si è consumata l’epopea di Casa Iolas, la villa che uno dei più grandi e chiacchierati galleristi del secondo Novecento aveva costruito ad Agia Paraskevì, sobborgo a nord di Atene.

Esagerati fasti ed esagerata rovina: un po’ com’era nel dna di Alexandre Iolas, eccentrico all’eccesso, geniale come pochi. Era nato da genitori greci ad Alessandria d’Egitto nel 1907, con il nome di Constantine Koutsoudis. La sua prima ambizione, coltivata nella Parigi degli 30, era quella di fare il ballerino. Anni che aveva comunque messo a frutto frequentando il mondo artistico da Picasso a Braque, a Max Ernst, De Chirico, Cocteau… Così quando per un incidente nel 1944 mise fine alla carriera sul palco, era già pronto per iniziarne una nuova come direttore di una galleria newyorkese, la Hugo Gallery, fondata da esponenti della crème del capitalismo americano. Nel 1952 aveva messo a segno il primo colpo: esordio di un ragazzo dalla pelle chiara arrivato da Pittsburg bravo a disegnare scarpe per la moda. Era Andy Warhol e la mostra si intitolava “Fifteen Drawings Based on the Writings of Truman Capote”. Così lo dipinse Iolas: «Quando hai un’espressione stupida come quella di Andy nell’istante in cui tace, prima che scatti il sorriso, puoi fare tutto quello che vuoi al mondo». Amico, confidente e art dealer di tanti tycoon americani, li aveva guidati nel costruire le rispettive collezioni, a volte fantasmagoriche, come nel caso dei De Menil, emigrati da Parigi a Houston per scappare all’occupazione nazista. Nel 1955 aveva inaugurato una galleria sua in società con un altro ex ballerino, Brooks Jackson. Di lì, a cascata, sarebbero arrivate le aperture di sedi a Parigi, Milano, Madrid, Città del Messico e Roma, quest’ultima in società con Mario Tazzoli.

Non aprì ad Atene, perché per la città delle sue radici aveva un sogno più ambizioso: costruire una casa che avrebbe dovuto diventare insieme punto di riferimento immancabile per il jet set dell’arte mondiale e centro di residenza per sostenere gli artisti. Il cantiere durò dal 1965 al 1968. In realtà come ha raccontato Renos Xippas, cugino in seconda di Iolas e a sua volta gallerista a Parigi, «… all’inizio era stata concepita come una piccola casa di campagna dove alloggiare le sorelle e la nipote. Poi, col tempo, il progetto gli
sfuggì di mano e cominciò ad aggregare a quel primitivo nucleo centrale una successione di corpi, di volumi, di padiglioni costruiti attorno a un progetto espositivo della collezione privata che era tutto nella sua testa. Nessuno abitò mai realmente quegli ambienti. Nei periodi di permanenza ad Atene Iolas viveva in cucina, in compagnia di Sula, la sua governante. Lei gli preparava i piatti dell’infanzia, gli faceva le carte e gli accarezzava la testa quando aveva il raffreddore» (questa testimonianza di Xippas è contenuta nel bel catalogo della mostra dedicata alla vicenda di Casa Iolas, che nel 2017 si era tenuta al Palazzo Costa Grimaldi di Acireale, a cura di Cristina Quadrio Curzio, Leo Guerra e Stefania Briccola). 

Chi vide la casa negli anni fulgenti ricorda il soffitto laminato argento, la scala a chiocciola a corto raggio, le copie di torsi virili da Prassitele e Lisippo, la parete con disegni su carta d’oro di Ioannis Kardamatis. E poi quadri e oggetti di ogni tipo in un mix sfacciatamente hollywoodiano. Si dice, ma nulla lo conferma, che per la progettazione dell’edificio Iolas si fosse avvalso di Dimitris Pikionis, il grande architetto greco, che aveva firmato il progetto della trama di camminamenti di fronte all’Acropoli, alla base dei Propilei, i cosiddetti “sentieri di Pikionis”. Secondo la testimonianza del cugino Xippas, il fregio minoico che come un nastro incorniciava l’intero edificio sarebbe stato realizzato da un’indicazione di Pikionis.  Per arrivare all’ingresso della casa si percorreva un sentiero pavimentato da 55 lastre di marmo pario. E il marmo con il suo bianco dominava anche all’interno, anche negli scaffali della biblioteca dove i libri erano a loro volta tutti ricoperti di plastica, ugualmente bianca. «Era un palazzo rivestito di marmo», ha testimoniato Xippas. «Il marmo era economico allora e pratico. Non si sporcava e si lavava con acqua. Mio cugino era un uomo pratico sotto certi aspetti. Il marmo è un materiale eterno e forse credeva di essere eterno anche lui». Con il marmo pario Iolas aveva pavimentato anche la galleria milanese, aperta nel 1970 (ma già dal 1967 aveva una sede in città) in via Manzoni allo stesso numero civico del Museo Poldi Pezzoli: galleria che era stata progettata dall’amico Giovanni Quadrio Curzio. 

