Robe da chiodi

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Casa Zentner di Carlo Scarpa

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Un bizantino a Zurigo

Dalla collina di Doldertal si può scorgere l’azzurro del lago di Zurigo. Deve essere stato un dettaglio non secondario nella scelta di Savina Rizzi e di suo marito René Zentner che nel 1963 avevano acquistato qui una villa con giardino di inizio 900. Da subito l’intenzione era quella di farne un qualcosa di completamente diverso, affidando il progetto di rinnovamento a Carlo Scarpa. Infatti il rapporto tra l’architetto e la padrona di casa infatti era profondo e di lunga data. Portando Scarpa a Zurigo Savina si portava un pezzo importante e significativo della propria storia personale.

Savina Rizzi, nata ad Udine, nel 1951 aveva sposato in prime nozze Angelo Masieri, architetto, figura chiave nei primi anni di Scarpa, il quale non essendo laureato aveva difficoltà a firmare progetti ed era stato anche accusato di esercitare la professione illegalmente. Con Masieri aveva realizzato alcuni edifici, come la sede della Banca Cattolica del Veneto a Tarvisio e Casa Giacomuzzi a Udine. Il loro era un rapporto maestro-allievo iniziato negli anni dell’università negli anni ’40 e poi evoluto in una vera collaborazione professionale. Inoltre la famiglia di Masieri era titolare di una ditta di costruzioni e a Scarpa, che fino a quegli anni aveva costruito poco, quella relazione aveva aperto occasioni preziose per sottoporre i suoi progetti alla prova dei cantieri. 

La famiglia Masieri era anche proprietaria di un palazzotto in “volta di Canal”, cioè all’innesto di Rio Foscari con il Canal Grande. L’idea audace di Angelo e Savina era quella di affidarne la ristrutturazione a Wright, il grande architetto al quale Masieri stesso e Scarpa si erano apertamente ispirati nella soluzione a sbalzo dell’edificio di Tarvisio. Nell’estate del 1952 i due sposi erano dunque volati negli Stati Uniti per proporre a Wright il progetto. Purtroppo, prima ancora di incontrarlo nel suo studio Wisconsin, un grave incidente d’auto aveva mandato all’aria tutti i loro piani: Angelo Masieri ci aveva rimesso la vita mentre lei era rimasta ferita. Appena rimessasi Savina aveva però voluto realizzare il sogno del suo sfortunato marito. Anche Wright aveva accettato di proseguire nell’incarico. Intanto la destinazione del palazzo era cambiata, diventando da residenza per la famiglia Masnieri, a Fondazione intitolata allo sfortunato architetto, costituita per offrire ospitalità agli studenti fuorisede di architettura iscritti allo Iuav. L’architetto americano nel 1953 aveva fatto avere i primi progetti che prevedevano anche una nuova facciata per l’edificio, contiguo al ben più imponente Palazzo Balbi. «Sorgerà dall’acqua come un fascio di grandi canne, che si vedranno al di sotto dell’acqua stessa», aveva scritto Wright, accompagnando quei primi disegni. La facciata “a transenna” era infatti scandita da sostegni marmorei che si sviluppavano in verticale per tutta l’altezza, dando la sensazione di un’architettura vibrante e infinita. 

Il progetto di Wright per la Fondazione Masieri a Venezia

La notizia arrivò a Venezia provocando però un maremoto di polemiche, innescate da Antonio Cederna e da Italia Nostra, che erano su posizioni rigidamente conservative. A difesa del progetto di Wright erano scesi invece in campo tanti importanti nomi dell’architettura, guidati da Bruno Zevi che aveva voluto dedicare un numero della rivista “Metron” alla questione, con scritti di Nathan Rogers, Giuseppe Samonà, Alfonso Gatto e in particolare di Sergio Bettini. Bettini nel suo intervento (davvero meraviglioso: è stato ripubblicato proprio quest’anno in “Tempo e forma”, Quodlibet) parlava di un progetto che aveva «qualcosa di magico, di incantato, come un’apparizione» e si augurava che Venezia non smentisse se stessa, tradendo «il coraggio dell’occasione, che ha costituito la sostanza più profonda della sua vita nei secoli». Tutto inutile: nel 1955 la Commissione igienico-edilizia bocciava il progetto. Così l’intervento di Wright si iscriveva all’elenco delle occasioni perdute, come sarebbe accaduto al progetto del nuovo ospedale di Le Corbusier (1959) e al Palazzo dei Congressi di Louis Kahn (1969).

