Robe da chiodi

Dio è una virgola

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Dall’introduzione di Papa Francesco al libro “Domande di Dio, domande a Dio. In dialogo con la Bibbia” di Timothy Radcliffe e Lukasz Popko.

La domanda è un gesto umano, umanissimo: fa trasparire il desiderio di conoscere, di sapere, l’indole di ciascuno di noi di non accontentarsi dell’esistente, ma di andare oltre, di raggiungere qualcosa, di andare in profondità su un argomento. Chi fa domande non si accontenta. Chi pone questioni è animato da un’inquietudine che brilla come sintomo di vitalità.

I cuori adagiati non fanno domande. Chi ha risposte su tutto non si pone in questione su niente. Pensa di avere in tasca la verità come si tiene in tasca una penna, pronta all’uso. Il beato Pierre Claverie, vescovo in Algeria, domenicano come gli autori di questo testo, martire dell’amicizia e del dialogo con i nostri fratelli musulmani, amava ripetere: «Io sono credente, credo che Dio c’è. Ma non pretendo di possederlo, né tramite Gesù, che me lo rivela, né tramite i dogmi della mia fede. Dio non lo si possiede. La verità non la si possiede».

Ecco, questa ricerca, questo desiderio, questo anelito si concretizzano nel fare domande, nell’avere domande, nell’ascoltare le domande degli altri. Lo sappiamo bene: la filosofia è nata dai grandi interrogativi dell’esistenza: «Chi sono io?», «Perché c’è qualcosa e non il nulla?», «Da dove vengo?», «Verso dove va la mia vita?». È per questo motivo che il cristianesimo si è sempre posto vicino a chi si interroga, perché – ne sono convinto – Dio ama le domande, le ama davvero. Penso che ami più le domande delle risposte. Perché le risposte sono chiuse, le domande rimangono aperte. Così come Dio – ha scritto un poeta – è una virgola, non un punto fermo: la virgola rimanda a qualcosa in più, manda avanti il discorso, lascia aperta la possibilità di comunicazione. Il punto chiude il discorso, mette un termine alla discussione, ferma il dialogo. Sì, Dio è una virgola. E ama le domande.

Nell’immagine: Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo, 1973

Written by gfrangi

Ottobre 31st, 2023 at 3:51 pm

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Amleto, o del fallimento

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Antonio Latella Piccolo Teatro, 29 ottobre

Una delle cose che Testori cercava era il rapporto con il pubblico: lo scuoteva, in un maniera anche potentissima. Il pubblico lo voleva là (e indica lo schermo dietro il palco dove viene proiettata la sala durante tutte le prove, ndr); voleva un pubblico attivo e non passivo, che potesse reagire e far sentire la sua voce. Quando scuoti il pubblico non vuol dire non amarlo, vuol dire amarlo di più. Quando bestemmi Dio non vuol dire non amarlo, ma amarlo di più perché ne hai ancora più bisogno. Quindi questo rapporto pubblico-attore è una delle domande che mi sto facendo in questo periodo del mio percorso. Bottega amletica ha fatto una call e ha scelto non solo degli attori ma anche otto spettatori che sono stati adottati da ciascun attore e che stanno seguendo in diretta il processo creativo. Gli attori raccontano al loro “spettatore” quello che è stato fatto, stilando un diario quotidiano.

Questa esperienza della Bottega mi ha riproposto la parola “fallimento”: riflettevo sul mio percorso come regista, sul fatto è che ho portato in scena tre Amleti. Mi sono chiesto perché? Una delle cose più importanti è l’accettazione del fallimento. Quando tu affronti Amleto tu sei piccolo piccolo, comunque lo fai fallisci. Se non hai paura di questa parola, questa parola ti aiuta a cercare a crescere. È un motore di ricerca. E credo che condividere questa cosa con il pubblico è importante; vedere gli attori che qui sul palco si espongono anche con i loro errori è importante. Sentire che la ricerca non è tutta forma ma è fallimento, è importante. Ho sentito il bisogno di dire questo oggi a chiusura delle tre lezioni  pubbliche che abbiamo fatto. Ogni volta che ho fatto Amleto ho fallito. Ma sono contento di aver fallito, perché se in Amleto trovi la soluzione sbagli. Amleto inizia nel testo originale con “Chi è là?”.  Pazzesco. Un testo che si apre con una domanda. E non c’è una risposta. “Rispondi, te lo impongo. Fermo, svelati”, dice Orazio. Non c’è una risposta. Ed è questo il punto della ricerca di Testori: non è la risposta ma è la domanda. Ed è quello che mi sono chiesto quando abbiamo iniziato Bottega: dobbiamo lavorare sul fatto che Testori non è la risposta ma è la domanda. Quello che io penso di Testori, è condizionato dal mio vissuto. Quello che voi potete dare a Testori (rivolgendosi agli attori e al pubblico giovane in sala) lo potete dare solo voi. Prenderlo come fardello, caricarlo sulle spalle e accompagnarlo dentro il XXI secolo. Credo che sia una delle possibilità più grandi che stiano accadendo in questi giorni. Per questo volevo ringraziare sia loro che voi pubblico che siete qui. 

Non so se è nato prima il tempo o la parola. C’è un tempo reale, un tempo naturale, un tempo teatrale. Amo gli spettacoli che lottano contro il tempo teatrale, e cercano un tempo reale, nonostante che quando il pubblico sente un tempo reale sul palcoscenico si annoia perché lo riconosce e vuole invece il tempo teatrale, giustamente. Ci sono degli autori che hanno un tempo pazzesco: vengo dal fare un Goldoni che ha un tempo meraviglioso. Anche Testori ha un tempo. Testori anzi ha una musica. Ogni suo Amleto ha una sua musica. La sceneggiatura per Amleto ha una musica dilatata, perché è una musica che spesso ha periodi lunghi, senza virgole, senza punti. Spesso chiedo agli attori di non pausare là dove non c’è la pausa, ma di consegnare la parole nella sua lunghezza. La sceneggiatura è fatta di questo. È come se con la parola creasse uno spazio, una proiezione e in questa proiezione si inserisce il dialogo. Ma è parola nella parola, non è parola nell’immagine. È la parola che fa l’immagine e poi il dialogo sta nella parola. 

L’Ambleto ha un ritmo teatrale, ha una musica teatrale; loro si divertono moltissimo a leggerlo perché lo riconoscono immediatamente. Ha un ritmo, una potenza, è tutto giocato sul meta teatro: nella prima parte fanno finta di essere personaggi, poi non sono personaggi, poi finalmente diventano personaggi, con quella veemenza, con quell’energia che richiede il testo teatrale. 

E poi c’è l’ultimo, Post-Hamlet: non è un gioco quello di proporlo a ritmo rap, perché è incredibile come Testori avesse questo tempo del XXI secolo. Forse per questo non è stato capito nel XX secolo. Perché non ne rispettava il tempo. Spesso lo recitavano dilatando il tempo, là dove non c’era bisogno di dilatarlo. Quindi rischiava di essere noioso. Invece ha un tempo pazzesco. Io sono del 900 e quando lo leggo lo leggo con un impeto condizionato dall’aver visto gli spettacoli con Branciaroli. Per me recitare Testori è un tamburo incredibile, mi spacca, mi squarta. La prima volta ho letto agli attori come lo farei io, cosa che in genere non faccio mai. Perché volevo che sentissero che c’è una musica dentro; dentro questa carcassa Testori mette la sua musica. E credo che sia una delle cose più importanti che fa: parola, musica; tempo, parola; parola, pubblico; tempo, parola, pubblico. 

Non ci può essere Testori senza reazione del pubblico, se il pubblico non reagisce non è Testori. Lui lo pretende. 

Un’altra cosa che va affrontata è quella dell’eredità. La questione dell’eredità che è tanto importante per lui: guarda caso per parlare di eredità sceglie Amleto. Sapete benissimo che nel Bardo Amleto alla fine muore, muore tutta la famiglia reale; muore e lascia il regno e il futuro nella mani di Fortebraccio. Testori fa qualcosa di pazzesco, lo fa anche con cattiveria: perché bisogna essere cattivi per farsi capire e quindi si rischia di non essere amati.