Altro oggetto feticcio nella casa ateniese era il “Golden Cloth” di Marina Karella, artista greca moglie del principe Michele di Grecia. Si trattava di un’installazione con una poltrona nascosta da una coperta; quando Iolas la vide le chiese di fonderla in bronzo e di darle una patina d’oro. A fianco di pezzi antichi Iolas schierava con assoluta disinvoltura gli oggetti in metallo creati dalla fantasia di Claude e François Lalanne, “les Lalanne”, animali che popolavano la casa, come la grande rana collocata nel bagno. Erano fantasmagorie dispiegate in assoluta libertà in quegli spazi disegnati con mente “attica”, «dove giovani bellissimi che apparivano e scomparivano tra le stanze… Tutto era parte della sua scenografia», come ricorda Fausta Squatriti, artista milanese che per Iolas aveva disegnato cataloghi e manifesti delle mostre, sempre eleganti e rigorosi (aveva fatto disegnare un font apposito). 

Esistono rare testimonianze visive di quegli interni. C’è un servizio di “Vogue America” del 1982, dove Iolas compare sull’ingresso di casa vestito in doppiopetto bianco. E ci sono le sequenze di “Consiglio di famiglia”, un film del 1986 di Costa Gavras con Fanny Ardant protagonista. In una scena esilarante si vedono due gemelli bulgari in pigiama e con i capelli ossigenati che si divertono a vandalizzare alcuni arredi della casa e anche una tela di Picasso. È una sequenza amaramente profetica perché nel frattempo su Iolas si era abbattuto un ciclone scandalistico, un vero rovesciamento del destino degno di una tragedia greca. Il gallerista aveva licenziato Anonis Nikolaou, un travestito che si faceva chiamare Maria Kallas e che lavorava in casa occupandosi della collezione. L’accusa era di alcolismo e di furti ripetuti. Anonis si vendicò con un’intervista al quotidiano “Avriani”, nella quale accusava Iolas di traffici di opere d’arte, di pedofilia e di spaccio di droga. La campagna stampa fu violentissima. Il quotidiano aveva addirittura pubblicato il numero di telefono di Iolas invitando i lettori a chiamarlo e maledirlo. Costa Gavras promosse una petizione in difesa del gallerista firmata da 150 personalità europee, tra le quali François Mitterrand. Iolas, malato di Aids, aveva lasciato Atene riuscendo a seguire l’ultimo progetto espositivo: “Last Supper”, il ciclo di lavori di Andy Warhol attorno al capolavoro di Leonardo, esposto alla Galleria del Piccolo Credito Valtellinese (il tramite era stato Giovanni Quadrio Curzio) in Corso Magenta a Milano. All’inaugurazione, nel gennaio 1987, Iolas non aveva potuto presenziare perché per una crisi era stato ricoverato nell’ospedale di Treviglio. Sarebbe morto a giugno, a New York: il mese successivo avrebbe dovuto comparire davanti al tribunale ad Atene. 

Nel frattempo la casa era stata svuotata di quasi tutte le opere e abbandonata a se stessa, preda di ogni tipo di vandalismo. Oggi giace come un impressionante relitto, con i marmi ricoperti da scritte e da murales, i serramenti divelti; dei fasti che furono restano solo poche e devastate reliquie. Un “caso” che verrà riproposto in occasione di due mostre programmate per settembre a Milano: “Casa Iolas” è il titolo di quella che si terrà nella galleria di Tommaso Calabro, con una scelta di opere che erano passate dalla sua collezione e la raccolta dei cataloghi e dei manifesti delle sue mostre (con un omaggio di Francesco Vezzoli). Nella Galleria del Credito Valtellinese verrà invece allestita una rievocazione della storica mostra di Warhol, “Last Supper Recall”.

