Robe da chiodi

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Giacometti e il “portait sans fin”

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«Giacometti iniziò a disegnare il mio volto con la matita su un foglio di giornale. Mi guardava in maniera talmente profonda che sembrava mi penetrasse, ma era una sensazione diversa da quella che si prova quando si viene fissati, era come se mi accarezzasse con gli occhi». In realtà più che di una carezza si era trattato di un vero colpo d’artigli. «Voglio fare il tuo ritratto», disse subito dopo Giacometti a Isaku Yanaihara, filosofo e poeta giapponese in missione a Parigi con una borsa di studio per approfondire la conoscenza dell’esistenzialismo. Erano seduti al tavolino di uno di bar di Montparnasse.

Giacometti e Isaku Yanaihara

Yanaihara era agli sgoccioli della sua permanenza in Europa: aveva un biglietto aereo per il ritorno di lì a pochi giorni, il 10 ottobre 1956. Non poteva immaginare quello che invece lo aspettava: oltre due mesi di sedute, con la conseguenza di continui rinvii della partenza per accondiscendere a Giacometti e a quella sua ansia estenuante.  Perché proprio Isaku Yanaihara? Perché far da modelli all’artista svizzero bisognava avere doti speciali di ascetismo zen e di pazienza. Per anni aveva “macinato” con pose infinite prima la madre Annetta, poi il fratello Diego e la moglie Annette. Ora gli era capitato a tiro questo giapponese dai lineamenti assiri, che sembrava non avere un muscolo nel volto; così aveva messo in atto tutte le armi per non farselo scappare. «Per me il tuo naso è già una piramide. Il tuo volto è già una sfinge», gli aveva confidato durante una delle tante lunghissime pose. Yanaihara riuscì a partire solo due mesi e mezzo dopo, ma con la promessa di ritornare appena possibile. Tornò infatti nelle estati successive, fino al 1961: alla fine sono state conteggiate circa 200 giornate di posa, che hanno fruttato 21 quadri e due sculture. Yanaihara  finite le sedute, aveva preso l’abitudine di stendere un diario su cui annotare in particolare le cose che Giacometti diceva: frasi che sono il sismografo di un autore sommamente inquieto, sempre inappagato dal proprio lavoro, che tante volte veniva distrutto a fine giornata per la disperazione del povero modello. Questo diario, sistemato in una narrazione che a volte procede sin troppo libera, è diventato un libro uscito in Giappone nel 1969 e oggi opportunamente pubblicato in Italia da Giometti & Antonelli, con la traduzione di Isabella Dionisio (220 pagine, 26 euro).

Nei suoi aspetti più collaterali il libro è uno spaccato concreto della quotidianità di un artista che lavorava e viveva con la moglie Annette nello spazio angusto del leggendario studio di Rue Hippolyte-Maindron, una via così secondaria, da esser spesso fuori dai radar dei taxisti parigini. Non c’era acqua corrente e non c’era cucina, per cui la coppia non mangiava mai a casa. La lampadina che pendeva dal soffitto faceva una luce flebile così quando le pose si prolungavano nella notte, il ricordo di Yanaihara è quello di Giacometti che lavorava nel semibuio, mentre dalla stanza affianco arrivano le note dei dischi che Annette amava ascoltare aspettando che la seduta finisse. A volte capitava che fosse Annette a fargli notare che stava lavorando quasi completamente al buio. E in quei casi poteva ricevere risposte sibilline come queste: «Yanaihara lo vedo benissimo, quello che non vedo è il modo in cui riuscire a rappresentarlo. Eppure lo vedo così bene». 

Non era semplice posare per Giacometti anche per un personaggio di calma glaciale come il filosofo giapponese. Il senso del fallimento incombeva su ogni istante. A volte erano vere esplosioni di rabbia contro se stesso, perché troppo lontano dal risultato atteso. «Dipingere un quadro è un po’ come partecipare a una guerra. Esattamente la stessa cosa, io stesso ne ho paura», diceva. Non c’è guerra se non c’è il nemico, e il nemico era il volto di Yanaihara. Sosteneva che quel volto lo terrorizzava, tanto da provare paura ad avvicinarlo: «La punta del naso è come una lama di un rasoio, fa paura. Non ho il coraggio di toccarla». «Oh, Yanaihara, profeta della mia disperazione e della mia miseria», si legge sulla pagina di diario del 15 ottobre.

Tante volte il discorso di Giacometti cade su Cézanne, con il precedente delle 120 sedute per il ritratto di Vollard. Sull’inserto letterario del “Figaro” era stato pubblicato un brano del diario inedito di Maurice Denis, dove era riportato anche un dialogo con il vecchio maestro post impressionista. «Le sensazioni sono importanti quanto le teorie. Ho tentato in tutti i modi di rappresentare la natura, ma alla fine no ci sono riuscito», erano le parole di Cézanne, che come un punteruolo producevano pensieri ossessivi nella testa di Giacometti. «Bisogna trovare un sistema di regole da seguire per rappresentare la realtà in maniera corretta. Qualcosa del genere deve per forza esistere. Gli egizi, per esempio, ci erano arrivati. Cézanne lo ha cercato per tutta la via. I pittori contemporanei ormai non lo cercano neanche più». 