Sentite come lo spostamento non viene dato ad un uomo che deve diventare re, ma viene dato ad un popolo. E dice anche “io vi odio”. La responsabilità di quello che facciamo e scegliamo ogni giorno: questo è il fallimento. La responsabilità che ci siamo presi. Questo è il fallimento. Lo dico in questo modo, perché con quello che sta succedendo, è chiaro. Ma responsabilità è il fallimento. Difatti Post-Hamlet attacca con il coro, attacca con il popolo che ha perso perché il popolo ha cancellato la memoria. Il popolo senza memoria non è un popolo. Perché non può passare quello che hanno fatto i nostri padri. Lo dimenticherà. Questo ci dice Testori: forse per questo motivo è stato meno amato dal popolo, perché chiedeva tantissimo. Credo che sia importante questo, perché riguarda la responsabilità di pensare a voi pubblico. Credo che dia un senso alla ricerca, all’essere qui in questa sala. 

A proposito di parole e musica vorrei farvi sentire un pezzo che ha scritto Testori che cantava Alain, “Quando la sera”, che Alessandro Bandini ha portato ai provini. La cosa meravigliosa di questo pezzo è che non finisce. Lui lo sfuma pian o piano. È un po’ come la sua ricerca in Amleto. Non finisce: sceneggiatura, Ambleto, Post-Hamlet e poi che è ritornato alla sceneggiatura. Quindi il viaggio in questo viaggio in questi classico ha l’andamento della vita.  

Written by gfrangi

Ottobre 31st, 2023 at 3:43 pm

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Aldo Rossi e Santa Maria alla Porte

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Riprendo dopo un lungo sonno, o almeno ci provo. Lo faccio con una semplice citazione intercettata oggi dai “Quaderni azzurri” di Aldo Rossi (n. 45, 4 aprile 1991 – luglio 1991). «Chiedersi se qualcosa comincia o continua. Un cominciamento o una continuità. Che tutti vorrebbero un cominciamento anche se questo urta la continuità. “Consurgens”. Pensavo e a lungo all’iscrizione della Chiesa di fronte allo studio, Santa Maria alla Porta. “Ascendit quasi Aurora Consurgens”. Evidentemente è tratta dal Cantico dei cantici ma la sua composizione mostrava l’ignoranza di molti. Primo confondere “ascendere” con “assumere” cioè l’Assunzione è il salire,  Maria (assunta) è l’eletta che entra nel regno dei cieli (Virginis assumptio), in un certo senso essa è ammessa in questo Regno mentre l’Ascensione è il ritorno alla propria origine celeste “dies ascensionis in coelum domini nostri Jesu Christi”. Ma anche sembrava che quel “consurgens” come l’Aurora indicasse uno stato in cui il salire distruggeva la propria immagine come l’aurora che sorge nel cielo (l’aurora dalle dita di rosa) che nel sorgere si annulla e scompare come se quel “consurgens” fosse un sorgere per disperdersi nel cielo. Del resto consorgere mi sembra scomparire nelle lingue latine».

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Ottobre 20th, 2023 at 5:20 pm

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Picasso e l’astrazione, un’unione d’affari…

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Guitare et bouteille de Bass , 1913

È stata scelta saggia quella di ricorrere a una “&” commerciale per risolvere il titolo della mostra su “Picasso & l’abstraction” organizzata dai Musées royaux des Beaux-Arts di Bruxelles in collaborazione con il Musée National Picasso di Parigi. Quel logogramma suggerisce giustamente l’idea che tra i due soggetti più che una convergenza si sia stabilita un’”unione d’affari”, dove l’affare pende tutto dalla parte di Picasso. Il nome del grande malagueño e la categoria dell’astrazione rappresentano infatti un ossimoro, sia come principio che come esito. L’oggetto resta invariabilmente per Picasso un punto di partenza, ancorché a volte pensato prima che visto; e gli oggetti non si smarriscono mai dentro le composizioni che con più radicalità li scompongono. Come sottolinea il curatore della mostra Michel Draguet nel testo in catalogo, era stato Roger Fry a creare l’equivoco: nel 1910, in occasione di una mostra da lui stesso organizzata sulla pittura dopo Monet, aveva qualificato come “astratta” la ricerca portata avanti da Picasso in quei mesi cruciali. In realtà, come precisa Draguet, per astrazione Fry intendeva «una proliferazione di forme geometriche che invadono la composizione». Ci aveva messo del suo anche Guillaume Apollinaire, nel 1913, quando nei “Peintres Cubistes” aveva qualificato la novità di questi artisti nel saper restituire un «piacere degli occhi» indipendentemente dallo «spettacolo delle cose naturali». Più tardi però Apollinaire sarebbe corso ai ripari precisando che «io allora, secondo l’uso linguistico di quegli anni, usavo il termine “astratto” nel senso di “non verosimigliante”, assolutamente non nel senso di “non rappresentativo” come avviene oggi».

La mostra di Bruxelles risente inevitabilmente del perpetuarsi di questo fraintendimento, rischiando così di risultare generica e latitante rispetto al tema proposto, nonostante la qualità dei prestiti ottenuti. Tuttavia nel percorso c’è un momento, molto ben documentato, in cui le cose anche per Picasso sembrano essere sul ciglio di una drammatica perdita di “oggettualità”. È l’estate del 1910; l’artista si è già inoltrato da qualche mese nel cubismo analitico. Invitato dallo scrittore Ramón Pichot, si convince a passare qualche mese a Cadaquès dove viene raggiunto anche da André Derain e da sua moglie. Picasso lavora con molta intensità  fino al ritorno a Parigi a settembre: però alla fine ripoterà indietro solo dieci tele e le quattro acqueforti per illustrare il Saint Matorel, romanzo dell’amico Max Jacob. Per Daniel-Henry Kahnweiler, il grande gallerista che per primo aveva colto la portata di quanto stava maturando, si era trattato di uno scacco decisivo. In un celebre passaggio del suo “Der Weg zum Kubismus” pubblicato per la prima volta nel 1915, racconta di «settimane di lotta tormentosa». E poi: «Le opere che Picasso porta con sé sono incompiute, ma il grande passo è fatto. Egli penetra nella forma chiusa, creando un nuovo strumento per perseguire il nuovo scopo». Uno strumento, cioè un linguaggio nuovo, che è qualcosa di molto più radicale che non un semplice “stile”. Kahnweiler è ben consapevole che Picasso si è dato un limite che non vuole oltrepassare: «La perdita di leggibilità che vieterebbe il riconoscimento di un significato invece sempre presente ai suoi occhi» (Michel Draguet). Lo stesso gallerista ne sarebbe stato diretto testimone nei mesi successivi, nel corso delle estenuanti sedute, oltre 30, per il suo ritratto, oggi custodito all’Art Institute di Chicago: Picasso nel processo di rottura della «forma chiusa», si garantisce degli ancoraggi, come i tratti del volto, il nodo della cravatta, la catena dell’orologio da taschino, o le mani intrecciate. 

In mostra l’estate decisiva di Cadaquès è documentata dalla presenza delle quattro meravigliose acqueforti per il Saint Matorel con l’aggiunta di una delle matrici di rame e di un capolavoro come Le Guitariste, oggi conservato al Centre Pompidou: è un quadro in cui si avverte come Picasso si trovi proprio sul ciglio dell’evaporazione della forma e quindi l’opera risente del senso drammatico della prova a cui è sottoposta. La superficie pittorica infatti da vicino sembra essere deflagrata, da lontano invece si ricompone con una maestosità quasi abbacinante. «Questo nuovo linguaggio dona alla pittura un’inaudita libertà», scriveva sempre Kahnweiler a conclusione delle pagine dedicate all’estate di Cadaqués. È una pittura che continua a manifestarsi nei mesi successivi con una tempestosità di forme ansiose e spezzate, spianate su superfici quasi monocrome.

