Giornata londinese in gruppo, per vedere in sequenza Rauschenberg, Michelangelo&Sebastiano e Hockney. Cominciamo da Rauschenberg che è alla Tate Modern, sino al 2 aprile, poi si trasferisce al Moma. La mostra è un utilissimo ripasso di uno dei personaggi chiave dell’arte del secondo 900. Personaggio generoso, che non sta mai sui risultati raggiunti perché sempre in cerca di sguardi ed esperienze nuove. Le sale più belle sono le prime, dedicate agli esordi. C’è una dimensione di esplorazione in tutte le direzioni, senza riserve è aperto ad ogni esito. Rauschenberg osa ma non per provocare. Osa anche con una certa ingenuità, come uno che voglia verificare sempre prima di chiudersi una strada. Automobile tire print del 1953 (nell’immagine sopra un dettaglio), è l’impronta della Ford di Rauschenberg guidata da John Cage: ruota anteriore che ha lasciato una sinopia, quella posteriore che invece è passata nella vernice nera ha lasciato il segno profondo. L’opera è esito di un processo meccanico anche se il copione è ben studiato. È immagine lunga e sottile che racconta tante cose: di un’amicizia, di una densità di sentimenti, di un’affinità di strade. Di fronte il “glossy black”, quadro immerso nel nero, così grande e così grumoso da sembrare uno spezzone di superficie lunare strappata alla notte. E poi l’opera a quattro mani con la sua Susan Weil, Double Rauschenberg (Monoprint exposed blueprint paper): figure speculari verticali che navigano nel blu. E poi le Scatole personali, titolo in italiano, piccoli reliquiari con frammenti di memorie concepite con l’amico Cy Twombly. E poi il De Kooning erased, disegno cancellato di cui si salva un’ombra (un’anima) con la complicità dello stesso De Kooning. E poi le prime sculture poveriste: un sasso incatenato ad uno spezzone di vecchia trave. E poi il White painting, di un bianco artificiale, quadri senza mano d’uomo, che aprono già al minimalismo. Tutto questo (e altro ancora) in una sola sala. Tutto questo in due soli anni, tra 1951 e 1953. Diciamo che Rauschenberg è artista senza riserve e senza preclusioni. È questo è il suo fascino. Esplora e arriva prima, anche se poi non sarà “il primo”.
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Fare esperienza di Beuys, a Zurigo
Una due giorni a Zurigo, per anniversario nozze. L’occasione per tornare nel Kunstmuseum nella nuova sistemazione, per vedere le vetrate di Sigmar Polke al GrossMünster e per mettersi sulle tracce di Morandi al Reinhard di Winterthur (uno delle sue sole mete fuori di Italia).
Al Kunstmuseum la folgorazione è in tre sale del contemporaneo. Prima quella di Cy Twombly con il ciclo del Viaggio di Goethe in Italia. Bellissimo e c’è tutto il felice frastuono che l’Italia può riversare in un’anima tedesca. Una tela, meravigliosa, nuda e bianchissima per un terzo, sotto ha una cascata di pittura color verde e terra. Sembra di vedere l’irruzione di un modo di vedere il mondo. Nella seconda sala enorme c’è il trionfo di Georg Baselitz, con 20 tavole allineate, dipinte e poi grattate con un lucida furia. Sembrano matrici di grandi xilografie che si siano ribellate alla loro funzione di supporto. Di fronte c’è un grande Kiefer: vi assicuro che il confronto lo spegne e lo sospinge lontano. Sembra figlio di un’altra epoca, riaffiorato solo ora. Tanto Baselitz fa breccia, tanto Kiefer affonda nel suo mondo immaginario. E molto letterario. (A destra due grandi Polke, magnifici, enigmatici, eleganti, sofisticati e pop allo stesso tempo).
La terza sala è indimenticabile ancora e più delle altre: è quella in cui sono state sistemate le Oliverstone di Beuys. Sono cinque vasche di pietra del 700 in cui veniva messo l’olio a decantare nelle tenute dell famigila di Lucrezia De Domizio Durini, a Bolognano, in Abruzzo. Beuys fece fare con la stessa pietra, l’arenaria di Lettomanoppello, delle lastre che fungono da tappi. Per cui le cinque vasche diventano come cinque sepolcri. E l’olio è questo tramite tra la morte e la vita: le lastre infatti sono periodicamente unte, con piccole pozze che si formano nelle irregolarità della pietra. La gente ci mette il dito e poi lo pulisce sul muro verso l’uscita, che racconta involontariamente il nostro passaggio. Ma nell’allestimento il colpo d’ala è il quadro quattrocentesco, tedesco, con la Sepoltura di Cristo. È un raccordo semplice e potente, che rende emotivamente indimenticabile quella sala. Aveva detto Beuys: «Io credo che si capisca bene che l’arte deve passare per il sensibile. Si tratta di qualcosa che è diverso dal risultato di un processo di conoscenza. E pertanto io penso che si ha a che fare con un processo di conoscenza quando si prende coscienza di questo». L’arte come punto di incrocio su esperienza sensibile, conoscenza e coscienza: questo avviene in quella sala. Qui vedete un breve filmato che vi porta nella sala VideoSalaBeuys
Freud addio
Dopo Twombly se ne va un altro grande, ancor più longevo (88 anni). Sul Corriere della Sera, due pagine per lui: era evidentemente una star. Stefano Bucci nel commiato scrive una cosa che è il maggior artista britannico del 900. Affermazione che contiene una verità e una mezza bestemmia: il più grande senza ombra di paragone è stato Bacon. Freud invece giustamente viene trattenuto nei recinti del 900. È a tutti gli effetti un artista del secolo scorso. La sua grandezza è nella tracotanza della pittura, in quella bulimia che ingolfava le sue tele di forme, di carne e di colori. Che portava quasi alla nausea, ma nello stesso tempo ti lasciava estasiato come di fronte ad un Frans Hals. Il suo limite (rispetto alla grandezza assoluta di Bacon) è di aver chiuso il figurativo in una gabbia. Gigantesca, ma pur sempre gabbia. Nella quale giostrava da vero sovrano, prendendosi gioco anche della regina Elisabetta e della sua peluria (un quadro da appendere nel cesso, lo ha definito qualcuno: è un titolo di merito). Lo considero un grande artista a senso unico. Per questo figlio davvero di un altro tempo. Ecco perché tra lui e Twombly, per questo, io dico Twombly.