Questo articolo è stato pubblicato su Alias, 3 maggio 2020, con il titolo “Dorata sfacciataggine su marmo pario”.

Written by gfrangi

Maggio 19th, 2020 at 8:22 am

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Pasquale Trisorio e l’uomo con il cappello di Feltro

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Beuys a Villa Orlando ad Anacapri con la famiglia Trisorio

Articolo scritto per Alias, pubblicato l’8 marzo 2020

Lo scatto è del 13 novembre 1972: Josef Beuys, cappello di feltro in testa, giubbotto chiaro e il suo classico borsello a tracolla, cammina con un passo pieno di convinzioni verso l’obiettivo e quindi verso di noi. È un’immagine che accoppiata al suo famoso titolo, “La rivoluzione siamo noi”, avrebbe segnato un’epoca. Intorno a Beuys si scorge uno scenario un po’ delabré, da architettura mediterranea decaduta: è quello di Villa Orlandi ad Anacapri, una bellissima costruzione di fine Settecento in abbandono che due anni prima Pasquale Trisorio aveva accettato di risistemare e far rivivere. Trisorio ai tempi faceva parte della squadra di Modern Art Agency, fondata da Lucio Amelio nel 1965: una realtà che aveva aperto la scena artistica napoletana a personaggi come Robert Rauschenberg, Keith Haring, Cy Twombly. Trisorio raccontava di aver sentito “suonare i campanelli” quando la fondazione proprietaria della villa nel 1970 aveva lanciato la chiamata per trovarle una destinazione: ne avrebbe fatto la “cosa che non c’era”, un luogo di incontro e di ritrovo per tanti artisti, con possibilità anche di stare per lunghi periodi a lavorare, usando gli spazi della Villa come studio. Sono rimasti dei bellissimi album dei visitatori a documentare lo straordinario flusso di ospitalità fino all’anno in cui la Villa venne lasciata, nel 1989. Tra i primi c’è proprio Beuys che nel 1971 firma con quattro polaroid della sua famiglia (oltre a lui, la moglie, le figlie Wenzel e Yessyka). La selezione degli album occupa quasi la metà del volume monumentale che la moglie Lucia e la figlia Laura hanno voluto per restituire una documentazione soprattutto visiva della parabola di questo protagonista di quella grande stagione artistica napoletana (“Studio Trisorio. Una storia d’arte”, Electa, pag 566, 80 euro). Una stagione segnata anche da un amaro destino: da Marcello Rumma, a Lucio Amelio fino a Trisorio sono tutti morti prematuramente (Trisorio morì a 60 anni a Lione nel 1992). 

Tutto in una foto: da sinistra, Amelio, Kounellis, Trisorio, Celant e Beuys

Il passaggio chiave per Amelio e Trisorio matura alla metà degli anni 70. Per un anno erano stati in società nella Modern Art Agency, ma le loro erano personalità troppo forti per convivere a lungo. Così nel 1974 Trisorio apriva il suo spazio a Riviera di Chiaia, con una mostra di Dan Flavin in collaborazione con la Galleria Sonnabend. «Le luci sono bellissime», disse il meccanico che occupava il cortile. «Ma i quadri quando li appenderete?».  Era in questa Napoli vitale e trasversale che Trisorio e Amelio si muovevano; una Napoli in cui fiorivano tante realtà come lo Studio Morra, il Centro di Dina Caróla, la Galleria Lia Rumma. Amelio nel 1975 apriva la sua galleria con un’installazione destinata a segnare la storia: “Tragedia civile” di Jannis Kounellis, pensata all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo stesso Kounellis compare in una foto del 1972 a Villa Orlandi: attorno al tavolo, dove avevano finito di pranzare, si riconoscono Beuys, Germano Celant, Lucio Amelio e Pasquale Trisorio (lo scatto era di Gianfranco Gorgoni). «Tutto in una foto», scrive Michele Bonuomo «Quel giorno di inizio estate l’uomo con il cappello di feltro ha fatto incrociare i destini dei quattro, e lanciando da Villa Orlandi la parola d’ordine “La rivoluzione siamo noi” segna in qualche modo la vicenda futura di ciascuno di loro. Anche Pasquale raccoglie l’esortazione e da quel momento tutto cambia in lui». L’invito di Beuys, espresso in quel passo risoluto sul viale di Villa Orlandi, era quello di fare di Napoli il teatro antropologicamente perfetto per la sua idea di opera d’arte come corpo sociale. Non c’era nulla di ideologico o di antagonistico in quello slogan di Beuys; piuttosto c’era una spinta vitalistica destinata a trasmettere energia alla scena artistica napoletana. Energia e insieme libertà: emblematico al proposito è l’episodio raccontato nel volume, relativo ancora a Kounellis. L’artista greco era uno dei più fedeli a Villa Orlandi, dove passava lunghi periodi a lavorare. Un giorno se ne allontanò dicendo che sarebbe tornato dopo due giorni. In realtà sparì, lasciando vestiti, carte, materiali per dipingere, lavori iniziati. Durante l’inverno un gruppo di scugnizzi di Anacapri entrarono nella Villa e si divertirono a dipingere sulle tele dell’artista. Trisorio raccontava di aver conservato una tela grigia di Kounellis con sopra una chiesetta bianca e una luna dipinta da quei bambini.