Nelle pause delle lunghe sedute di posa Giacometti si infilava in qualche bar o ristorante. Un giorno sedendosi al tavolino di “Aux Tamaris”. «un locale senza pretese», si era trovato davanti uno specchio ancora segnato dai fori degli scontri a fuoco tra nazisti e rappresentanti della Resistenza. È un’immagine che gli fa ricordare Francis Gruber un pittore, a cui era molto legato e di cui aveva grande stima, che aveva preso parte a quei combattimenti. «Guardando le spaccature dello specchio Giacometti parlò con grande commozione del lavoro e della vita di Gruber», scrive Yanaihara. Non riferisce cosa disse, ma basta questa semplice notazione di passaggio per evocare la sensazione di concordanze profonde.

Ogni tanto nello studio arrivava Jean Genet, l’unico che poteva permettersi di interrompere il lavoro di Giacometti. «Un vero mostro di seduzione», annota Yanaihara. «Si metteva di fianco a me, che non gli davo neanche la mano per evitare di muovermi e mi fissava dicendo: “Quanto zelo!”». Nel suo meraviglioso libro “L’atelier di Giacometti”, Genet riporta le sue impressioni su quelle visite: «Durante tutto il tempo in cui lottò con il viso di quel giapponese davanti a me vedevo lo spettacolo di un uomo che non commetteva nessun errore, ma che stava perdendo se stesso».

All’ansia di non riuscire ad agguantare il ritratto si aggiungeva anche quella di non poter disporre del modello a tempo indeterminato: Giacometti aveva sempre davanti la scadenza del nuovo biglietto aereo di Yanaihara che si avvicinava. Pur di trattenere l’amico giapponese e di convincerlo a nuovi rinvii, non esitò a favorire una sua relazione con la stessa Annette. Era stata la stessa Annette a prendere spavaldamente l’iniziativa facendosi invitare da Yanaihara nel suo albergo. «In breve si tolse di dosso tutti i vestiti che aveva e venne sul mio letto», racconta. Il giorno dopo, tornando a posare, il giapponese era preoccupato delle reazioni che l’artista avrebbe potuto avere. Ma Giacometti, che evidentemente sapeva tutto, sgombrò subito il campo: «La gelosia è ciò che odio di più e in me non ce n’è neanche un briciolo. Amare Annette significa rispettare la sua libertà, non sei d’accordo? Annette è sempre stata una donna molto libera ed è per questo che la amo». In sostanza l’artista aveva architettato un gioco a tre, con lui in posizione del tutto platonica ma certo di poter contare su quel modello, che sentiva lo avrebbe portato vicino ai volti agognati della ritrattistica di El Fayum. «Quello che c’è tra noi tre trascende la comprensione del mondo», concludeva Giacometti con un’enfasi un po’ sospetta… Con più sincerità in un’altra occasione aveva confessato il suo vero sentimento: «Come sarebbe bello poter dipingere il tuo volto come sto facendo ora, ma per tutta la vita, senza mai smettere». Il sogno di “un portrait sans fin”…

Pubblicato su Alias, il 20 febbraio 2020

Giacometto, Annette, e Isaku Yanaihara a Stampa

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Febbraio 28th, 2022 at 7:05 pm

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La grafica di Giacometti a Chiasso

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Quando il mondo entra nel cuore

Alberto Giacometti si presentava ogni volta alla porta del lussuoso appartamento affacciato sulla Senna con le tasche della giacca gonfie di lastre di rame già pronte per l’incisione. Era il 1957 e uno dei suoi migliori amici, Michel Leiris, aveva tentato di togliersi la vita ingerendo un flacone di fenorbital. Dopo il ricovero Leiris era tornato a casa per la convalescenza impegnandosi a scrivere delle poesie, che sarebbero state pubblicate con il titolo “Vivantes cendres, innommées”.

Le lastre di rame che gonfiavano le tasche Giacometti servivano appunto per le illustrazioni che dovevano accompagnare il libro. Ne servivano tante, verrebbe da dire in quantità proporzionale all’amicizia che legava l’artista allo scrittore ed etnologo francese: alla fine ne sono scaturiti ben 25 ritratti ad acquaforte, più altrettante incisioni dedicate a dettagli interni dell’appartamento. Ora l’intera serie tappezza una delle pareti del m.a.x. museo di Chiasso, per una mostra che è occasione preziosa per scoprire la grafica di Giacometti (“Alberto Giacometti. Grafica al confine tra arte e pensieri”, a cura di Jean Soldini e Nicoletta Ossanna Cavadini, fino al 10 gennaio 2021).

È una mostra che stimola ad aprire tante piste di lettura non consuete attorno al grande artista svizzero. Una pista, meno collaterale di quel che si pensi, è proprio quella che riguarda il tema dell’amicizia. Tra le incisioni per Leiris, alcune rappresentano lo scrittore a letto, con la testa abbandonata sul cuscino, in una posa quasi da rigor mortis: è certamente segno di una confidenza profonda, che aveva origini lontane nel tempo. Nel 1929 Giacometti, allora ventottenne, aveva esposto alla Galerie Jeanne Bucher a Parigi e Leiris sulla rivista “Documents” gli aveva dedicato un tributo di quelli difficili da dimenticare. «Ci sono dei momenti che si possono chiamare “crisi” che sono i soli momenti importanti in una vita…», aveva scritto. «Si tratta di momenti in cui il mondo esterno si apre per entrare nel nostro cuore e stabilire un’immediata comunicazione. Amo la scultura di Giacometti, perché tutto quello che lui fa è come la pietrificazione di una di queste “crisi”». 