Il carciofo di Cy Twombly
È un anedotto raccontato da Giosetta Fioroni sulle pagine di Alias. «Cy affittò un appartamento con vista sul Colosseo, ma con una particolarità: tutte le finestre erano buchi vuoti senza infissi né interni né esterni. Uscimmo per alcune spese al mercato e Cy comperò un mazzo di carciofi romaneschi, grandi, gonfi e tondi. Arrivati nell’appartamento preparò in un secchio un composto di gesso nel quale immerse i carciofi uno ad uno ponendoli poi sul davanzale a mo’ di sculture. L’effetto era magnifico! Il suo talento si spandeva in mezzo a noi».
Un altro risvolto su Twombly, dall’introduzione di Tacita Dean alla mostra di Roma: «Avevo appreso da Roland Barthes che Twombly era stato crittografo dell’Esercito e si era abituato a disegnare di notte, senza poter vedere il foglio: tracciando disegni su disegni nell’oscurità» (l’aneddoto mi richiama una scena del magnifico domunentario di Kusturica su Maradona: era diventato quel che era giocando di notte, nella più assoluta oscurità, nei campetti di Buenos Aires. Aveva imparato a vedere la porta senza poterla vedere…)
Twombly, Barthes e l’ésprit de délicatesse
È morto Cy Twombly. Ricordo che la prima volta che ebbi la sensazione della sua eccezionalità fu all’Hamburger Banhof di Berlino. Ero con un gruppo di figli miei e di figli di amici. E notai che quel manipolo di occhi istintivi si era bloccato davanti ad una serie di grandi tele di Cy Twombly con le sue scritture fluide. La spiegazione di quell’affinità imprevista, l’ho poi trovata in alcune pagine che Roland Barthes dedicò a CT. Vi propongo un paio di sue intuizioni (nell’immagine sopra: Twombly, Wilder-shores-of-love, 1985).
La moralità di CT
«Ci sono delle pitture eccitate, possessive, dogmatiche: impongono il prodotto, gli conferiscono la tirannia di un concetto o la violenza della bramosia. L’arte di Cy Twombly – è la sua moralità – e anche la sua estrema singolarità storica – non vuole afferrare niente; si trattiene, galleggia, si muove tra il desiderio – che sottilmente anima la mano – e la cortesia, che gli dà il congedo; se bisogna trovare a quest’arte qualche referenza, si potrebbe andare a cercarla lontano, fuori dalla pittura, fuori dall’Occidente, fuori dai secoli storici, ai confini stessi del senso, e dire con Tao Tö King: «Produce senza appropriarsene, agisce senza aspettare; comiuta la sua opera, non vi si attacca, e poiché non le si attacca, la sua opera resterà».
L’artista “gauche”
«Si dice: Twombly, è in quanto disegno, tracciato con la mano sinistra. La lingua francese è lingua destrorsa: chi cammina vacillando, chi gira alla larga, chi è maldestro e imbrazzato, viene definito “gauche”. E di questa “gauche”, denotazione morale, giudizio, condanna ne ha fatto una definizione fisica… producendo una scrittura “gauche”, Twombly disturba la morale del corpo: morale tanto più arcaica, quanto più assimila l’anomalia a una deficienza, e la deficienza a un errore. Che i suoi grafismi, le sue composizioni siano “gauches”, questo rinvia Twombly al cerchio degli esclusi, dei marginali – dove si ritrova, ben inteso, con i bambini e gli infermi: chi è “gauche” è una sorta di cieco: non vede bene la direzione, la portata dei suoi gesti; solo la sua mano lo guida, il desiderio della sua mano, la sua attitudine strumentale; l’occhio è la ragione, l’evidenza, l’empirismo, la verosimigianza, tutto quello che serve a controllare, a coordinare, a imitare, e come arte esclusiva della visione, tanta nostra pittura del passato si è trovata assogettata a una razionalità repressiva. In un certo senso, Twombly libera la pittura della visione; perché il “gauche” disfa il legame tra la mano e l’occhio: disegna senza luce (così faceva Twombly quand’era nell’esercito)».