C’è una cifra che caratterizza la proposta espositiva di Trisorio: un trasversalismo che gli permise di puntare subito i suoi interessi sulla fotografia. Nel 1976 affidò a Mirella Miraglia la curatela della mostra che portò alla scoperta delle fotografie di Paolo Michetti: una vera rivelazione, con quello scatto di D’Annunzio sulla spiaggia di Francavilla o la sequenza della Mattanza dei tonni ad Acireale. Il rapporto più intenso è stato naturalmente quello con Mimmo Jodice, napoletano doc, altro abituale frequentatore di Villa Orlandi: nel 1978 la Galleria presentò la mostra “Identificazione”, dove le immagini di Jodice erano affiancate a quelle di coloro che lui riteneva i suoi maestri. Nel cartoncino d’invito infatti c’era non una sua immagine ma la celebre e sofferta foto del padre scattata da Richard Avedon.

Aprire alla fotografia comportò anche un’attenzione precoce alla videoarte: è del novembre 1982 la rassegna “Differenza Video”s che in quattro giorni vide alternarsi tutti i maggiori artisti, da Bruce Nauman, a Bill Viola, Nam June Paik, Joan Jonas… Forse è sull’onda di quell’esperienza che Laura, una delle tre figlie di Pasquale, una volta morto il padre decise di avviare l’avventura di Festival Artecinema, una rassegna di documentari d’arte contemporanea, che dal 1996 ogni anno a ottobre invade tanti teatro e cinema di Napoli, a iniziare del San Carlo, con un successo costante di pubblico. 

Quanto a Pasquale lo vediamo vivere nella sequenza lunghissima di foto, sempre felice di condividere nuove avventure con gli artisti che si alternavano nella sua Galleria. Si respira sempre un tono di simpatia e di complicità anche laddove le prove erano po’ estreme. Nel 1975 Vincent D’Arista gli propose un progetto che prevedeva la distruzione della Galleria durante la mostra di Shusaku Arakawa. Dopo un po’ di resistenze Trisorio diede il via libera senza sapere quale fosse l’intenzione finale di D’Arista: la distruzione della Galleria prevedeva inevitabilmente l’eliminazione del gallerista. Trisorio venne legato con uno spago e costretto a stare sdraiato. “Don’t Step on Me” era il titolo della performance. “Non calpestarmi”. Nel 1999 Maurizio Cattelan avrebbe ripetuto il rito legando e appendendo Massimo De Carlo al muro della sua Galleria milanese. Trisorio da lassù avrà sorriso…

Written by gfrangi

Marzo 12th, 2020 at 2:26 pm

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Emma Ciceri e l’impronta del Sole

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Emma Ciceri, Respiro Sole, 2019

Questo articolo è uscito sul numero di giugno di Vita, per la rubrica “Life Museum”