L’attività grafica di Giacometti, come scrive in catalogo Susanne Bieri, è un sismografo che testimonia l’intensità e la varietà delle amicizie di questo stilita che viveva relegato nei 45 metri quadrati del leggendario “antro” di Rue Hyppolite Mandrion. Rispetto all’icona dell’artista irriducibile e tormentato, ci viene restituita l’immagine più reale di un uomo ben attento a quel che accadeva attorno a lui, sempre pronto a socializzare, curioso e disponibile a tante contaminazioni con la letteratura e in particolare la poesia: basta scorrere l’interessante cronologia che correda il catalogo (edito da Skira), per rendersi conto della quantità di progetti editoriali in cui Giacometti si è lasciato coinvolgere. 

Ad esempio, sempre nel 1929 si era pienamente coinvolto in un progetto molto personale dell’amico Georges Batailles, illustrando l’edizione della sua “Histoire des Rats (Journal de Dianus)”. Si tratta di una serie di incisioni a bulino (tecnica con la quale non si trovava a suo agio e che avrebbe usato molto di rado) con figure su basamento, come sculture disegnate: quelle contrassegnate dalla lettera B nel basamento riprendono i lineamenti di Diane Beauharnais, la donna di cui Dianus-Bataille era innamorato e che avrebbe sposato nel 1946. Amicizia a termine era stata invece quella con André Breton, che non gli avrebbe mai perdonato la sconfessione dell’esperienza surrealista nel 1935: eppure solo l’anno prima quattro incisioni di Giacometti avevano illustrato “L’air de l’eau”, una raccolta di poesia d’amore per Jacqueline Lamba. «Basta con l’immaginario, finito», così l’artista aveva liquidato le pretese di Breton di farlo restare nel movimento. È un momento di passaggio in cui Giacometti interrompe l’attività grafica che avrebbe invece ripreso di gran lena e senza più pause con il suo ritorno a Parigi nel 1946, dopo il lungo soggiorno ginevrino negli anni della guerra. 

Degli anni 50 è la scoperta della litografia, grazie in particolare all’insegnamento di un grande stampatore, Fernand Mourlot. La carta porosa e la matita litografica sono strumenti con i quali Giacometti si trova immediatamente a suo agio, anche perché rispetto a bulino e acquaforte gli lasciano margine per cancellature dei segni. Tra l’altro il doppio passaggio dalla carta alla pietra litografica e di nuovo alla carta permettono di non ritrovarsi con l’immagine rovesciata. Nascono così immagini felicemente libere, come appunti visivi che però svelano una energia narrativa. Ci raccontano l’interno dello studio nei momenti disimpegnati delle pause, con il “riposo“ delle sculture e anche dei modelli: scopriamo ad esempio Diego seduto sul letto, nel disordine dei fogli e delle tele. 

La lastra di rame invece si trasforma in una teca per la moglie Annette chiamata a pose sacrificali per le incisioni destinate a illustrare un libro di René Char, “Poèmes des deux années”. La costruzione è complessa, perché la lastra è suddivisa quasi si trattasse di un polittico in miniatura, con una lunga predella dove Annette è deposta come fosse in una tomba. Il segno dell’acquaforte si fa leggero, quasi semplicemente graffiato, e dà luogo nel 1955 ad una serie stupenda di incisioni con Annette nuda, spesso semplici prove d’artista o tirature “hors commmerce”, quasi dei pensieri a ruota libera, felicemente disgrafici. Sempre per René Chair, nel 1965, avrebbe realizzato una serie di acqueforti su carta nera con un leggerissimo segno bianco che disegna dei profili di montagne. «La gravure avec les moins de traits que j’ai fait de ma vie», commentò l’artista.

Un capitolo a sé è quello rappresentato dal rapporto con gli editori d’arte. Per il leggendario Iliazd, il georgiano Ilia Zadnevitch, grande innovatore nella grafica e nella tipografia, realizza “Le douze portraits du célèbre Orbendale” nel 1961, ciclo di 12 acqueforti. Ma è l’amico Teriade a convincere Giacometti a mettere in cantiere il suo progetto più felice e più vasto, “Paris sans fin”. L’artista inizia a lavorarci già nel 1958, con lo slancio di chi va alla scoperta della metropoli “senza fine” a bordo dell’auto sportiva regalata a Caroline, la ragazza ventunenne di cui si era invaghito: nel frontespizio ci mostra infatti una ragazza che si tuffa libera nello spazio bianco della carta e invita a entrare nel libro. Sono 150 litografie, su fogli di grandi dimensioni (42 x 35 cm). Lo stile è quello corsivo e libero che questa tecnica gli permette: suggestioni visive di un uomo attirato da tutto ciò che lo circonda. La matita calcografica di Giacometti porta alla scoperta di Parigi, delle sue strade e dei suoi caffè. Ma entra anche negli spazi familiari. Non solo nell’atelier “antro” ma entra nelle case eleganti che aveva regalato a chi gli stava più vicino, quella di Annette in rue Mazarine o quella di Caroline  in avenue de Maine. La Parigi di Giacometti è un labirinto pieno di vita, spesso ripreso da dietro lo schermo del parabrezza. In realtà, nonostante la sua baldanzosità, “Paris sans fin” è il libro di un lungo commiato. L’artista sa del male che lo assedia e nel testo solo abbozzato che accompagna le immagini entra in gioco anche «il grande tubo in metallo brillante della gastropia» che «spingeva dentro la gola». L’ultima tavola è quella di un uomo avvolto nel cappotto e ripreso di spalle. A fianco una pagina rimasta vuota: l’11 gennaio 1966 Giacometti moriva senza poter veder stampato il suo “Paris sans fin”.