Verre, journal et dé, 1914

Dopo questa prova così ardua, anche perché priva di quello sbocco lirico in cui trovava respiro il suo compagno d’avventura Georges Braque, Picasso riprende il passo spavaldo di chi sente di tenere in pugno ciò che ha davanti agli occhi. Nel 1912 arrivano i primi papier collés: la realtà entra in campo direttamente come “cosa”. Il bellissimo Violon et feuille de musique dell’autunno di quell’anno ingloba anche uno spartito. Entrano in campo le lettere, a partire dalla “B” delle bottiglie di Bass, con il gonfiore delle sue linee curve: in un assemblage dell’autunno 1913, quelle curve vengono a definire, intagliate nel legno, il profilo di una chitarra. Qualche mese dopo Vladimir Tatlin era stato in visita a Picasso: tornato in Russia avrebbe realizzato i suoi controrilievi polimaterici che tanto sembrano debitori di quest’opera. Picasso paradossalmente si offre quindi come innesco per un’esperienza che sconfina nei terreni dell’astrazione. Quanto a lui resta avvinghiato alla realtà delle cose: come in un altro piccolo assemblage di legno, avvolto in un color cenere, Verre, journal, dé, realizzato ad Avignone nell’estate 1914: il dado diventa un quasi un proiettile spaziale, tale è l’energia che vi imprime. Il percorso della mostra, inoltrandosi nei decenni successivi, toglie ogni dubbio rispetto a questa posizione di Picasso. In modo particolare si fanno luce due opere insolite e sorprendentemente sperimentali: una Chitarra del 1926, ritagliata nella tela e assemblata con spago e chiodi, oggetto che la metamorfosi rende ancor più plastico e reale. E poi una sculturina realizzata a Boisgeloup nel 1934, che sembra davvero il divertissement di un genio bambino: è l’impronta realizzata in gesso di un giornale accartocciato. Un genio bambino vorace di realtà…

Empreinte de papier froissé, 1934

Written by gfrangi

Gennaio 8th, 2023 at 7:05 pm

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Massimo Minini e la vecchia zia della pittura

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«A me piace scrivere, quasi più che fare mostre». Paradossale che lo dica uno dei più importanti galleristi italiani, con oltre quaranta anni di successi alle spalle, presenza fissa al gotha di Art Basel, stimatissimo da tanti artisti star e inarrivabili. Massimo Minini è fatto così, è autorevole e corsaro nello stesso tempo. Per tutta la vita non si è certo negato la passione per la scrittura, che ha coltivato come esercizio complementare e necessario all’attività di gallerista.

Lo testimoniano le dimensioni del libro in cui ha voluto raccogliere, con un andamento creativo e imprevedibile, il meglio di quello che negli anni ha messo su carta. Il volume, edito da Silvana, non solo sfonda le 400 pagine, ma si presenta in formato atlante. Eppure dà un’impressione immediata di leggerezza, grazie anche all’impianto grafico firmato da Nicola Chemotti. Grande merito anche delle sovraccopertine che Minini ha chiesto a un artista amico della prima ora, presenza storica nella sua galleria, Daniel Buren. Si può scegliere il colore delle bande verticali, tra verde, rosa, arancio e azzurro, tutti di una tonalità affabile. La sovraccopertina è un’opera, con tanto di titolo, “Inchiostri per Massimo in 4 colori” e aprendosi a manifesto svela una delle verità di Minini: «Dire che siamo in un momento di grandi cambiamenti è un’ovvietà. Probabilmente anche una banalità. Siamo sempre stati, anzi siamo sempre in un momento di cambiamento. Quando mai la storia è stata ferma!».

Il libro è immune da banalità e ovvietà. Basta scorrere l’indice per rendersene conto. I materiali infatti sono raccolti in blocchi molto logici, ma i titoli e i sottotitoli dei singoli capitoli fanno schizzare l’attenzione e la curiosità del lettore, a iniziare dal primo, Autointervista. Dove l’autore finge domande cattive per darsi modo di rispondere. Tra le domande c’è quella rituale che riguarda la scelta di non lasciare mai Brescia, di restare come lui dice, «gallerista di provincia».  La risposta è ragionevole e non priva d’orgoglio: «Primo, perché Brescia è una città importante (è la terza potenza economica d’Italia, dopo Milano e Torino), e poi perché qui ho avuto buoni maestri (Cavellini, Politi)». Achille Cavellini è un mitico collezionista. Giancarlo Politi è invece il fondatore di Flash Art, la rivista presso cui Minini, avvocato mancato, ha fatto un attivissimo apprendistato al mondo dell’arte. La rottura con Politi è uno dei tormentoni che torna tante volte nel libro, con accento divertito ed epico nello stesso tempo: infatti, una volta licenziato, Minini aveva aperto subito una galleria, Banco. Era il 1973: Cavellini, pur perplesso, gli era stato di sostegno a fare quel passo. Sulla scena locale sono subito scintille e anche qualche goliardata. Quando Ennio Morlotti era arrivato a Brescia per una mostra in Pinacoteca, lui con Sarenco, «persona di grande e pericolosa intelligenza», si presentarono buttando volantini polemici: «Ricordo che Morlotti scosse la testa senza dire niente».

Chi pensa a un Minini oltranzista sulla sponda dell’antipittura si sbaglia di grosso. «La Pittura (proprio così, con la P maiuscola, ndr), una vecchia zia…è un’esigenza insopprimibile, un vizio assurdo: salta fuori quando meno te l’aspetti», scrive. Nel capitolo, a tratti quasi esilarante, che raccoglie i contenziosi e anche imprevisti sussulti di simpatia con Vittorio Sgarbi, però mette in chiaro alcune cose. Secondo lui troppe volte la pittura si costringe a una figurazione dolente, sangue e budella. In questo modo si preclude «la libertà di ricerca…». E conclude con una fiondata: «La figura vissuta come rivincita è un vecchio modo di porsi… è lingua morta».

Lingua viva, supremamente viva, per lui è quella di Giulio Paolini e di Salvo, i due artisti che hanno cambiato il suo modo di guardare. Al primo dedica tutto un capitolo, apodittico fin dal titolo Giulio Paolini. Lui. Spiega che “lui” gli ha insegnato «la bellezza, la pratica dell’understatement, il bisogno di rarefare, che ahimè, ho disatteso». Di “lui” stima tutto, a partire da quella sua attitudine a «sottrarsi non tanto all’arte, quanto alla nostra curiosità». Con “lui” in quaranta anni di amicizia si è stabilito un rapporto di “CON SONANZE”, scritto proprio a caratteri maiuscoli. Salvo invece è la proiezione dell’autodidatta colto, «dell’artista che torna all’ordine dopo il disordine». Aveva visto una sua opera, Benedizione, in una galleria di Brescia e altre da Sperone, tutte opere dal linguaggio fortemente alternativo. «Ma un giorno», racconta Minini, «vediamo apparire dei dipinti enormi: che fosse impazzito? Allora (siamo nel 1973), dipingere era proibito». Risultato: nel 1975 allestisce la prima mostra di Salvo in galleria.

C’è solo un artista che nelle pagine del libro ricorre con maggior frequenza rispetto a questi due prediletti ed è inaspettatamente un artista di un’epoca lontana: il Romanino. La ragione è elementare: Minini è nato a Pisogne, dove il padre aveva un’aziendina, e quindi ha sempre considerato Romanino alla stregua di un vicino di casa per via del meraviglioso ciclo di affreschi della Madonna della Neve, che così spesso si trovava a frequentare. Lo sguardo di Minini verso le creature sgraziate, vernacolari, trasgressive dell’artista bresciano è uno sguardo innamorato. È frutto di una dichiarata e smaccatissima simpatia, che però non gli impedisce di tracciare parallelismi con il contemporaneo: ecco allora che Romanino diventa il profeta della bad painting, lo sperimentatore eretico che spezza i ponti con il linguaggio dominante, che dipinge quasi in una sorta di «trance visiva», l’artista che come tanti grandi del Novecento, da Bacon a Fontana, «fa uno scarto laterale che spiazza il pubblico, offre qualcosa di inatteso che apre su altre direzioni».

È su Romanino inoltre che matura un’imprevista convergenza con Giovanni Testori, un critico che per quanto concerneva il contemporaneo stava radicalmente su un’altra sponda. Testorie e altre storie è il titolo, creativo come sempre, che ripropone gli atti di questa strana relazione. Se la brescianità e Romanino sono un punto saldissimo di contatto, gli articoli sul “Corriere della Sera” a ponte tra anni Settanta e Ottanta, rappresentano invece l’oggetto di un conflitto senza possibilità di composizione. Testori è da una parte «il Polifemo accecato d’ira contro le avanguardie», ma allo stesso tempo lo studioso che ha sdoganato il grande Romanino, rivendicando davanti alla grande critica, la modernità della sua bad painting, una pittura che opponeva alla lingua ufficiale la forza deflagrante di un dialetto figurativo. Minini per rendergli un omaggio si inventa l’idea di un “processo a Testori”, idea lanciata pubblicamente dalle colonne delle pagine bresciane del Corriere della Sera. La sfida viene raccolta nel luglio 2013: il processo si consuma a Novate, proprio in quella che era stata la casa dell’imputato. La lunga requisitoria è tutta all’insegna di «un’ammirata avversione» e di una non celata simpatia.