Un riflesso di sole che percorre, minuto dopo minuto, tutta la superficie di un muro. Una macchia di luce, un bagliore, ma insieme una cosa da niente: impalpabile, scontata, transitoria. Emma Ciceri, per anni, in quello che era il suo vecchio studio ha osservato questo raggio filtrare e farsi macchia luminosa davanti ai suoi occhi. Così un giorno ha preso il primo barattolo di colore, il primo che ha trovato, casualmente un blu tenero e liquido, e ha dipinto su quel suo muro l’impronta del riflesso; ha filmato quel gesto e poi ha voluto moltiplicarlo, come in un impeto di partecipazione. Ha creato un’azione durante la quale ha fatto entrare lei un riflesso di sole e ha inseguito quel riflesso, dipingendolo nel suo percorso ad arco di oltre tre ore. I due video danno il titolo alla mostra con la quale dopo tre anni questa artista si è riproposta al pubblico (Milano, Galleria Riccardo Crespi). Un titolo che nella sua semplicità e pienezza racconta quello che abbiamo visto; anzi quello che l’artista ci fa sperimentare “Respiro sole”. Giustamente Gabi Scarbi, curatrice della mostra, nella presentazione sottolinea come le armi di Emma Ciceri siano «l’apertura a dimensioni diverse dell’esperienza» e «la tensione dello sguardo». In mostra c’è un’altra opera, una sequenza di semplici diapositive, dove si vede un sacchetto di carta giallo volteggiare su un campo immacolato di neve. Anche qui una visione casuale. Anche qui una metafora del sole, del suo risplendere silenzioso e riservato. La bellezza di questa percorso di Emma Ciceri sta tutto nella cifra della commozione e del respiro. Dove il respirare quella luce e quel calore e fissarne l’impronta diventa un’azione che permette di incorporare la meraviglia che la costituisce.

Emma Ciceri, Approfittando del vuoto, 2010 (slide show)

Written by gfrangi

Luglio 26th, 2019 at 2:11 pm

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Le note retiniche di Sean Scully

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Questa recensione alla mostra di Sean Scully a Villa Panza a Varese è stata pubblicata su Alias il 19 maggio, con il titolo “Associazioni e redenzioni”.

Ad un certo punto della mostra che Villa Panza ha dedicato a Sean Scully si assiste ad un colpo di scena. Dopo essere passati per le prime sale che raccolgono i lavori degli anni 70, regolati da griglie molto controllate, in molti casi eseguite con l’ausilio di un nastro che teneva sotto controllo pennellate e colori, ci si trova davanti ad un’opera immensa che si presenta come un felice terremoto. L’opera è “Backs and Fronts” ed è datata 1981. «È veramente il mio manifesto, è un quadro fondamentale», ha sempre spiegato Scully, che non a caso non ha mai voluto venderla. Le dimensioni non sono indifferenti, 2,40 metri x 6,10. E anche la forma salta all’occhio: è un polittico di 12 elementi, disposti con un andamento musicale come se il muro fosse il foglio di un pentagramma (di «note retiniche» non a caso parla Kelly Grovier nel breve saggio in catalogo, dedicato a questa opera chiave).

All’origine il quadro si intitolava “The Musicians” come omaggio ai “Tre musici” di Picasso, opera del 1921. Scully inizialmente aggiunse un musico. Poi si accorse che non bastava. «Era come se un numero sempre maggiore di musicisti si unisse alla nostra banda affermata… e finalmente, dopo un lungo viaggio, è stata rinominata “Backs and Fronts”». «Ricordo di averlo esposto a PS1», ha raccontato sempre Scully in un lungo dialogo con Hans-Michael Herzog. «Tutti quelli a cui piaceva erano punk. Allora ho capito che stavo facendo la cosa giusta perché il quadro aveva in sé un’energia molto provocatoria, se si pensa al minimalismo e a tutta la sua rarefazione… È stato un vero salto. Come una superficie che si ribalta». Quanto al titolo cambiato, l’intenzione era di fare riferimento alla figura umana. «Lo pensavo come una fila di figure in attesa. In attesa che succedesse qualcosa».

Aver portato “Backs and Fronts” è un doppio merito per l’organizzazione di Villa Panza e per la sua direttrice, oltre che curatrice della mostra, Anna Bernardini (“Sean Scully. Long Light, Varese Villa Panza, fino al 6 gennaio 2020). Infatti è la prima volta che quest’opera chiave viene presentata in Italia (dove per altro negli ultimi ci sono state molte occasioni di conoscere il lavoro di Scully). Ed è un’opera che per la sua natura crea un’intrigante e anche tesa dialettica con il contesto.