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Novembre 28th, 2020 at 5:01 pm

Bacon Giacometti, appunti a latere della mostra

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A meno quattro giorni dalla chiusura, ho visto la mostra più desiderata dell’anno, “Bacon-Giacometti”, alla Beyeler di Basilea. Mostra oggettivamente eccezionale, per la grandezza dei protagonisti, per la qualità dei prestiti e dell’allestimento, per la semplicità del percorso, che non “scherma” con interpretazioni la sostanza così diretta, a volte persino così brutale, delle opere. È una di quelle mostre con le quali è inutile misurarsi e all’interno delle quali è inutile misurare grandezze.
Detto questo, ecco alcuni pensieri di dettaglio.

Tra tanta intensità e densità di capolavori, la leva “drammaturgica” della mostra è una foto. O meglio una serie di fotografie che hanno invece una loro meravigliosa casualità. Sono le uniche che testimonino un rapporto diretto tra Bacon e Giacometti, scattate da Graham Keen, mentre Giacometti stava ultimando l’allestimento della sua mostra alla Tate Gallery di Londra, il 13 luglio 1965. Keen era riuscito ad intrufolarsi, in quanto appassionato di Giacometti, grazie ad una raccomandazione della mamma della sua fidanzata, che era stata amante di Chagall ed era amica di Pierre Matisse, gallerista del grande artista svizzero. Insomma un intreccio di casualità. Keen ha fotografato da lontano per timidezza, in modo che Bacon e Giacometti non s’accorgessero della sua presenza. Che cosa si stavano dicendo? Non potremo mai saperlo, ma la magia di queste foto ci rende lecito immaginare un confronto su temi grandi, sul destino della pittura che non può essere diverso dal destino del mondo. Si colgono le vibrazioni di quelle concordanze profonde che sfuggono all’ufficialità della storia, ma che hanno più incidenza e decisività di tante concordanze dichiarate. C’è un che di epico, di unico in queste foto, scattate in extremis, perché di lì a pochi mesi Giacometti sarebbe morto. Ma sono foto che legano, che incatenano i due dentro una storia che oggi li vede stretti molto più di quanto non si possa riscontrare nelle biografie. È una sorta di folgorante amicizia postuma.


Più che un dialogo è un faccia a faccia, come sottolinea la copertina del catalogo. Giacometti e Bacon sono per loro natura dei “non dialoganti”. Solitari ad oltranza. Come ho cercato di scrivere su Il Sussidiario hanno una vocazione eremitica e i loro studi di dimensioni oltranzisticamente piccoli sono come le loro celle. La mostra funziona perfettamente laddove l’allestimento rispetta questa frontalità, quasi replicando il meccanismo di quella foto iniziale. È un guardarsi reciproco che non si banalizza mai in uno scambio. Sono due stiliti che se ne stanno “appollaiati” sulle loro colonne e non deflettono da questo loro radicale isolamento. Ma nello spazio quasi claustrofobico dei loro studi finiscono con il convergere tutte le grandi domande che trafiggono il mondo. Sono due solitudini che calamitano presenze ferite. Solitudini dense di altri corpi e di altri sguardi.


Li unisce anche un connotato sacrale, diverso ma molto esplicito. In Giacometti è la costruzione così rigorosamente frontale e quasi neobizantina delle immagini; è lo studio del piedistallo che rende le sue sculture così geneticamente simili agli antichi reliquiari; è quell’idea di “ostensione” che sottostà ad ogni suo lavoro, che sia dipinto o che sia scultura. In Bacon invece questi echi sacrali sono a volte negli stessi soggetti. Ma più intimamente li ritroviamo nella concezione del quadro come pala d’altare, quindi sempre verticale, con lo spazio che spesso si apre all’interno seguendo la curvatura di un’abside. E la pala tanta volte si trasforma addirittura in trittico, dove la dimensione religiosa si palesa come scandalo, come oltraggio. Al centro, nel posto che dovrebbe essere dell’altare, si compie sempre un qualcosa che è difficile non definire altro che un sacrificio… Se un appunto si può fare alla mostra di Basilea è forse questo: è mancato il coraggio di rendere esplicito questo tema del rapporto con l’immaginario del cattolicesimo (Bacon teneva nello studio il Crocefisso di Cimabue e mise del suo senza farlo sapere per il restauro di quello “ferito” dall’alluvione di Firenze: qui la stupenda storia).