Per Minini scrivere è scopertamente un piacere. La carta bianca è il territorio sul quale può dar fuoco alle polveri della sua natura estroversa e fuori dagli schemi, come nel caso celebre dei suoi “pizzini”, testi brevi e ficcanti, ora approdati in una rubrica nelle pagine che mensilmente Il Foglio dedica all’arte. La scrittura non è però un punto di fuga dalla sua attività di gallerista, perché in tante occasioni avviene una convergenza. È il caso dei comunicati stampa, che scrive di suo pugno e ai quali ha dedicato un capitolo in ogni senso esemplare. Il presupposto è che i comunicati così come sono impostati quando piovono sui tavoli delle redazioni sono materia inerte, vengono saltato a piè pari. Minini elargisce alcune raccomandazioni, ma quando le mette in atto supera le sue stesse intenzioni. I comunicati stampa sono dei piccoli gioielli inattesi, tutti da leggere in particolare per i loro incipit. «Le opere d’arte non si possono spiegare a parole», scrive nella prima riga del comunicato per una mostra di Landon Metz. «Come dire? A Vanessa voglio un gran bene. Potrei anche terminare qui il comunicato», è il lancio di una mostra di Vanessa Beecroft nel 2017. Seguono belle parole e non scontate, che ribadiscono l’affetto per l’artista e il suo lavoro. Il finale non è da meno, quanto a schiettezza: «Scritto a Brescia, città dalle mille sorprese, come la Galleria Massimo Minini». Letto questo libro, c’è davvero da credergli.

Pubblicato su Domani, 27 marzo 2022

Written by gfrangi

Aprile 23rd, 2022 at 11:22 am

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Letizia e Battaglia, di nome di fatto

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Nell’ossimoro del suo nome c’è tutto il destino e tutto il fascino di Letizia Battaglia. Nella vita è stata una magnifica combattente, ma affamata di bellezza e di felicità. «Le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza. Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza», diceva di sé e del proprio lavoro. Letizia Battaglia se n’è andata a 87 anni, e il vuoto che lascia è un vuoto davvero grande, e non solo per il mondo della fotografia. Definirla fotografa infatti è paradossalmente riduttivo, perché la fotografia era per lei un mezzo, mai un fine.  

«È capitato che abbia fatto per molti anni la fotografa e che fare la fotografa mi piaccia tanto, ma sicuramente potrei rinunciare a farlo per andarmene davanti al mare e vivere senza più fare niente», aveva dichiarato nella magnifica monografia-confessione scritta da Giovanna Calvenzi e pubblicata nel 2010 per Bruno Mondadori. In realtà Battaglia è stata una grande fotografa, capace di fissare con le sue immagini una stagione drammatica e la vita di un’intera città. Aveva iniziato un po’ per caso, quando già aveva alle spalle un matrimonio che l’aveva delusa e tre figlie. Per questo aveva lasciato Palermo per Milano, alla ricerca di un modo per ricominciare. La macchina fotografica è stato lo strumento che l’aveva rimessa in movimento. Nel 1974 era tornata a Palermo, per avviare insieme a Franco Zecchin, l’agenzia Informazione fotografica, lavorando per l’Ora, quel piccolo quotidiano, coraggioso come lei, in prima linea nella lotta alla mafia. È per l’Ora che Battaglia ha documentato una stagione sanguinosa di Palermo. Tra le tante fotografie di quegli anni, una parla di lei più di tutte le altre: è quella scattata il 6 gennaio 1980, giorno dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Lei era per caso nei paraggi con Zecchin e la figlia. Corse dove c’era il capannello delle persone, si affacciò al finestrino dell’auto: davanti a lei Sergio, l’attuale presidente della Repubblica, reggeva il corpo del fratello ucciso. Scattò la foto in un secondo, “à la sauvette”, come insegnava Cartier Bresson, “in fretta e furia”. «In realtà non lo so cosa facevo. Facevo quello che dovevo fare», aveva confessato anni dopo in un’intervista rilasciata ad Angela Mainitiù per Il Manifesto. E poi in poche righe aveva stupendamente sintetizzato il suo modo “morale” di porsi in queste situazioni: «Che cos’è il supporto di un fotografo? È quello che lui sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato, meditato. In quel secondo converge tutto, il tuo amore, il tuo odio, la tua rabbia, il tuo rispetto».

Sono fotografie che Letizia Battaglia si è portata sempre dietro come delle ferite. Aveva anche ipotizzato di distruggerle, poi se le era appese in casa per cercare di metabolizzarle, infine le aveva rifotografate sovrapponendo immagini di donne e di vita. È una relazione con il proprio lavoro che evidenzia la sua libertà. «Sono persona, non fotografa», ripeteva. Come persona non le interessava la bellezza delle immagini, ma la bellezza della vita. Per questo non risparmiava frecciate a grandi autori secondo lei a rischio di estetismo, come Mapplethorpe o Salgado. Diane Airbus e soprattutto Koudelka erano invece i suoi riferimenti, o maestri “involontari”. Con il grande fotografo boemo aveva fatto tanti viaggi, sempre in camper, dalla Turchia fino al Nord Europa. Soprattutto Koudelka, come pure Ferdinando Scianna, era diventato una presenza famigliare all’Agenzia Informazione Fotografica, poi diventato Laboratorio IF, perché Battaglia e Zecchin ne avevano voluto fare una vera e propria scuola, un’esperienza che fosse didattica ma che spingesse ad andare sempre in prima linea. Con la stessa generosità e passione nel 2017 si era buttata nell’avventura del Centro internazionale della fotografia al Cantiere della Zisa a Palermo, un progetto tanto ambizioso quanto faticoso, un sogno come tanti suoi sogni marcati da ferite (“Sulle ferite dei suoi sogni” è non a caso il titolo del libro con Giovanna Calvenzi). Letizia Battaglia lascia un grande vuoto perché ci mancherà quel suo impeto d’amore verso la vita, che l’ha fatta essere pienamente donna, amica di tanti, attivista, mamma e persino bisnonna, come orgogliosamente sottolineava. E naturalmente l’ha fatta essere anche grande fotografa. A questo proposito, se interpellata rispetto a quel che sta accadendo nel mondo, avrebbe ribadito di non essere capace di fotografare la guerra, «perché per me è indispensabile l’amore».

Pubblicato su Il Manifesto, 14 aprile 2022

Written by gfrangi

Aprile 23rd, 2022 at 11:11 am

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Fabio Mauri, a occhi sbarrati davanti all’Apocalisse

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Fabio Mauri è un artista che amava sempre procedere sottotraccia. Negli anni 80 aveva lavorato attorno ad una serie di carte che ha lasciato “senza titolo” ma che palesemente rappresentano una riflessione a partire dall’Apocalisse. Sono carte a tecnica mista di straordinaria bellezza, quasi dei fogli segreti, nati da un sostrato sofisticato di pensiero. Usciti dai cassetti dello Studio Fabio Mauri, l’archivio che gestisce intelligentemente la sua eredità, hanno permesso la realizzazione di una mostra, che come spiega la curatrice Francesca Alfano Miglietti è la sua «prima grande mostra di disegni… opere che si lasciano spiare nel loro farsi» (Fabio Mauri. Opere dall’Apocalisse, Galleria Viasaterna, Milano, fino al 1 aprile).

I lavori di Mauri, per loro natura, sollecitano sempre domande: scaturiscono da percorsi di coscienza assolutamente personali, ma sfociano ogni volta su un orizzonte pubblico, come lui stesso aveva spiegato in un’intervista del 2007 a Stefano Chiodi, pubblicata su Doppiozero: «L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza, sono operazioni pubbliche ma fortemente individuali, quasi private. Diventano politiche nella lunga durata».

Anche nel caso di questa serie di disegni, le domande possono essere molteplici. Ad esempio, da dove è scaturita la necessità di questo confronto con il testo più enigmatico della Bibbia? Va precisato che si tratta di un confronto linguisticamente strutturato. Nei fogli gli echi delle parole di San Giovanni risuonano nella forma di spezzoni di oggetti, le trombe in particolare, ma soprattutto nella dimensione spaziale che evoca un dopo-storia, un mondo sul ciglio di una rivelazione finale. L’intensità della luce di questi disegni è un altro fattore che richiama l’intensità folgorante e senza appello delle parole del testo biblico. Mauri non agisce per suggestioni, ma accetta di farsi permeare da questa febbre visiva, senza mai smarrire il controllo del suo lavoro. Se il dettato di partenza può apparire enigmatico, il suo intento è sempre quello di approdare ad una esplicitezza, ad un’evidenza. «Procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce anziché di buio è il mio personale Not Afraid of the Dark», diceva di sé. Sono perciò disegni che deflagrano davanti ai nostri occhi con i loro colori e le loro forme; disegni visionari ma mai cifrati, segnati da una chiarezza di senso che non lascia mai nulla nell’indeterminatezza. 