Infatti è noto che Giuseppe Panza avesse puntato gli occhi su Scully: nel 1989 aveva visitato il suo studio di New York, manifestando interesse per un quadro che poi sarebbe stato acquisito dalle Tate. Ma il prezzo dell’artista era già troppo alto rispetto alla filosofia oculata di acquisizioni sempre perseguita da Panza. L’abiura del minimalismo da parte di Scully inoltre non poteva certo trovare d’accordo il collezionista, che in quegli anni stava invece seguendo artisti che si muovevano con molto rigore su quella linea. “Backs and Fronts” è, al contrario, un’opera pervasa da un fremito, dove la pittura si allontana dalla rarefazione a volte vertiginosa del minimalismo e si orienta decisamente verso uno spazio “impuro” di indeterminatezza e di espressività. Mi viene anche da credere che Scully si sia ben reso conto come questa ospitalità tra gli spazi di Giuseppe Panza non sia stata una cosa scontata e “dovuta”. Così ha voluto realizzare e donare le 27 finestre di vetri colorati destinate alla serra della Villa: un tocco prezioso, che si deposita come una carezza sulle forme e sulle luci del giardino, ma anche un segno d’affetto e di gratitudine nei confronti del luogo e del collezionista che ne ha segnato la storia.

Tornando al polittico, c’è un altro elemento di novità che Scully qui introduce. È una componente che Scully stesso ha definito “associativa” («Le mie opere sono incredibilmente associative», ha spiegato). Anche in questo caso la distanza dalla concezione del quadro come “monolite” puro, propria del minimalismo, è evidente. Per l’artista ogni opera vive di relazioni; quindi diventa decisiva la decisione di comporle con più elementi che siano affiancati o giustapposti o che siano addirittura inglobati come accade nella serie “Passengers”, dove ogni tela ne ingloba un’altra, quasi fosse una finestra aperta all’interno del proprio tracciato architettonico. Ma in queste opere la sensazione è anche quella di una dinamica generativa, come se il quadro fosse un processo di fecondazione e dalla pittura si generasse altra pittura, senza problemi di coerenza né cromatica né di disegno.

La relazione a volte sviluppa anche drammaturgie coinvolgenti e potenti all’interno di uno stesso quadro, come accade in un’altra opera di grande peso e dimensioni presente in mostra. Si tratta di “Standing”, del 1986 (anche questa raramente prestata dall’artista e mai vista in Italia), realizzata come meditazione sulla morte del figlio Paul, vittima nel 1983, quando aveva solo 19 anni, di un incidente automobilistico. Il quadro è composto di tre “corpi” disposti orizzontalmente uno sopra l’altro, ciascuno con un diverso spessore di telaio. Quello con la cassa del telaio più profonda è posizionato in alto e quindi si sporge, quasi con un senso di incombenza. La sua superficie è dipinta di un nero rugoso e tragico, solcato per il lungo da una sottile linea di luce rossastra, come di un’alba affaticata che sorge dopo un cataclisma. Aveva sottolineato Scully che la sua pittura non parla della “chiarezza” ma semmai della “rivelazione”: è una chiave che aiuta a capire un’opera come questa e che spiega anche perché Scully negli ultimi anni abbia scelto di lavorare per edifici religiosi, com’è accaduto a Montserrat e nella cattedrale di Girona. Anche la Biennale da poco inaugurata lo vede presente con un progetto per la basilica palladiana di San Giorgio Maggiore: “Opulent Ascension” è una scultura che si alza in verticale a fasce colorate giustapposte, proprio sotto la cupola.

Nel 2009 l’artista ha avuto un altro figlio, Oisin, nato dalla relazione con Liliane Tomasko, con la quale si era sposato nel 2006. Anche in questo caso le vicende della vita fanno breccia nel percorso artistico, in modo del tutto sorprendente. La mostra di Villa Panza presenta infatti la serie inedita “Madonna”, datata 2019. Scully fa uno scarto inatteso in direzione della pittura figurativa. Si tratta di grandi quadri dipinti ad olio su alluminio, dove mamma e bambino giocano con sabbia e secchielli in riva al mare in un contesto di serenità quasi matissiana. Ma l’andamento delle campiture colorate e delle vaste linee curve che disegnano l’architettura delle tele riportano più ad un’idea archetipa che non semplicemente autobiografica. È l’archetipo generativo della madre e del figlio, che richiama le dinamiche fecondative proprie della pittura di Scully.

A questo proposito è significativa la selezione di fotografie presenti in mostra, che aggiungono un altro tassello importante per scavare nel percorso dell’artista. In particolare la serie di scatti in bianco e nero realizzate tra i resti straordinari delle architetture contadine dell’isola Aran riportano alle sue origini irlandesi (è nato a Dublino nel 1945, ma nel 1975 si è trasferito a New York). Non solo: Scully compone una serie di 24 immagini concentrando l’obiettivo sull’allineamento seriale e ordinato delle pietre. Sono geometrie che hanno una familiarità genetica con quelle dei suoi quadri. Più che dall’allineamento, la familiarità è però determinata da quella irregolarità dei bordi che è propria delle pietre come pure delle fasce colorate, elemento per eccellenza iconico della pittura di Scully. Sono proprio i bordi ad accendere la sua pittura, sottili frontiere vitali e inquiete, luoghi dell’attesa e della rivelazione, sismografi capaci di captare, come ha detto lui, «l’incertezza del cuore umano».