C’è anche un aspetto che emerge nella mostra e che commuove. Ed è quel loro attaccamento, che non conosce di fatto eccezioni, alla figura umana. Sono due giganti che non si sottraggono mai a questo loro destino di testimoniare, rappresentandola, la condizione dell’uomo del loro tempo. In genere si legge questo come una dinamica ossessiva, centripeta, che quindi riguarda solo loro stessi e i loro tormenti. In realtà – e oggi lo si percepisce ancora meglio – sono come risucchiati da una necessità che li trapassa e travalica. Dire che la loro opera ci riguarda può sembrare una banalità. Dire che la loro opera è fatta per noi, nel senso sollecita un sentimento più intenso della vita, è un po’ meno una banalità. Che in Giacometti non ci sia narcisismo è palese: è uno che come le sue sculture, a furia di ridurle, vorrebbe sparire. In Bacon si può pensare che sia diverso, perché la sua pittura a volte tradisce un furioso compiacimento, nella teatralità della costruzione dei quadri, nell’uso così spinto dei colori. Ma a Bacon alla fine, questa impaginazione serve solo per permettere al quadro di precipitare in un punto che ne stabilisce la ragion d’essere. È quel punto vertiginoso in cui la pittura, anche materialmente, sembra obbedire ad una sorta di risucchio, come si esponesse sulla sponda del dramma e del mistero.


Ultima osservazione. Oggi nel vedere Bacon e Giacometti non intercettiamo “lo sporco” da cui si generavano le loro opere. Era una loro stessa strategia espositiva, in virtù della quale quando le opere uscivano dal supremo disordine dello studio, avevano bisogno di un qualcosa di esattamente contrario: la pulizia, l’ordine, la precisione delle cornici (Bacon, tutte dorate) o dei basamenti. Alla Beyeler il rito si rinnova, rispettando quella precisa volontà. Mi ricorda per analogia l’immagine del bambino lavato e reso lindo dopo la massacrante fatica del parto…
Sono illuminanti al proposito le parole di Francis Bacon nell’intervista a Michael Archimbaud: «La cornice è una cosa artificiale, e viene messa apposta per rafforzare l’aspetto artificiale della pittura. Più l’artificio delle tele che si realizzano è evidente, più vale questa consuetudine e più la tela ha possibilità di funzionare, di mostrare qualcosa. Può sembrare paradossale, ma in arte è un fatto indubitabile: si raggiunge uno scopo attraverso l’impiego massimo di artificio, e si riesce a creare qualcosa di autentico quanto più l’artifico è evidente».

Written by gfrangi

Agosto 31st, 2018 at 4:08 pm

Sobbalzi a Basilea, tra Giacometti e Picasso

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In crisi di astinenza per via di un’estate un po’ stanziale, settimana scorsa ho preso la macchina e sono andato a Basilea a vedere l’ampliamento del Kunstmuseum appena inaugurato e firmato dallo studio Christ & Gantenbein. Un ampliamento molto enfatico, allineato a quella insistita retorica con cui si guarda all’arte contemporanea. Musei che sembrano un po’ dei templi, pur nell’indubbia qualità architettonica e delle rifiniture. All’interno ci sono cose stupende, come la prima sala dove Barnett Newman, Mark Rothko, Clifford Still e Franz Kline dialogano con tre opere tutte del 1957. Anno decisamente stregante per tutti. Li sfida tutti, nella sua piccolezza, la Piazza di Giacometti. Ovvero quel che resiste dell’Europa contro l’arrembante America. Più avanti due grandi Wharol con la serie degli incidenti stradali, una serie di Cy Twombly, tra cui lo strepitoso, delicatissimo Nini’s painting del 1971, dedicato a Maria Antonietta Pirandello, moglie del suo gallerista Plinio De Martis. Poi un vitalissimo Boetti (anche nel titolo: “Tutto”). È uno dei più bei Robert Ryman che abbia mai visto.
Al piano meno uno c’è una sala davvero meravigliosa dei due Becher, dove davvero si capisce il senso potente della loro serialità: la capacità di usare lo sguardo per cogliere le costanti nelle strutture industriali, che assurgono a qualcosa di umilmente monumentale nella loro reiterazione. Un modo diverso di guardare alla modernità, non come mito, né come potenza ma come pratica che assomma pazienza, saperi, e anche audacia, pur nella ripetitività.
Si chiude con un immenso salone in cui Frank Stella, Donald Judd e Sol Lewitt vengono trattati come se fossero Michelangelo. Qui la retorica, anche un po’ zoppicante, prende il decisamente il sopravvento.
Che dire al confronto con gli spazi serrati, così tradizionali in cui il 900 dà il suo straordinario spettacolo all’ultimo piano dell’edificio storico? Una sequenza di sale con continui soprassalti, che danno la misura della grandezza di un secolo, che non aveva bisogno di sforare le misure e di avere spazi para religiosi per mostrarsi. L’elenco è lungo, ma quel secondo piano del vecchio Kunstmuseum, nel suo insieme è davvero un’esperienza con pochi paragoni. È raro avere una percezione così continua e ravvicinata della potenza di cui gli uomini sono stati capaci nel reinventare le forme e il modo di guardare il mondo. È stato un secolo vorace il 900, insaziabile, e capace anche di una grandezza che nessuno aveva messo nel conto. Un secolo che non è il secolo passato.
Personalmente, quelle sale sono una vera esperienza di pienezza e di vastità, anche se gli spazi sono angusti e la sequenza delle sale non fa leva su nessuna teatralità architettonica. Un’esperienza fisica, di forme che suggeriscono a ripetizione visioni appassionanti sull’umano. Intuizioni visive nelle quali oggi ci troviamo immersi e che incontri nel momento del loro scaturire (Mondrian, Klee, Van Doesburg, Arp, Delaunay).
Un meraviglioso Giacometti, Portrait d’Annette en blouse jaune (1964), duella con la selvaggia Femme au chapeau assise dans un fauteuil di Picasso (1946). La prima penetra lo sguardo sin nelle fibre dell’infinito; uno sguardo che con pazienza, pennellata per pennellata, ha agguantato un suo “per sempre”. La seconda invece divarica la vita, come se Picasso l’avesse dipinta non con un pennello ma con un forcipe. È il volto della vita che si “spacca” nell’atto di dar vita ad altra vita.
È un’esperienza, un impatto umano vero, trovarsi faccia a faccia con due quadri così, messi a pochi metri uno dall’altro; due quadri che ti fanno sobbalzare tra due dimensioni opposte ma ugualmente vere dell’essere.
In alto, dettaglio di Picasso; sotto, dettaglio di Giacometti.