Da dove dunque scaturisce la necessità di questo confronto con l’Apocalisse? Certamente il ciclo è parte della riflessione sulla storia, portata avanti in tutta la sua opera. È un’indagine sul destino e sul mondo («L’arte che si politicizza in realtà è l’arte che approfondisce la coscienza e la conoscenza del mondo», sosteneva). Il ciclo di carte ripropone anche l’importanza che la riflessione religiosa ha sempre avuto nella sua vita e nel suo lavoro, pur restando, come nel suo stile, sottotraccia; una riflessione tanto più profonda quanto meno veniva proclamata. Se ne può trovare l’origine nell’esperienza giovanile a Civitavecchia, nel Villaggio dei Ragazzi, dove con un sacerdote si era preso cura per otto anni di ragazzi rimasti orfani per la guerra, facendo l’istruttore. Con loro aveva mantenuto i contatti, come ha testimoniato il fratello Achille, chiamandoli sempre i suoi “fratellastri”. «Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?», gli aveva chiesto Chiodi nell’intervista del 2007. «La fede. Io ormai so che Dio c’è», era stata la sua risposta, dove è significativo il persistere del tempo verbale al presente. Era stato importante per lui anche il rapporto con padre Davide Turoldo, di cui aveva illustrato nel 1948 un libro di poesie, “Io non ho mani”. Personalmente ho il ricordo di un meraviglioso disegno con “Cristo in bicicletta”, verosimilmente di quello stesso periodo, visto alla retrospettiva milanese di Palazzo Reale del 2012. Erano gli anni in cui un altro grande amico di padre Davide, Giovanni Testori, concepiva il suo racconto d’esordio, “Il Dio di Roserio”, ancora un “dio” in bicicletta…

Risale invece agli anni ’80 “Dio in scena”, la performance-conferenza tenuta a Milano alla Galleria Marconi, nella quale Mauri aveva condensato, come sua abitudine, gesto, pensiero, scrittura e visione, non senza una punta di ironia. In quell’occasione il suo obiettivo era anche quello di capire se «a Dio piace l’arte moderna e se per caso gli era piaciuto quello che faccio io». La risposta “trovata” era aperta a più possibilità: «A Dio piaceva Picasso. Certe cose che ho fatto forse gli sono piaciute…». 

Si può stabilire anche un raccordo tra il ciclo dell’Apocalisse e una delle sequenze che più hanno segnato il suo percorso, le serie “End”, avviata nel 1966 e replicata fino alla sua morte. Mauri ha preso in prestito il linguaggio del cinema per catturare quel momento finale a cui aggrapparsi prima che lo schermo diventi nero. Come ha ricordato Ivan Barlafante, suo assistente e oggi tra i promotori dello Studio Fabio Mauri, l’ultima versione di questa lunga serie era stata realizzata nella casa dell’artista, poco prima che morisse. L’aveva voluta incisa nel cemento, tanto che per l’occasione era stato necessario proteggere dalla polvere i libri e gli arredi con teloni di plastica. Lo stesso Mauri aveva osservato il lavoro sbucando da un foro fatto in quei teloni… “The End” rappresenta un modo di mettersi come sempre su una linea di confine e forse di agganciare l’inesprimibile, l’altrove.

Il ciclo esposto a Milano fino ad ora era sempre rimasto nel cassetto. Eppure alcune delle carte erano state incorniciate da Mauri stesso, con una scelta calcolata circa le misure e il colore del passepartout. È difficile pensare che lui potesse realizzare opere destinate a restare confinate in un ambito privato: il rapporto con il mondo è un fattore costante e anche portante della sua riflessione artistica. Questo non toglie che, come sottolinea Francesca Alfano Miglietti nel testo scritto per la mostra, in Mauri «il disegno sembri fungere da metodo di ricerca e parallelamente da zona franca della visionarietà». C’è quindi una differenza tra l’artista delle installazioni e delle performance e quello delle opere su carta, ed è una differenza che ha una sua ragion d’essere, come evidenzia la curatrice: infatti «è proprio questa dualità, ancora una volta, ad evidenziare l’attitudine di Mauri a non irreggimentarsi in nulla di dogmatico e di definitivo».

Certamente oggi è difficile non mettere in relazione questa serie di disegni di Mauri con quanto sta accadendo nel mondo. Qualunque forma prenda, la sua arte finisce con l’incrociare la storia, con le sue tragiche costanti. Ogni lavoro funziona in particolare come presa di coscienza rispetto al demone dell’ideologia totalitaria, «quel modo in cui l’uomo pone attorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo». Anche se i disegni dell’Apocalisse rappresentano uno sporgersi sul dopo-storia, la scena resta sempre ingombra delle rovine della storia. A questo proposito, la mostra presenta anche un’altra serie di disegni folgoranti, quella degli “Scorticati”. Sono disegni, riferibili sempre agli anni ’80, realizzati con colori fluo. L’aspetto abbagliante va in contrasto con il soggetto, evidenziato dal titolo del ciclo: volti spettrali, che sembrano trafitti e quasi arsi da radiazioni. Mauri fa memoria delle immagini dei genocidi novecenteschi, ma come sempre il suo sguardo non si chiude sul passato e continua con piena evidenza a interpellare il presente. Come lui diceva, opere che «diventano politiche nella lunga durata».

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Aprile 23rd, 2022 at 11:06 am

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Paradiso Corsica. 1898, l’anno uno di Matisse

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Dal battello a vapore partito da Marsiglia e approdato ad Ajaccio la mattina del 5 febbraio 1898 erano state scaricate due casse piene di tele, di dimensioni piccole (18x22cm) e medie (36×48 cm). Facevano parte dei bagagli di Henri Matisse e di sua moglie Amélie Parayre. La coppia era in viaggio di nozze, ma quel carico evidentemente suggeriva anche altri programmi. Il viaggio era stato terribile per le condizioni del mare; il tempo all’arrivo pessimo, con pioggia, vento e grandine.

L’impressione di quelle prime ore venne presto cancellata dalle sensazioni dei giorni successivi. Il 28 febbraio Matisse scriveva all’amico Henri Salvetti, un amico còrso di stanza a Parigi, di sentirsi in «un paese meraviglioso dove voglio restare probabilmente molto tempo (non oso dirlo, 2 anni)». E poi spazio all’elenco delle meraviglie: «Mandorli in fiore in mezzo ad ulivi argentati e il mare blu, talmente blu che lo si mangerebbe.  Gli alberi di arancio verde scuro con i frutti che sono come gioielli incastonati, grandi eucalipti con le foglie variegate come piume di gallo… e alle spalle montagne con le cime innevate». Matisse è completamente infatuato da questo suo primo incontro con il Sud e il Mediterraneo. Si mette al lavoro con un’intensità mai sperimentata. «Da un quadro all’altro spuntano delle risposte inattese, differenti, alcune saranno riprese e approfondite, altre abbandonate». Non si è solamente lasciato alle spalle il buio del Nord. Ad Ajaccio Matisse, non ancora trentenne, sperimenta la libertà di non dover rispondere a nessuno, neanche a quel maestro pur molto tollerante che era stato Gustave Moreau all’École des Beaux-Arts. 

Matisse sarebbe rimasto in Corsica fino a luglio, con la breve parentesi di un viaggio a Parigi all’inizio di giugno. In quei mesi aveva dipinto oltre 50 tele, quelle che si era portato con sé alle quali se ne erano aggiunte alcune, più grandi, comperate in loco. Una parte molto rappresentativa di quella produzione nei mesi scorsi era confluita in una bella mostra organizzata ad Ajaccio (“Matisse en Corse. Un pays merveilleux”), curata tra gli altri da Jacques Poncin, architetto e presidente della locale Associazione amici di Matisse. Poncin nel 2017 aveva pubblicato un libro (“Matisse à Ajaccio”, Éditions Alain Piazzola), dove per la prima volta si metteva a fuoco l’importanza “fondativa” per l’artista di Cateau-Cambrésis di quei mesi trascorsi in Corsica. Della mostra resta un bel catalogo, con una serie di saggi che in modo compatto e corale approfondiscono i mesi trascorsi dall’artista nell’isola, e soprattutto con una galleria di riproduzioni di opere, di impressionante energia. 