Savina Rizzi comunque non aveva nessuna intenzione di arrendersi e anni dopo, nel 1968, aveva affidato il progetto della Fondazione Masieri a Carlo Scarpa, che naturalmente intervenne sugli interni lasciando intatta la facciata. Prima però Savina aveva chiesto a Scarpa di portare a termine il laborioso e curatissimo progetto della villa di Zurigo, città dove era andata ad abitare con René Zentner, suo secondo marito. Villa Zentner ha avuto un destino discreto, nonostante si tratti dell’unico progetto di Scarpa fuori d’Italia; per volontà dei suoi stessi proprietari è stata poco esibita, visitata raramente da altri architetti, ma in compenso è stata custodita in questi anni con molto scrupolo. La si riscopre oggi grazie ad un libro che ricostruisce la vicenda costruttiva, allargandola alle affascinanti e combattute circostanze che ne sono la premessa (Davide Fornari, Giacinta Jean, Roberta Martinis, “Carlo Scarpa. Casa Zentner a Zurigo: una villa italiana in Svizzera”, Electa architettura, 206 pagine, 45 euro). 

Il camino nella playroom di Casa Zentner

È un’impresa complessa quella in cui nel 1963 si avventurano Scarpa e i suoi committenti. La distanza pesava, in particolare per un architetto per il quale il dettaglio ha una importanza decisiva. Alla fine risulterà risolutiva la determinazione di René Zentner nel vincere le rigidità delle varie commissioni che dovevano via via approvare il progetto. E risulterà soprattutto decisiva l’intesa, quasi una complicità, tra Savina Rizzi e Scarpa stesso. Come scrive Roberta Martinis, Casa Zentner diventa «un progetto esistenziale per un “residuo affettivo” lontano… un aristocratico atlante per figure dell’identità di Savina». Al cuore di questo operazione c’è naturalmente la memoria di Venezia, che vive ovunque, nella concezione degli spazi, come nella scelta dei materiali. È una memoria fluida, che non si irrigidisce mai in scelte dogmatiche ma che si configura come ritmo, come libertà nelle soluzioni. «I percorsi tra gli spazi hanno una precisa sequenza che ricorda quella della città di Venezia, in cui strette calli conducono a grandi spazi aperti», riporta in una breve testimonianza Theo Senn, architetto che era stato al fianco di Scarpa sul cantiere. «Il salone centrale è come piazza San Marco, da cui si sporge un pontile che porta all’esterno». Per il pavimento dello stesso salone Scarpa disegna un parquet come fosse un tappeto ligneo, con “corsie” larghe 110 cm, e un ritmo sincopato di liste chiare e liste scure. I pilastri del salone incorporano una piastra di marmo Clauzetto incrostata con motivi astratti, che nasconde un complesso meccanismo di illuminazione. «Presenze luminose in maschera», le definisce nel suo testo Roberta Martinis. Nonostante l’affidabilità dell’impresa svizzera titolare del cantiere, Scarpa appena può impone i suoi artigiani e fornitori veneziani: le tessere del mosaico per l’esterno, color oro bianco e oro, arrivano dalla ditta Donà di Murano, veri tocchi di un preziosismo bizantino. Le forniture di marmi, tra cui il paonazzetto usato per il bagno personale di Savina, arrivano dalla ditta di Luciano Zennaro. La partita più complessa era stata quella degli intonaci; Scarpa voleva finiture a calce che però avevano sollevato le perplessità dei responsabili dell’impresa svizzera. Per questo alla fine l’architetto coinvolse il suo fidatissimo Eugenio De Luigi. Per i soffitti la scelta era caduta  sullo stucco veneziano speciale, che restituisce vibrazioni luminose simili a quelle dell’acqua della Laguna. Per le pareti invece aveva optato per una lisciatura a grassello che nella finitura inglobava, non a caso, piccoli granelli di “sabbia blu”. 