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Written by gfrangi

Agosto 22nd, 2016 at 5:48 pm

Giacometti e le stelle

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Sabato scorso avevo fatto visita guidata alla mostra di Giacometti a Villa Reale. Una mostra discreta, purtroppo allestita come una bomboniera (proprio Giacometti che aveva vissuto in una specie di studio caverna, con i graffiti sui muri, nel cuore di Parigi). Ma Giacometti è sempre Giacometti…. Ho fatto la visita seguendo con testi di Giacometti (o con testimonianze dirette) stesso e davanti a un ritratto della serie di Isaku Yanaihara, ho letto questa pagina di diario dello stesso Yanaihara: «Ricominciando sotto la nuda lampada elettrica, Giacometti ha gridato: “Un istante fa ho visto un grazioso lago dietro di lei, era un grande lago quasi abbagliante su cui si rifletteva la luce del tramonto. Sfortunatamente si è spento un istante dopo, ma devo dipingere il fondo trasparente, luminoso, immenso all’infinito, come l’ho appena visto”. In realtà dietro di me c’era un’umile stufa a carbone e il muro sporco e scrostato su cui si vedevano diversi graffiti.
“Più si vede il volto con densità, più lo spazio che lo circonda diventa immenso; è veramente curioso! Il suo viso è molto, molto bello, quasi terribilmente compatto. A fianco del suo viso, perfino un ritratto di Frans Hals, perfino uno di Rembrandt non sono che immagini buffe!”. E ha ripetuto: “Oggi posso vedere la costruzione del suo viso meglio di prima. Sì, è vero! A meno che non si colga l’architettura dell’interno, non si possono dipingere le cose”».
Viene in mente la celebre lettera di Van Gogh sul ritratto all’amico poeta Eugene Bloch, il biondo sul blu stellato. Uscendo dalla visita non a caso Luca Doninellli mi ha fatto notare che l’etimologia di “considerare” era affine a quella visione di Giacometti: per capire (prendere in considerazione) il volto di una persona bisogna metterlo in relazione con il suo destino (“sidera” cioè le stelle: le stesse che Van Gogh accende alle spalle del suo poeta). Vedere “il lago” alle spalle del giapponese significa capire che si può stringere su quel volto solo dopo aver dilatato lo sguardo all’infinito di cui è fatto o a cui è destinato.
Ecco perché il togliere di Giacometti, il suo affilare senza tregua le figure è in realtà un aggiungere, un mettere sempre più a fuoco. Se le figure gli scappano via dalle mani e non si consolidano mai in esiti per lui definitivi, è proprio per la consapevolezza che non è possibile arrivare a nessuna forma di possesso, proprio come non si possono possedere le stelle.
(Questo per dire che la lettura esistenzialista e sartriana della scultura di Giacometti, è più che altro un comodo stereotipo per ricondurlo dentro una gabbia culturale. Ma lui è più affine ai bizantini, che non a caso amava e guardava, come testimoniano le su Copie dal passato).

