Due situazioni intercettate questa settiamana. Adrian Paci, albanese classe 1969, arrivato in Italia con una borsa di studio dal 1992, ha realizzato per la chiesa di San Bartolomeo una Via Crucis: fotografie in bianco e nero prese dalla realizzazione di un suo film, stampate su alluminio. Una rappresentazione molto pasoliniana. Secionda situazione: Casa Testori, veranda. Andrea Mastrovito, bergamasco, classe 1978, interpreta lo spazio usando le tre grandi finester come fossero altrettante ante di un politicco sulla Crocifissione. La tecnica è la più sobria possibile, ma anche quella più ad effetto: il disegno è stato ricavato chiudendo gli spiragli di luce delle tapparelle lasciate appena sollevate.
Innanzitutto colpisce la coincidenza dei due fatti, che porta a riconsiderare il fatto che il soggetto della crocifissione è un soggetto forse “inevitabile” per un artista. Non è una questione di crederci o meno: è un punto di condensazione dell’umano che non ha paragoni. Ognuno ci arriva per strade sue e con corde sue. Quella di Paci è una Via Crucis delicata ma disperatamente solitaria. Non c’è più folla ad accompagnare Gesù. C’è rimasto solo un manipolo di amici, tra capannoni di una periferia dismessa. Quella di Mastrovito è una Crocifissione leggera, quasi sussurrata (le croci sono sagomate un po’ di traverso). È molto importante il percorso che Mastrovito racconta nel catalogo: aveva saputo che quello era il luogo dove venivano esposte le persone della famiglia per l’ultimo omaggio. E quindi è come se la funzione, pur episodica, di quel luogo avesse segnato anche le strutture. Perché quella della morte non è esperienza che passa.
Né in Paci né in Mastrovito si coglie una minima enfasi retorica; sono crocifissioni in diverso modo scarne, spogliate di ogni orpello e di ogni dispositivo drammatizzante. Questo ce le fa apparire come davvero “necessarie” all’interno del loro percorso. Se poi dovessi cercare di spiegare perché due artisti di quella generazione, certamente figli di una secolarizzazione spinta, approdino alla crocifissione, non so rispondere in altro modo che così: la croce è il destino dell’uomo riportato in alto, ri-innalzato. È il momento drammatico da cui ciascuno passa proposto come imprevedibile accettazione (le braccia aperte, il il consegnarsi a un’altra volontà). È la morte che accade in alto, davanti al mondo, e non nelle cantine della vita. È la sola idea di morte agganciata ad una speranza. Immagino che per un artista riuscire a dire questo sia la cosa più grande che possa augurarsi.