Il bagno di Savina in marmo paonazzetto. La foto è di Guido Ballo

Questo articolo è stato pubblicato su Alias il 21 novembre 2020

Written by gfrangi

Novembre 28th, 2020 at 4:36 pm

Tra Scarpa e Mantegna, soprassalti veronesi

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La scala di Scarpa alla sede del banco Popolare di Verona. Foto Archisquare.it

La scala di Scarpa alla sede del banco Popolare di Verona. Foto Archisquare.it

Giovedì mattina. Appuntamento di prima mattina al Banco Popolare di Verona, quella su Piazza Nogara, ultimo progetto di Carlo Scarpa, 1976. Vista più volte dalla piazza, ma il messo il piede dentro. Invece lo spettacolo è dentro, con ambienti che ti sfilano sotto i piedi e davanti agli occhi con una varietà a cui non si riesce a tener dietro. L’occhio è conteso dalla perfezione dei particolari e dal continuo mutare degli spazi a seconda dal punto in cui li si guarda. Ma su tutto, la meraviglia di una scala elicoidale, con i parapetti finiti a stucco lucido, color aragosta e corrimano in esente di legno pregiato. Si solleva perfetta, ampia, flessuosa, elegante come una strepitosa collana, con cui ci si sia concessi un assoluto tocco di classe. Salirla è un’esperienza. Aveva spiegato Scarpa: «Ho cercato di fare delle scale una specie di passeggiata nello spazio…». In effetti è una scala che non scende, sale sempre e soltanto. Chapeau.

Prima di ripiombare a Milano, una puntata a San Zeno. Lo spazio della chiesa è quello che ricordavo: meraviglioso, dolce per le textures rosate dei muri e vertiginoso nello stesso tempo, nonostante i tanti innesti subiti secolo dopo secolo. Il soffitto trecentesco a carena lo chiude come delicato coperchio. Ma su tutto, in fondo al presbiterio rialzato, domina la sassata del Polittico di Mantegna. Le signore che solerti stanno facendo le pulizie mi lasciano passare oltre il cordone. Da sotto si scoprono i piccoli squarci di cielo, che riesce ad essere cupo per quanto sereno, ritagliati nelle cornici di marmo. I corpi sembrano incavati a forza nella tavola; la luce che arriva da destra, è una luce “oscura”. Più che di una composizione si ha l’impressione di un vero assedio dello spazio della tavola. Mantegna dipinge con la determinazione feroce di chi sta compiendo un’occupazione armata. Non fosse equivocabile il paragone, direi che c’è in lui un qualcosa di terroristico. Comunque grandissimo.

A sinistra, prima di scendere dal presbiterio, ci aspetta l’antica statua di San Zeno che ride. Un santo che se la gode…

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Ottobre 21st, 2013 at 9:29 pm

I miei 12 libri (più uno) del 2012

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I dodici libri d’arte del 2012, uno al mese (solo edizioni italiane). È una selezione assolutamente personale di libri a cui ho guardato con molto interesse, con curiosità e che hanno acceso in me un certo amore. I cataloghi sono in netta minoranza, e questo vuol dire qualcosa. Non segnalo i prezzi, perché non siano condizionanti. Mi limito agli italiani, per ovvia coscienza dei limiti di un’operazione di questo tipo. Allargarla sarebbe velleitario. L’ordine dei libri è casuale: non è una classifica. Resta fuori un libro che raccomando, ma non avendo immagini non può essere annoverato tra i libri d’arte, quello di Luca Doninelli, Salviamo Firenze, più che un pamphlet sul degrado della città, un viaggio sui luoghi genetici del Rinascimento, come ipotesi di lavoro per l’oggi.