Written by gfrangi

Dicembre 21st, 2014 at 2:28 pm

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Pensieri un po’ meno cattivi sulle mostre di Milano (2)

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Mi dicono voci amiche che i miei pensieri sulle mostre milanesi sono stati troppo cattivi. E che in fondo, con tutte i limiti oggettivi, rappresentano pur sempre occasioni per vedere e per conoscere: un “più” di cui tenere conto.
Provo a spiegarmi.
Amando orgogliosamente la città in cui vivo, la vorrei più ambiziosa, anche e soprattutto nel momento in cui entra in gioco la cultura.
Per questo non mi basta riconoscere che nella massa di quadri di Chagall c’è ne sono alcuni bellissimi, come quelli dettati dall’amore per Bella, come quel grande mazzo di fiori in cui c’è tutta la sorpresa della facilità dei fiori, che si rivela ai suoi occhi all’arrivo in Francia. Mi piacerebbe che dietro una mostra ci fosse un disegno, la messa a fuoco di un’idea, un lavoro che dice quanto a Milano si sa ancora pensare e studiare. Un qualcosa che faccia dire a chi abita a Lugano: questa di Milano non devo perdermela. Com’era capitato a chi interessa Chagall in occasione della mostra dello scorso anno di Zurigo, sui suoi primi anni. (Il fatto che Chagall non mi entusiasmi perché ci veda sempre una punta di infantilismo di troppo, è punto di vista del tutto personale).
Non penso che la mostra di Giacometti era meglio che non ci fosse. Giacometti vale il biglietto anche solo per la monumentale testa che chiude il percorso. Ma quando vedo che Giacometti non è entrato nel magnifico Pac di Gardella, mi viene da pensare che la ragione sia che non c’è stato tempo di preparare una mostra che reggesse quegli spazi. Che si è fatto un Giacometti un po’ di risulta. È allora che mi scattano i cattivi pensieri… Milano merita un Giacometti da Pac. Cioè da serie A. E poi perché non lavorare sul rapporto tra Giacometti e Milano. Bastava una saletta documentaria, avrebbe dato un connotato alla mostra…
Su Segantini insisto, l’allestimento è completamente sbagliato. E credo che sia lesivo di Segantini, perché lo chiude, lo ghettizza. Allontana da lui invece che avvicinarlo. Lo oscura. Guardate invece com’è esposto a St. Moritz. Lui si voleva così (foto sotto). E poi la font usta, che è font cubitale del ventennio, non c’entra nulla con lui. Guardare la sua firma per capire. È un peccato: amo Segantini e lo avrei voluto vedere liberato da ottocentismi e stereotipi.
Ora arriva Van Gogh. Non mi aspetto fuochi d’artificio. Ma almeno mi consolo con il fatto che l’allestimento è stato affidato a Kengo Kuma. Almeno con lui la luce è assicurata…

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Written by gfrangi

Ottobre 15th, 2014 at 5:50 pm

Da Cézanne a Giacometti, e viceversa

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Per soli 19,90 euro ho comperato il catalogo di una mostra che non so quanto avrei dato per poter vedere. È quella su Cézanne e Giacometti organizzata nel 2008 dal Louisiana Museum vicino a Copenaghen (tenetelo d’occhio, è uno dei più dinamici d’Europa). “Percorsi del dubbio” era il titolo della mostra che stabiliva dei confronti e dei paralleli per generi davvero perfetti. Ma la cosa interessante di questa mostra è che non era una mostra come da logica ci aspetterebbe a senso unico: cioè quel che di Cézanne vive in Giacometti. Quel che Giacometti ha preso da Cézanne (in mostra c’erano tutti gli studi del maestro di Stampa sulle opere di quello di Aix: sorprendentemente tanti). No, qui l’obiettivo è stato rimettere in circolo tutto: quindi di ri-guardare Cézanne dopo aver messo gli occhi su Giacometti. Sarebbe stato bello vedere il tutto dal vivo, ma già sfogliando il catalogo ci si accorge come non si sia puntato mai su paralleli facili, ma sul portare a galla intese più profonde. Così si sviluppa una dinamica per cui uno sguardo su Giacometti porta ad averne uno più profondo su Cézanne e viceversa. Quello che colpisce alla fine è la contiguità tra loro due, per cui il passaggio da una Sainte Victoire a una veduta di Stampa avviene senza sobbalzi, come se tutt’e due appartenessero a una stessa geografia mentale. Dovessi dire (con molta superficialità) quale sia questa geografia, mi viene da collocarla in quella zona dell’umano in cui l’ansia non smette di essere tale, ma trova un istante quasi epifanico che la porta oltre se stessa. Sono visioni fragili, acuminate che trovano un istante (un istante solo) di stabilità. Costruzioni improbabili che trovano non si capisce per quali strade un punto rapidissimo ed evidente fugace di equilibrio. È questa grandezza senza certezze che avvicina Cézanne e Giacometti a farne nel nostro immaginario, due fratelli (un’idea che la mostra ha riassunto efficacemente in quella “&” che lega i due protagonisti; più che una semplice congiunzione).

Written by gfrangi

Aprile 28th, 2012 at 8:19 am

Giacometti, l’uomo (per Bacon) più importante del mondo

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Nella biografia davvero caotica di Francis Bacon scritta da Daniel Farson (Johan&Levi editore), a intermittenza emergono anche particolari interessanti. Ad esempio quello della predilezione – quasi venerazione – di Bacon per Giacometti (ricambiata a quanto sembra). È una stima che colpisce, specie in una persona come Bacon, che certo non era un artista di buone maniere…. Ecco alcuni brani dal libro che penso non abbiano bisogno di ulteriori commenti.