Sean Scully, Standing, 1986

Written by gfrangi

Maggio 20th, 2019 at 8:34 am

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Leoncillo, la scultura «questa saliva mia»

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Recensione alla mostra di Leoncillo Leonardi vista alla Galleria dello Scudo di Verona. Uscita su Alias, 3 febbraio 2019. Le foto della mostra sono di Agostino Osio – Alto Piano

«All’improvviso io mi sentii, come un vecchio ragno, la necessità di fare una tela traendo dal dentro di me stesso questa saliva mia, fatta del mio corpo presente, esaurendomi in questo atto sicuro, sicuro come gli atti elementari della vita». È una delle prime pagine del Piccolo Diario di Leoncillo, datata 1957. Per l’artista spoletino è un momento chiave di presa di coscienza e di distacco anche radicale dal proprio recente passato: «Nel 1957 mi cascarono addosso i miei ultimi dieci anni e io ne restai sconvolto, del tutto smarrito», scrive in un’altra pagina di quel meraviglioso testo, dove le parole sembrano correlarsi in modo sempre stringente al farsi della sua “nuova” scultura. Come sottolinea Enrico Mascelloni, uno dei più profondi conoscitori della sua opera, «Leoncillo mette in campo dal 1958 una tra le più vertiginose esperienze dell’arte dei suoi anni: recuperare la ragione profonda della forma, e persino le forme sue, quelle che aveva modellato sin dagli anni trenta, procedendo alla loro radicale negazione».

È una doppia occasione quella che riporta l’attenzione su Leoncillo. Da una parte Skira ha pubblicato il Piccolo Diario, con riproduzione in fac simile dei fogli dattiloscritti volanti che lo compongono oltre alla loro trascrizione. Dall’altra la Galleria dello Scudo a Verona propone una selezione, curata dallo stesso Enrico Mascelloni, di 16 lavori dell’ultima stagione dello scultore, avviata proprio a partire da quella “radicale negazione” della propria storia. Una selezione ampia e molto rappresentativa, se si pensa che il catalogo degli ultimi 10 anni di Leoncillo, contando le sculture di ogni dimensione, non supera le 150 opere. Tra queste i grandi lavori, cioè quelli che lo hanno reso celebre, non sono più di 40: oltre un terzo sono dunque raccolti negli spazi della galleria veronese.


La rottura di Leoncillo con il suo passato si consuma attorno alla realizzazione dell’ultima opera pubblica, il “Monumento ai Caduti” oggi sul lungomare di Albisola. È in quella situazione che l’artista avverte tutta l’inadeguatezza formale di un lavoro nato da un’idea (un’idea culturale e politica che Leoncillo aveva pur sempre fatta sua, essendo comunista convinto). «Avevo pensato al fregio dei caduti come un bel teatrino, ogni morto con la sua posa diversa, “composta” come le altre. A poco a poco i fondi mi vennero avanti, i morti mi affondarono tra i detriti, le oscurità, le fratture del terreno… Ero io stesso quei morti», scrive nel foglio 19 del suo Piccolo Diario. È una confessione che fotografa la transizione, quasi lo scivolamento ineluttabile da una scultura di contenuto, ad una radicalmente autobiografica: «Lo scrupolo mio più forte è quello della verità, voglio dire la verità ed oggi non vedo altro modo di dirla in modo sicuro che quello autobiografico: offrire semplicemente la propria testimonianza» (Piccolo Diario, foglio 24). In questo modo Leoncillo affrontava di petto il problema drammatico messo sul tavolo da Arturo Martini nel 1945 con le sue celebri riflessioni sulla scultura come “lingua morta”: curioso il fatto che anche Martini si fosse affidato alla metafora di un insetto. «L’artista», aveva scritto, «è come il baco da seta che nello spurgo trova la sua trasparenza». Leoncillo, come detto, si affida invece alla metafora del ragno, che «trae la sua tela dal dentro» di se stesso.