Andrea Carandini, Atlante di Roma antica (Electa)
Sfogliarlo è un come fare un viaggio. Un libro innovativo, come per Bramantino (vedi maggio) capace di tenere insieme massima erudizione e massima divulgazione.

Marco Tanzi, Arcigoticissimo Bembo (Officina libraria)
Un libro poco accademico (con tanto di sana dose di polemiche) che fa il punto su un artista che è stato oggetto di studi, ma anche di amori di una vita.

Massimo Cacciari, Doppio ritratto (Adelphi)
San Francesco in Dante e Giotto. Ovvero come un santo incalza e mette sotto scacco la cultura, anche la più grande. Un libretto, che ho sottolineato quasi per intero…

Pasolini a Casa Testori (Silvana)
Palese conflitto di interesse, ma il libro- catalogo della mostra è un punto di orgoglio: un approccio visivo preciso, didattico e profondo a PPP

Bramantino (Officina libraria)
Il miglior catalogo dell’anno. Un punto di riferimento di come, in un’epoca di spaesamento come questa, vanno fatti (e si possono fare) buoni cataloghi.

Luca Ronchi, Mario Schifano. Una biografia (Johan & Levi)
Una biografia a spezzoni, come a spezzoni fu la sua vita. Un modo per rincontrare Mario Schifano, pittore dalla grande anima.

David Hockney, The Big Message (Einaudi)
Un libro libero. Dal grande vecchio della pittura inglese, una lezione di giovinezza. Bella anche l’edizione.

Matisse, Jazz (Electa)
Per me Jazz è quasi un libro “biblico”. Una cattedrale messa su carta. Meraviglioso insieme di immagini e di testi.

I vetri di Scarpa (Skira)
Uscito in occasione della mostra alla Fondazione Cini di Venezia, è più che un catalogo, un regesto preciso e completo di quegli oggetti meravigliosi che chiunque sognerebbe di avere.

Matisse, Genesi (Jaca Book)
Un altro grande vecchio sempre giovane. Il libro un po’ tradizionale nel formato, ma ottimo per completezza e le immagini sono gioia per gli occhi

Max Seidl, Padre e figlio. Nicola e Giovanni Pisano (Marsilio)
Due volumi (il secondo solo di immagini, in b/n, spettacolari), una ricerca affascinante, anche sotto il profilo storico e sociale.

François Boespflug, Le immagini di Dio (Einaudi)
Affascinante (e incontrovertibile) dimostrazione del bisogno degli uomini di raffigurare Dio. Sotto forma di dizionario.

Written by gfrangi

Dicembre 29th, 2012 at 10:35 am

12 ore a Venezia: Tiziano, Capogrossi e Scarpa

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Carlo Scarpa, 1940

Giovedì 1 novembre, giornata veneziana con truppa di ragazzi al seguito. È il giorno dell’acqua alta a 1,40. Il Canal Grande è qualcosa d’inimmaginabile, vasto, semi deserto, perché solo pochi vaporetti possono solcarlo. A destra e sinistra che parta un canale o una calle, non cambia niente. È solo acqua. La prima tappa è l’Accademia, per vedere La Fuga in Egitto di Tiziano. Il passaggio dal traghetto alla porta del museo è complicato, ma ce la si fa con i piedi a mollo (e moglie sulle spalle…)
Su quel Tiziano giovanile avevo già messo giù qualche pensiero, in occasione della mostra di Londra. È un quadro che dà gioia a vederlo. Ma a Venezia l’occhio arranca per un allestimento angusto, mal congegnato: a me è capitato (ma credo ai più) di entrare nel recinto della mostra, accolta all’interno di quella che era la Chiesa della Carità, da dietro. Cioè di prendere Tiziano di spalle. Già il titolo faceva leva sulla solita enfasi fuori luogo: Il Tiziano mai visto, cosa per altro non vera, dato che era stato in mostra a Londra per due mesi. A Londra il titolo era: Titian’s first masterpiece. A fresh look at nature. Volete mettere? Quel “fresh look” coglieva davvero la quintessenza del quadro.