Giacometti e Bacon a confronto alla Fondazione Beyeler di Basilea

Bacon su Giacometti…
Pur affermando di provare un’ammirazione speciale per Alberto Giacometti, Francis si presentò completamente ubriaco a una cena in suo onore organizzata da Isabel (la Rawsthorne, che fu modella per entrambi, ndr) in un ristorante. Via via che si sbronzava sempre di più, il suo discorso sull’arte degenerò, come al solito, in un monologo involuto sulla vita e sulla morte. Giacometti beveva con moderazione e ascoltava, scrollando di tanto in tanto le spalle: «Chi può dirlo?». Rendendosi conto che stava annoiando quello che lui considerava «il più meraviglioso tra tutti gli esseri umani», Francis sollevò silenziosamente il bordo del tavolo, in alto sempre più in alto, facendo scivolare a terra tutti piatti, i bicchieri e le posate. Giacometti parve deliziato «da questo tipo di risposta all’enigma dell’universo e lanciò un grido di gioia».

Un giorno Francis mi presentò Giacometti, dichiarando: «Questo è l’uomo che mi ha influenzato più di chiunque altro».

… preferiva i disegni di Giacometti alle sue sculture «soprattutto quelli a matita o con la fusaggine. Per lui era una grande avventura vedere emergere qualcosa di sconosciuto, ogni giorno, nello stesso volto».

…Giacometti su Bacon
… una volta, mentre si trovavano in taxi a Londra, Giacometti gli battè a sopresa su un ginocchio dicendo: “Quando sono a Londra, sono omosessuale!”».

Written by gfrangi

Gennaio 3rd, 2012 at 9:16 pm

L’allegria di Giacometti

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Ci ha pensato su per 50 anni. E alla fine Paola Caróla, psicoanalista napoletana, ha raccontato in un libretto appena uscito la sua storia di modella per Alberto Giacometti. Leggendolo se ne capisce la ragione profonda: Paola Caróla vuole riscattare la figura di Annette, la moglie di Giacometti violentemente attaccata nella biografia di John Lord (un attacco che scandalizzò gli amici di Giacometti che avevano fatto un’inserzione sulla London Review of the books per difendere Annette. Tra le firme c’era anche Bacon). Paola Caróla posò alla fine degli anni 50, per un solo busto. Ma l’amicizia con i coniugi Giacometti si protrasse per molto tempo sino alle rispettive morti. Era una di casa: sono belle le descrizione dello studio a cui faceva da contrasto la stanza al piano di sopra, tenuta spartanamente linda da Annette: un quadro con le mele al muro, un letto un tavoilo sempre con fiori freschi al centro. È una stanza che rendeva Giacometti allegro. A volte si metteva a saltellare come un clown, a volte si concedeva complimenti molto canzonatori. La storia tra lui e Annette era una storia che reggeva anche ai tradimenti reciproci. «In fondo tra tutti i nostri amici siamo ancora la coppia che si intende meglio», aveva detto davanti a Martine Neeser, cugina di Annette. Scrive la Caróla: «A mio avviso la scultura era una sorta di intermediario tra marito e moglie, e allo stesso tempo oggetto di unione e diversità. Esprimeva la forza della loro reciproca appartenenza».
Quanto all’allegria, che per la Caróla era una componente strutturale di Giacometti, «nasceva dal concreto, da una limpidità di pensiero, da un discorso essenziale e diretto». E ancora: «Mi è successo di pensare che le sue sculture potessero essere ugualmente considerate come espressioni della soluzione al problema della solitudine, e dal vuoto che creano intorno a esse, cioé a partire dallo spazio che le determina, si stabilisce un legame con tutto ciò da cui esse sono separate».
(ho sempre pensato che fosse un amore e non un’ansia quello che muoveva Giacometti e che lo ha fatto smarcare dall’esistenzialismo in cui pure era immerso).
Nella foto: un abbraccio appassionato di Alberto ad Annette, a Stampa. Sotto, Paola Caróla con il busto di Giacometti.

Written by gfrangi

Luglio 13th, 2011 at 9:59 am

Giacometti va in montagna

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Guardate che meraviglia questa foto! È quella che sta sulla copertina del catalogo della mostra in corso da Gagosian, a Ginevra, Giacometti in Switzerland. Giacometti a torso nudo, accucciato tra le rocce della sua val Bregaglia. Tutto ossa, con montagne  che non sono da meno. C’è da pensare che il senso della scultura in lui abbia avuto genesi in luoghi così.

Post scriptum 1. L’amico Federico Ferraù mi segnala l’esatta posizione cui la foto di Giacometti è stata scattata: è ai piedi del Pizzo Badile (3308 m.), quello che si vede alle sue spalle è lo spigolo nord.

Post scriptum 2. Giacometti aveva scritto una “didascalia” a questa foto: «… fu mio padre un giorno a mostrarmi il monolite. Scoperta enorme; immediatamente considerai quella pietra un’amica, una creatura animata dalle migliori intenzioni nei nostri confronti; ci chiamava, ci sorrideva, come qualcuno già concosciuto e amato nel passato, ritrovato con stupore e gioia infiniti. Subito ci assorbì in maniera esclusiva» (da Ieri, sabbie mobili, 1933)

Written by gfrangi

Febbraio 17th, 2011 at 6:12 pm

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