Le parole con cui Matisse descrive questa sua folgorazione per la Corsica, la sua luce e i suoi colori, trovano un loro corrispettivo nell’accelerazione che la sua pittura registra in parallelo. È un vero big bang: Matisse rompe gli indugi, abbandona ogni timidezza e ogni riverenza verso i riferimenti autorevoli del presente o del passato. La distanza lo agevola, ma lui vive l’avventura còrsa con la consapevolezza di una verifica radicale rispetto alla propria vocazione di pittore. «Avevo deciso di darmi la scadenza di un anno, durante il quale volevo, senza ostacoli di mezzo, dipingere come io intendevo… è allora che ho sentito crescere in me la passione per il colore. Non lavoravo che per me. Ero salvo», avrebbe confidato nel 1925 all’amico Jacques Guenne. L’intensità dei colori della Corsica invade le piccole tele. La pittura si libera dai contorni e da ogni preoccupazione narrativa, si fa drasticamente semplice. I primi lavori sono ancora figurative, poi con il passare delle settimane, le preoccupazioni compositive si allentano. In una delle ultime opere, “Toit de l’Hôpital d’Ajaccio”, restano poche magnifiche campiture orizzontali, di un’essenzialità e di uno splendore che sembra preannunciare De Staël. Le soluzioni cromatiche hanno l’audacia proprio dello sguardo del neofita, che non conosce regole ma sgrana gli occhi davanti all’abbagliante apparizione del mondo. Gli ulivi lo conquistano con la loro forma bassa e compatta: ne “L’arbre”, piccolo olio su cartone dipinto d’impeto, la materia si fa splendente e aggressiva, mandando in dissolvenza le forme. È evidente come Matisse faccia barra, su Cézanne, «notre père a tous», unico riferimento fondamentale in questa fase. Sulla scia del maestro di Aix lavora per liberare e soprattutto organizzare sulla superficie della tela le sensazioni innescate nella relazione con la realtà. Parla «di un enorme lavoro di organizzazione». Come ha scritto Pierre Schneider nel suo importante libro su Matisse del 1984, non sono certo sensazioni calme: «Ad Ajaccio il suo pennello era approdato su toni senza precedenti, per poi arretrare come preoccupato di provocare un incendio impossibile da tenere sotto controllo… è l’incendio che segna il passaggio dalla luce al colore». Sempre secondo Schneider, Matisse concepisce il colore come una forza, non più usata per descrivere una forma o per imitare la natura, in quanto dotata di una sua autonomia ed energia espressiva: simbolo e sintesi di questa sua stagione è la scoperta dell’arancione.

Naturalmente l’eco di questo principio di incendio erano arrivati anche a Parigi. Gustave Moreau era morto il 18 aprile di quell’anno. Matisse aveva mantenuto un rapporto stretto con Henri Marquet e con Henri Evenepoel, suoi compagni d’accademia. È quest’ultimo a esternare tutto il suo sconcerto davanti alle opere dell’amico. Uno sconcerto straordinariamente rivelatore. Il 6 giugno gli scrive, commentando i quadri che aveva potuto vedere: «Mi hai anticipato dicendo che c’era qualcosa di epilettico. Ebbene sì! Trovo che sia così. Tu sei dotato di un occhio straordinario, ma per me stai mettendo in gioco la sua salute». Lo rimprovera perché trova la sua pittura esasperata, come di uno «che digrigna i denti». Al padre Evenepoel parla dell’amico come di un «impressionista epilettico e folle».

In realtà Matisse è non solo determinato ma molto lucido rispetto al passo che sta facendo. Sa di essere debitore all’impressionismo («Sono partito da lì») ma coglie la debolezza di quella pittura. «Sono opere che brulicano di sensazioni contradditorie. La loro è una trepidazione». Anni dopo, facendo un bilancio di questa sua stagione in Corsica nei dialoghi con Jacques Guenne, spiegava di essere arrivato «lentamente a scoprire il segreto della mia arte. Consiste in una meditazione a partire dalla natura, nell’espressione di un sogno sempre ispirato alla realtà. Con più accanimento e regolarità, ho imparato a spingere ogni studio in una direzione certa».  

Written by gfrangi

Aprile 23rd, 2022 at 10:48 am

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Un tour nel Grand Tour

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Vi siete mai chiesti perché in ogni città italiana nell’offerta alberghiera compaia sempre un hotel Bristol? Quali titoli ha questa cittadina del sud est dell’Inghilterra per meritarsi una simile nomea? Il merito in realtà è tutto di un suo cittadino, Frederick Augustus Hervey, IV duca di Bristol oltre che vescovo anglicano di Derry. Era un viaggiatore instancabile, uomo curioso, colto, un insaziabile collezionista, protagonista tipo di quel fenomeno che oggi è conosciuto come Grand Tour, cioè quella «comunità di tourists che nel secolo dei Lumi ha rappresentato la più numerosa e libera accademia itinerante che la civiltà occidentale abbia mai conosciuto», per dirla con le parole di uno dei massimi conoscitori di questa epopea culturale, Cesare De Seta.

Giovan Battista Piranesi, Rython

Il Grand Tour è stato uno straordinario percorso di formazione che ha visto l’Italia, le sue ricchezze artistiche, il suo paesaggio ma anche la sua antropologia, come materia di studio per aristocratici, per artisti, scrittori, musicisti, scienziati. Durante quel lungo periodo di pace che va dal Trattato di Aquisgrana (1748) fino alla prima campagna napoleonica in Italia (1796) migliaia di personaggi di primo piano arrivarono nel nostro paese, concependo il viaggio come una straordinaria occasione di arricchimento personale ma anche come un titolo indispensabile per una progressione nella propria carriera. Si veniva in Italia per imparare, per ampliare i propri orizzonti, per plasmare il gusto, per tessere relazioni intellettuali e non solo. Quando si tornava al proprio paese, si riportava un bottino di conoscenze, di “souvenir” in forma di quadri o di stampe, ai quali spesso si aggiungevano reperti da collezionismo: un materiale affascinante e vasto che ora è al centro della mostra alle Gallerie d’Italia, curata da Fernando Mazzocca con Stefano Grandesso e Francesco Leone. Come ricorda Mazzocca nell’introduzione al catalogo, al Grand Tour era stata dedicata una grande mostra, con ben 265 opere, alla Tate Gallery di Londra nel 1996, poi esportata al Palazzo delle Esposizioni di Roma. In questa occasione si è voluto piuttosto spostare l’attenzione dai viaggiatori «agli artisti e a quei protagonisti che, come Winckelmann, Goethe, Madame de Staël, hanno dato corpo con le loro creazioni al grande sogno dell’Italia, consegnando la sua visione all’immaginario collettivo». 

La mostra racconta l’altra faccia del Grand Tour: quella delle fucine, dei circoli, dei personaggi, artisti soprattutto, che con la loro intraprendenza, perizia e autorevolezza diventavano punti di riferimento indispensabili per i viaggiatori.  Johann Joachim Winckelmann è certamente uno di questi. Tedesco, era arrivato a Roma nel 1755 al seguito del cardinal Archinto, nunzio in Polonia. I suoi studi in archeologia lo avevano portato a entrare in contatto con un altro cardinale, Alessandro Albani, la cui villa, fuori Porta Salaria, era un vero “museo parlante”, per la ricchezza di sculture antiche: Winckelmann divenne il bibliotecario di casa Albani. Nel 1764 aveva pubblicato la sua Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia dell’arte nell’antichità): un testo nel quale convergevano tutte le nuove conoscenze di carattere filologico, ma insieme si imponeva un nuovo approccio per «guardare i capolavori antichi secondo una concezione estetica che coinvolge la morale e il sentimento». Insomma si era imposto come un autentico influencer in grado non solo di orientare nella conoscenza dell’arte antica ma soprattutto di plasmare il gusto di quegli ambiziosi turisti. 

Per rispondere alla domanda che veniva dai viaggiatori del Grand Tour, tanti artisti si mostrano molto abili nell’innovare la loro offerta, con soluzioni anche altamente sofisticate. È il caso di Giovanni Battista Piranesi, un veneziano emigrato a Roma, che era ricercatissimo per le sue straordinarie acqueforti con le vedute della città eterna. Erano immagini che destabilizzavano l’equilibrio del vedutismo settecentesco innescando una percezione drammatica e suggestiva dell’antichità classica. Goethe stesso sembra restarne influenzato come testimoniano le pagine con il suo addio a Roma: «Dopo aver disceso, forse per l’ultima volta, la lunga via del corso, salii al Campidoglio, che si ergeva come un palazzo fatato nel deserto. La statua di Marco Aurelio mi fece pensare al Commendatore del Don Giovanni…». Ma Piranesi in mostra è presente con un altro tipo di lavori, decisamente sorprendenti. Sono le sculture frutto di libere ricombinazioni di frammenti antichi con elementi moderni. Geniali pastiche, reinvenzioni fantastiche sul corpo di quegli spezzoni di antichità. Per realizzare questi suoi ibridi, raccontava un testimone oculare, Piranesi aveva fatto una raccolta così grande di marmi, «che oltre avere riempito tutta la sua casa ha preso moltissime botteghe nella sua strada che sono anche piene, e per tutto si lavora e tiene da trenta persone il giorno a lavorare li suoi marmi».  Insomma una vera factory nel cuore di Roma. Nello suo studio di Palazzo Tomati si mettevano in fila in particolare i viaggiatori inglesi, che stipavano le navi sulla via del ritorno di oggetti da collezionismo, come l’incredibile Rython, esposto per la prima volta in questa occasione, con becco a testa di cinghiale, un vaso dalla simbologia fallica della virilità maschile che Piranesi aveva costruito attorno ad un reperto archeologico che costituisce la parte più alta del manufatto.