Come per magia nell’arco di un’ora l’acqua si era riadagiata nel suo alveo. Strada libera dunque per andare alla Guggenheim a vedere Capogrossi. Un piccolo choc ci accoglie: nell’ala sul giardino è stata smontata la Collezione Mattioli per far posto alla neo arrivata Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof. Morandi e Boccioni spodestati, per far largo a tanta America, non particolarmente interessante. Sul terrazzo che dà sul Canal Grande hanno piazzato il grande Calder rosso della collezione Schulhof: ma non sta bene e visto dal traghetto è troppo basso e tagliato dalla balaustra. Neanche gli americani sono perfetti. In compenso quella di Capogrossi è mostra forte e compatta. Una rivelazione per me i quadri dei primi anni, di un realismo magico a un crocevia tra Scipione, Carrà e De Chirico. Poi entra in gioco quel segno totemico che lo accompagna per tutta la vita, e sorprende la sua forza nel riuscire a non togliere mai forza a quel segno reiterato in mille soluzioni. C’è un che di contemporaneo e arcaico nello stesso tempo…

Dulcis in fundo, Isola di San Giorgio, i vetri di Carlo Scarpa. Una sfilata di meraviglie da stropicciarsi gli occhi. Ho capito che la sua grandezza sta nel calare sempre la sua fantasia dentro la ricerca di nuove soluzioni tecniche. La fantasia si misura in una danza continua con la materia e le sue possibilità (quelli con il color lattime, un bianco impalpabile, sfuggente). Non sta mai sui risultati raggiunti, aggiungendo tocchi che gli sarebbero riusciti certamente facili facili. Ogni volta invece chiede al vetro qualcosa di nuovo e qualcosa di più, in un oltranzismo mai ansioso. Sono oggetti senza prosopopea, che non vogliono essere niente di più di quel che sono. Non hanno bisogno neanche di dar sfoggio dell’incredibile perizia tecnica che ha richiesto il farli essere. Sono bellezze armate di certezze e di semplicità, bellezze forgiate in un fuoco tranquillo. A volte guardavo le date, e notavo quanto sia difficile tante volte trovare in loro segni del gusto o dello stile del tempo: con nonchalance ne prescindono. Solo Matisse sapeva fare altrettanto…
Usciti dalla mostra ci aspettava un tramonto leggendario, “rosso Scarpa”, nel cielo sopra la Salute. Con questo negli occhi si torna a casa…

Written by gfrangi

Novembre 8th, 2012 at 11:15 pm

Da Albini a Ponti, l’Italia delle geniali cose da poco

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In questi giorni bazzicando qua e là per il Salone del mobile, mi sono seduto su una sdraio larga e ospitale disegnata da Vico Magistretti (foto sotto), sull’agile Superleggera di Gio Ponti, su una seggiola anche lei leggerissima di Chiavari che un gruppo di ragazzi appassionati ha deciso di rilanciare ( foto sopra; andate a vederla anche sul sito www.segnoitaliano.it). Poi ho rivisto il Veliero di Franco Albini, rimesso in catalogo da Cassina (foto sotto). L’ho rivisto collocato in un contesto simil casa, restare aereo e sospeso, seppur carico di libri. Cose geniali, che non temono di esser anche cose da poco. Cose semplici e leggere, che mettono di buon umore. A Venezia il 20 riaprono il negozio Olivetti disegnato da Scarpa restaurato: leggendo l’articolo di Fulvio Irace che lo annuncio, scopro che ha una dimensione di 20 metri di profondità per solo 5 di larghezza. Dalle foto me ne ero fatto idea di uno spazio fluido e senza ristrettezze: magie di Scarpa. È vero, è un pezzo di magnifica archeologia, visto che la realtà produttiva che aveva fatto essere quel gioiello è stata spazzata via. Ma è pur sempre un altro sintomo di un’Italia che non vuole perdersi.