Nel Piccolo Diario questo concetto è ribadito in continuazione, con straordinaria autoconsapevolezza. Leoncillo parla dell’arte come di «un’espressione che nasce da una necessità interna»; di una volontà di «esprimere la contraddittorietà dei miei sentimenti, andarci lentamente dentro per trovarne il nucleo profondo». Racconta di un’esigenza di «dire semplicemente le cose mie. Come gli ubbriaconi che di notte ti vogliono dire i loro fatti. Come chi è innamorato e racconta anche ciò che non dovrebbe. Come chi ha avuto un gran dolore, una gran perdita, che di notte al buio nel letto ripete ancora certe parole a voce alta e poi le parole diventano fuori di lui nel silenzio della notte ormai un’altra cosa».

Riportata all’osso di questa esigenza elementare, la scultura torna così a vivere, in quanto forma che nasce da «atti che traducono il nostro essere»; è «sentimento che prende immagine». Per questo Leoncillo senza nessuna retorica può arrivare ad affermare che «la creta è come carne mia»; o, con ancor più chiarezza, che «la creta diviene materia nostra per gli atti che compiamo su di essa e con essa, atti che nascono da una reazione del nostro essere».


Attraverso le parole eccoci dunque arrivare sul corpo e nel corpo della scultura “nuova” di Leoncillo. La prima constatazione da cui non si sfugge è che siamo davanti a forme mutilate. Il taglio è il segno più incontrovertibile di queste ripetute mutilazioni. Tagli secchi, quasi che una lama di ghigliottina fosse calata sulla creta. È lo stesso gesto che aveva segnato l’arte di Lucio Fontana, ma se in quel caso il taglio era rimasto dentro una dimensione aniconica, qui accade l’opposto. L’atto che amputa la materia, in realtà finisce con l’aprirla come un forcipe, che libera forme di inedita potenza. Sono forme ricondotte ad un’elementarità ancestrale ma sempre decifrabili, che siano corpi, o zolle arroventate o coaguli di incubi. Il taglio di Leoncillo è un’operazione che ferendo con precisa determinazione la creta, in realtà immette vita attraverso un corto circuito espressivo che dopo oltre 50 anni non ha perso un briciolo di forza e di suggestione. Il taglio ha poi un altro valore: è infatti un gesto fondamentalmente meccanico, che recidendo la materia recide anche qualsiasi rischio di cedimento ad un soggettivismo plastico. Al contrario, come ha sottolineato giustamente Mascelloni, è la Storia con la sua implacabile oggettività a rientrare in campo «in un corpo a corpo portato alle estreme conseguenze». È infatti proprio la Storia «inaggirabile e tirannica» a sottoporre a costante pressione, dentro uno spazio claustrofobico, le forme dell’ultimo Leoncillo.

Ma Leoncillo ogni volta dimostra di saper rompere l’assedio e di dar luogo a geniali palingenesi. Lo si vede nelle proiezioni verticali dei suoi San Sebastiani, che si alzano trainando verso l’alto la loro massa di monoliti tormentati. Si appoggiano su sottili basi di legno dal sapore instabile che lo scultore ha congegnato per rafforzare la dimensione “anti monumentale”. Il bianco degli smalti ci parlano poi di una luce che si incrosta, di uno splendore che si fa largo da sotto la pelle della materia. In mostra a Verona un cannocchiale visivo collega i due San Sebastiani datati 1962, con “Tempo ferito” dell’anno successivo, uno degli esiti più alti di Leoncillo: qui davvero il taglio sembra liberare il tumulto della Storia, che come un magma rosso divarica la massa nera, facendola balzare verso l’alto, anche a dispetto del suo peso.

Se la verticalità è la dimensione a lui più congeniale, quella che meglio esprime la solitudine radicale del suo fare, Leoncillo sorprende nel momento in cui sceglie la soluzione ardita e opposta di una scultura tutta orizzontale. È il caso stupefacente di “Vento Rosso” del 1958, opera “sdraiata” e appoggiata a livello terra su una lastra di lavagna dove la creta ribolle, con quei neri cupi e quei rossi brace. È un’intuizione con la quale Leoncillo sembra precorrere addirittura soluzioni proprie della “land art”. Anche se la sua orizzontalità non ha nulla di distensivo e pacificante, ma assomiglia a quella del soldato che striscia nella sua trincea.

Written by gfrangi

Febbraio 5th, 2019 at 10:21 pm

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