Giovanni Paolo Panini è un altro mattatore del Grand Tour, ricercatissimo dai viaggiatori che volevano riportarsi a casa quelle sue grandi vedute capaci di tenere insieme il fascino della Roma antica e delle sue rovine con la Roma grandiosa reinventata da Bernini. Panini era piacentino ed era arrivato nella città pontificia nel 1711. Scrive Mazzocca nell’introduzione che il suo segreto consisteva nel saper «ambientare in questi luoghi, come se fossero il palcoscenico di un teatro all’aperto». Un palcoscenico sul quale vediamo affacciarsi a volte anche gli stessi protagonisti del Grand Tour, come nel caso delle due grandi tele in mostra, che documentano le giornate romane di Carlo di Borbone, nel 1744: prima la visita alla Basilica di San Pietro con arrivo a cavallo e grande assembramento di gentiluomini e di curiosi, poi il ricevimento da papa Benedetto XIV Lambertini nella coffee house del Palazzo del Quirinale. Sul mercato del Grand Tour Panini aveva sbancato in particolare con l’invenzione dei suoi capricci, vedute non reali ma ideate delle quali era diventato maestro indiscusso. Come spiega Ilaria Sgarbozza nella scheda in catalogo della grande “Veduta” in mostra, «pescando da un repertorio pressoché inesauribile, con straordinaria facilità di rimodulazione, Panini inventa ogni volta una nuova immagine dell’Urbe». In questo caso l’artista aggiunge eccezionalmente ai monumenti aggregati nel paesaggio, delle didascalie, trasformando il quadro in una sorta di baedecker, ad uso di chi avrebbe ammirato il quadro nella country house di quel facoltoso viaggiatore, di cui si è perso il nome, che l’aveva commissionato.

Se uno dei grand tourists voleva portarsi a casa una istantanea molto speciale a sigillo del viaggio, poteva rivolgersi a Pompeo Batoni. Entrare nella sala centrale della mostra è come sfogliare un principesco album di questi signori in gran parte inglesi, immersi nelle meraviglie da cui erano stati conquistati. Sono ritratti e sono insieme degli status symbol, dall’impianto necessariamente classicistico che però, grazie all’abilità di Batoni, si sposa con la freschezza di un inedito naturalismo. Almeno 200 viaggiatori si avvalsero del servizio garantito da Batoni, abile nel venire incontro a tutte le possibilità economiche dei suoi committenti: dal ritratto a mezza figura si passava a quello a figura intera e a grandezza naturale, all’aperto oppure all’ombra di architetture sontuose. Per agganciare i suoi committenti Batoni si era fatto anche promotore di serate musicali in casa sua, con il coro delle otto figlie, tutte nubili…

Si può davvero dire che nell’Italia del Grand Tour, e non solo a Roma, si affermi la figura dell’artista imprenditore di se stesso, senza nessuna chiusura a chi arrivava da fuori. Ci si concepiva a 360 gradi, intercettando il gusto e i desiderata del mercato, superando quindi anche il meccanismo della committenza. Il caso del pittore francese Pierre-Jacques Volaire è emblematico. Arrivato in Italia nel 1764, si era trasferito definitivamente a Napoli nel 1769, sull’onda dei tanti viaggiatori attratti dalla città e in particolare dal Vesuvio. In quegli anni il vulcano era in attività, con una media di un’eruzione di ogni due anni, ed esercitava quindi un’attrazione fatale per chiunque arrivasse in Italia. Volaire si era specializzato in quadri che rappresentavano il Vesuvio in attività, in particolare con il valore aggiunto degli effetti suggestivi del chiaro di luna. Il suo studio era diventato meta obbligata: si poteva scegliere tra le tele già dipinte, o anche commissionarne una ex novo. Oppure l’artista offriva l’opzione di inserire le figurine in una tela già dipinta, in modo che il viaggiatore potesse riconoscersi. I quadri erano concepiti insomma come delle macchine pittoriche, pronte a venire incontro a tutte le esigenze dei clienti. In mostra è esposta la tela più grande che Volaire avesse dipinto, con l’eruzione vista dall’Atrio del Cavallo, la zona in cui si recavano i viaggiatori che intendevano salire a piedi sul vulcano per osservare un’eruzione da vicino. Un luogo che Volaire conosceva bene in quanto si prestava anche a far da cicerone ai suoi clienti, guidandoli sul vulcano. Le informazioni in materia non gli mancavano grazie alla presenza a Napoli di un padre della moderna vulcanologia, sir William Hamilton, ambasciatore inglese pere la corte di Napoli, altra figura chiave del Grand Tour, animatore di un affollatissimo salotto culturale e grande collezionista di vasi antichi.

Qualche viaggiatore lamentava il parassitismo in cui venivano abbandonate le rovine di Roma, perché nel Colosseo c’erano i letamai e le Terme di Caracalla erano state adattate a fienili. Eppure l’Italia si presentava come un paese con aspetti di modernità, grazie ad esempio ai primi musei aperti al pubblico, con le loro straordinarie collezioni di antichità: la fondazione dei Musei Capitolini risale al 1734, nel 1771 in Vaticano era stata la volta del Museo Pio Clementino. L’Italia conquistava i grand tourists anche grazie alla sua gente. Una delle sale più sorprendenti della mostra è proprio quella dedicata alla rappresentazione del popolo romano. Bartolomeo Pinelli è l’artista che era riuscito a diffondere presso l’intero pubblico europeo e poi americano questo nuovo mito con le sue incisioni. Ma furono in particolare alcuni pittori francesi (tra i quali anche il grande Théodore Géricault) a restare conquistati dal fascino di un’identità antropologica, che univa bellezza ideale e spontaneità umana. «Si assiste a una rivoluzione nella pittura di genere», scrive Mazzocca nell’introduzione, «dove gli umili sono ora rappresentati con la dignità e la fierezza che colpivano i viaggiatori». Sono le caratteristiche grazie alle quali una semplice ragazza, figlia di un vignaiuolo di Albano, Vittoria Caldoni conquistò l’attenzione di ben 50 artisti di ogni nazionalità e corrente artistica, che si cimentarono nel farne un ritratto: in mostra è esposto un busto della ragazza realizzato da Pietro Tenerani. La freddezza del marmo e lo schema un po’ ieratico si piegano ad accogliere alla pienezza fisica delle guance, del mento e in particolare delle bellissime labbra di Vittoria. 

Il caso di Vittoria Caldoni con tutti i suoi risvolti è la sintesi di una stagione felice nella quale l’Itala era stata attrattiva per la bellezza del suo passato ma anche per la vitalità del suo presente. Alla fine del percorso viene da chiedersi se lo spirito del Grand Tour si sia davvero estinto o non sia rimasto nell’aria, al di là dei tanti hotel Bristol disseminati nelle nostre città. E se, ad esempio, quello spirito non sia da rintracciare nelle parabole di protagonisti del 900 come Balthus, Cy Twombly o lo stesso Picasso, con quel decisivo e liberatorio viaggio del 1917. In quegli stessi anni Henri Matisse usava in modo esclusivo una modella ciociara, Loreta Aprutino, da lui ribattezzata Laurette, i cui tratti sono ben riconoscibili in una cinquantina di opere del maestro francese. Loreta come Vittoria: se una mostra riesce ad innescare ipotesi che vanno al di là del suo perimetro, vuole dire che davvero funziona. 

Una nota finale: un elogio a curatori e editori (Galleria d’Italia-Skira) per il catalogo dotato di schede delle opere molto complete, come purtroppo oggi raramente accade. Sono strumenti preziosi per ricostruire la storia delle opere e seguire il Grand Tour nella concretezza di mille dettagli.