Sono spezzoni di un’Italia magnifica, che sapeva trovare risposte alte a questioni banali. Anche Koolhaas ne ha parlato alla biennale per la democrazia di Torino, ha avuto parole di elogio per l’architettura italiana di primo Novecento, facendo coraggiosamente riferimento anche all’architettura della stagione fascista. Ha elogiato l’indistinto tipico di certe aree urbane della prima metà del Novecento, dove tutto era aperto, «anche la possibilità di avventura», in confronto agli spazi urbani superorganizzati di oggi, dove «ogni metro è occupato da un’opera d’arte, ogni percorso è definito, dove niente può più avvenire. Angosciante».

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Aprile 18th, 2011 at 8:01 am

Belle chiese di oggi. Ecco le fotine richieste…

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Le Corbusier, la chiesa del Convento di La Turette

Gio Ponti, la Concattedrale di Taranto (1964-70)

Steven Holl, Cappella di Sant’Ignazio, Seattle (qui altre foto)

Ignazio Gardella, Sant’Enrico, San Donato (1963)

Carlo Scarpa, San Giovanni Battista a Fiorenzuola

Gustavo Pulizer Finali, Santa Barbara, Arsia (1943)

Alvar Aalto, Chiesa di Santa Maria Assunta, Riola (1966) (qui altre foto)

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Novembre 15th, 2010 at 7:50 pm

Belle chiese di oggi. Ecco un elenco

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L’amico Luca mi sfida ad un’ennesima classifica: quella delle più belle chiese moderne, secondo me naturalmente. Premetto che quelle meritevoli sono tante, sicuramente più di quelle che si potrebbero contare nell’ottocento, e che alcune le ho viste solo per fotografia. Seconda premessa, tengo fuori gara la Sagrada Familia, per motivi che sono semplici: troppe le suggestioni che entrano in gioco, troppo diverso l’impegno che la sua costruzione ha comportato.

Secondo: non amo le chiese a vela, quelle con spirali che sembrano coni di panna risucchiati verso il cielo; quelle con gli spazi pensati per produrre suggestioni a man bassa. Tra queste ci sono quelle di Mario Botta, compresa la prima, quella di Mogno, in Valle Maggia, che di per sé non è affatto una brutta architettura. Non amo le chiese di Michelucci, architetture troppo incerte tra eccitazione e passatismo (molto meglio la stazione di Santa Maria Novella…). Mi scuso per le tante mancanze dovute a non sufficiente conoscenza… (sarò grato se integrerete)

Non è una classifica, è un elenco, anche se la tentazione di dire che la chiesa del convento di La Turette sia la più bella è tentazione forte (Le Corbu). Ecco le altre: Alvaro Siza, chiesa di Marco de Canaves, Oporto; Figini Pollini, chiesa Madonna dei Poveri, Milano; Gio Ponti, Concattedrale di Taranto; Alvar Alto, chiesa di Riolo; Le Corbu, Ronchamp; Gardella, Sant’Enrico, a San Donato; Carlo Scarpa, San Giovanni Battista a Fiorenzuola; Steven Holl, cappella di sant’Ignazio, Seattle. Poi ci sono due commoventi chiese della stagione. “fascio e martello” (le città costruite dal fascismo)): la Santa Barbara di Arsia (in Istria) di Gustavo Pulizer Finali, e la chiesa parrocchiale di Segezia (Foggia), con la facciata dolecemente traforata. Ma ho visto solo foto di esterni. Ma perché non citare Santa Maria Rossa di Muzio a Milano, con quella sua volta a botte, oggi delicatamente accarezzata dalle luci di Dan Flavin?

La chiesa più bella forse è una che non è mai stata costruita: è la chiesa di San Carlo alla Barona a Milano di Aldo Rossi. Restano disegni e un modellino. Rossa di mattoni lombardi, struttura da fabbrica ma con grande statue stile san Carlone in facciata. Un colpo al cuore…

Written by gfrangi

Novembre 10th, 2010 at 7:30 pm