Pubblicato su Domani, domenica 12 gennaio 2020

Josef Settegast, Vittoria Caldoni

Written by gfrangi

Febbraio 28th, 2022 at 7:23 pm

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Giacometti e il “portait sans fin”

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«Giacometti iniziò a disegnare il mio volto con la matita su un foglio di giornale. Mi guardava in maniera talmente profonda che sembrava mi penetrasse, ma era una sensazione diversa da quella che si prova quando si viene fissati, era come se mi accarezzasse con gli occhi». In realtà più che di una carezza si era trattato di un vero colpo d’artigli. «Voglio fare il tuo ritratto», disse subito dopo Giacometti a Isaku Yanaihara, filosofo e poeta giapponese in missione a Parigi con una borsa di studio per approfondire la conoscenza dell’esistenzialismo. Erano seduti al tavolino di uno di bar di Montparnasse.

Giacometti e Isaku Yanaihara

Yanaihara era agli sgoccioli della sua permanenza in Europa: aveva un biglietto aereo per il ritorno di lì a pochi giorni, il 10 ottobre 1956. Non poteva immaginare quello che invece lo aspettava: oltre due mesi di sedute, con la conseguenza di continui rinvii della partenza per accondiscendere a Giacometti e a quella sua ansia estenuante.  Perché proprio Isaku Yanaihara? Perché far da modelli all’artista svizzero bisognava avere doti speciali di ascetismo zen e di pazienza. Per anni aveva “macinato” con pose infinite prima la madre Annetta, poi il fratello Diego e la moglie Annette. Ora gli era capitato a tiro questo giapponese dai lineamenti assiri, che sembrava non avere un muscolo nel volto; così aveva messo in atto tutte le armi per non farselo scappare. «Per me il tuo naso è già una piramide. Il tuo volto è già una sfinge», gli aveva confidato durante una delle tante lunghissime pose. Yanaihara riuscì a partire solo due mesi e mezzo dopo, ma con la promessa di ritornare appena possibile. Tornò infatti nelle estati successive, fino al 1961: alla fine sono state conteggiate circa 200 giornate di posa, che hanno fruttato 21 quadri e due sculture. Yanaihara  finite le sedute, aveva preso l’abitudine di stendere un diario su cui annotare in particolare le cose che Giacometti diceva: frasi che sono il sismografo di un autore sommamente inquieto, sempre inappagato dal proprio lavoro, che tante volte veniva distrutto a fine giornata per la disperazione del povero modello. Questo diario, sistemato in una narrazione che a volte procede sin troppo libera, è diventato un libro uscito in Giappone nel 1969 e oggi opportunamente pubblicato in Italia da Giometti & Antonelli, con la traduzione di Isabella Dionisio (220 pagine, 26 euro).

Nei suoi aspetti più collaterali il libro è uno spaccato concreto della quotidianità di un artista che lavorava e viveva con la moglie Annette nello spazio angusto del leggendario studio di Rue Hippolyte-Maindron, una via così secondaria, da esser spesso fuori dai radar dei taxisti parigini. Non c’era acqua corrente e non c’era cucina, per cui la coppia non mangiava mai a casa. La lampadina che pendeva dal soffitto faceva una luce flebile così quando le pose si prolungavano nella notte, il ricordo di Yanaihara è quello di Giacometti che lavorava nel semibuio, mentre dalla stanza affianco arrivano le note dei dischi che Annette amava ascoltare aspettando che la seduta finisse. A volte capitava che fosse Annette a fargli notare che stava lavorando quasi completamente al buio. E in quei casi poteva ricevere risposte sibilline come queste: «Yanaihara lo vedo benissimo, quello che non vedo è il modo in cui riuscire a rappresentarlo. Eppure lo vedo così bene». 

Non era semplice posare per Giacometti anche per un personaggio di calma glaciale come il filosofo giapponese. Il senso del fallimento incombeva su ogni istante. A volte erano vere esplosioni di rabbia contro se stesso, perché troppo lontano dal risultato atteso. «Dipingere un quadro è un po’ come partecipare a una guerra. Esattamente la stessa cosa, io stesso ne ho paura», diceva. Non c’è guerra se non c’è il nemico, e il nemico era il volto di Yanaihara. Sosteneva che quel volto lo terrorizzava, tanto da provare paura ad avvicinarlo: «La punta del naso è come una lama di un rasoio, fa paura. Non ho il coraggio di toccarla». «Oh, Yanaihara, profeta della mia disperazione e della mia miseria», si legge sulla pagina di diario del 15 ottobre.

Tante volte il discorso di Giacometti cade su Cézanne, con il precedente delle 120 sedute per il ritratto di Vollard. Sull’inserto letterario del “Figaro” era stato pubblicato un brano del diario inedito di Maurice Denis, dove era riportato anche un dialogo con il vecchio maestro post impressionista. «Le sensazioni sono importanti quanto le teorie. Ho tentato in tutti i modi di rappresentare la natura, ma alla fine no ci sono riuscito», erano le parole di Cézanne, che come un punteruolo producevano pensieri ossessivi nella testa di Giacometti. «Bisogna trovare un sistema di regole da seguire per rappresentare la realtà in maniera corretta. Qualcosa del genere deve per forza esistere. Gli egizi, per esempio, ci erano arrivati. Cézanne lo ha cercato per tutta la via. I pittori contemporanei ormai non lo cercano neanche più». 

Nelle pause delle lunghe sedute di posa Giacometti si infilava in qualche bar o ristorante. Un giorno sedendosi al tavolino di “Aux Tamaris”. «un locale senza pretese», si era trovato davanti uno specchio ancora segnato dai fori degli scontri a fuoco tra nazisti e rappresentanti della Resistenza. È un’immagine che gli fa ricordare Francis Gruber un pittore, a cui era molto legato e di cui aveva grande stima, che aveva preso parte a quei combattimenti. «Guardando le spaccature dello specchio Giacometti parlò con grande commozione del lavoro e della vita di Gruber», scrive Yanaihara. Non riferisce cosa disse, ma basta questa semplice notazione di passaggio per evocare la sensazione di concordanze profonde.

Ogni tanto nello studio arrivava Jean Genet, l’unico che poteva permettersi di interrompere il lavoro di Giacometti. «Un vero mostro di seduzione», annota Yanaihara. «Si metteva di fianco a me, che non gli davo neanche la mano per evitare di muovermi e mi fissava dicendo: “Quanto zelo!”». Nel suo meraviglioso libro “L’atelier di Giacometti”, Genet riporta le sue impressioni su quelle visite: «Durante tutto il tempo in cui lottò con il viso di quel giapponese davanti a me vedevo lo spettacolo di un uomo che non commetteva nessun errore, ma che stava perdendo se stesso».

All’ansia di non riuscire ad agguantare il ritratto si aggiungeva anche quella di non poter disporre del modello a tempo indeterminato: Giacometti aveva sempre davanti la scadenza del nuovo biglietto aereo di Yanaihara che si avvicinava. Pur di trattenere l’amico giapponese e di convincerlo a nuovi rinvii, non esitò a favorire una sua relazione con la stessa Annette. Era stata la stessa Annette a prendere spavaldamente l’iniziativa facendosi invitare da Yanaihara nel suo albergo. «In breve si tolse di dosso tutti i vestiti che aveva e venne sul mio letto», racconta. Il giorno dopo, tornando a posare, il giapponese era preoccupato delle reazioni che l’artista avrebbe potuto avere. Ma Giacometti, che evidentemente sapeva tutto, sgombrò subito il campo: «La gelosia è ciò che odio di più e in me non ce n’è neanche un briciolo. Amare Annette significa rispettare la sua libertà, non sei d’accordo? Annette è sempre stata una donna molto libera ed è per questo che la amo». In sostanza l’artista aveva architettato un gioco a tre, con lui in posizione del tutto platonica ma certo di poter contare su quel modello, che sentiva lo avrebbe portato vicino ai volti agognati della ritrattistica di El Fayum. «Quello che c’è tra noi tre trascende la comprensione del mondo», concludeva Giacometti con un’enfasi un po’ sospetta… Con più sincerità in un’altra occasione aveva confessato il suo vero sentimento: «Come sarebbe bello poter dipingere il tuo volto come sto facendo ora, ma per tutta la vita, senza mai smettere». Il sogno di “un portrait sans fin”…

Pubblicato su Alias, il 20 febbraio 2020

Giacometto, Annette, e Isaku Yanaihara a Stampa

Written by gfrangi

Febbraio 28th, 2022 at 7:05 pm

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