Lepanto, con Cy Twombly la storia si fa lirica
In questi giorni di rinnovate e demenziali tensioni tra Islam e Occidente, il pensiero corre alla sala con il ciclo dedicato alla battaglia di Lepanto, appena visto al Museo Brandhorst di Monaco. Sono 12 tele di Cy Twombly, presentate alla Biennale del 2001 (il gioco delle date…), e che oggi occupano in sede definitiva la grande sala a mezzaluna al terzo piano del nuovo museo di Monaco. Non credo che nessuno risolverà l’enigma che sta dietro la scelta di Cy Twombly di concentrarsi su un tema del genere, in un momento come questo della nostra storia (ma c’entra certo il desiderio di esplorare il proprio dna occidentale). Ma l’arte va accettata anche con i suoi enigmi: inutile pretendere di risolvere tutto. Vista nella collocazione ideale del museo (illuminazione perfetta), il crescendo narrativo del ciclo emerge in modo molto più chiaro che non a Venezia. C’è un approccio lirico alla battaglia, con la narrazione affidata a codici semplici, quasi infantili, ma di un’incisività simbolica via via sempre più ferrea. Si comincia da sinistra con un mare che è ancora azzurro e con le flotte schierate, si intervallano immagini in cui il giallo e il rosso del fuoco e del sangue incendiano la tela raccontando l’acme della battaglia. Le pause si fanno sempre più disfatte e cupe, con le sagome delle navi che sembrano come insetti contratti e assediati.
Più che la dimensione di grandezza, Cy Twombly colpisce per questa sua capacità di essere elementare. Di saldare secoli di storia dentro codici semplici ma “archetipici”. Facile il riferimento al linguaggio delle incisioni rupestri (vedi a conferma, qui sotto, la versione della nave in multiplo inciso) che Cy Twombly fa reimergere dal profondo della coscienza e della storia, incendiandoli poi con un furore cinematografico laddove la battaglia non lascia più scampo. Ma la crudeltà e la ferocia non sono certo l’ultima parola: l’andamento, il legante direi, alla fine è irriducibilmente lirico. La storia ribolle, ma alla fine sfuma.
Al Louvre, a caccia di soffitti
Al Louvre, settimana passata, non ho mancato di andare a vedere il nuovo soffitto di Cy Twombly per la sala dei Bronzi (ala Sully). Sinceramente una cosa non memorabile. Un cielo olimpico un po’ imbolsito, nel quale rotolano pianeti palloni e scandito da belle scritte in greco che sembrano degli eleganti fumetti. Ma la cosa che mi ha colpito è che nella sala precedente, in un sontuoso soffitto cinquecentesco si vedevano tre riquadri con altri bellissimi cieli riempiti da voli di grandi ed eleganti uccelli. Erano cieli di un blu schiantante, su cui si ritagliavano le sagome “matissiane” dei volatili. Tanto il nome di Cy Twombly era sontuosamente annunciato da cartelli indicatori e da grandi targhe fisse agli ingressi dalle Sala, tanto l’autore di questa sala invece risultava misterioso. Per capirlo ho dovuto rivolgermi a un guardiano che mi ha indicato un lungo pannello illustrativo della sala. Nelle ultime righe c’era indicato il nome di Georges Braque, che aveva dipinto i tre riquadri nel 1953. Braque, mica l’ultimo dei maestri del Novecento… A volte sembra proprio che il contemporaneo dia alla testa. Quasi una forma di idolatria che rende un tutti un po’ beoni… o non è così?
Comunque godetevi Braque.
L'arte dà spettacolo/2. Twombly al Louvre
Cy ha progettato il soffitto della Salle de Bronzes (400 metri quadrati, primo piano Aile de Sully) del Louvre. Cielo blu compatto matissiano, pianeti che rimbalzano come palle, grandi scritte greche con i nomi di artisti dell’antichità. Qui per saperne di più
Prove di bilancio di un decennio. Primo, Cy Twombly?
I primi decenni del secolo in genere sono stati decenni chiave. Pensateci: 1304, Giotto agli Scrovegni; 1401, il duello Brunelleschi Ghiberti per la porta del Paradiso; 1508 Michelangelo sulla volta Sistina; 1600-1610, gli anni di Caravaggio. Nulla di epocale nel 700 e nell’800. Ma poi nel 900 i primi dieci anni presentano un’infornata memorabile dal Cézanne estremo, alle Demoiselles d’Avignon, all’esplosione di Matisse…
E questo decennio che si sta per chiudere come passerà alla storia? Proviamo a ripercorrerlo con una breve rincorsa. Gli anni 80 erano stati quelli in cui l’arte era tornata a respirare, a volte in modo un po’ beota, dopo l’assedio del decennio precedente. I 90 sono stati quelli di un nuovo furore contro un modello di mondo in cui l’invocata libertà si era tutta tramutata in immensi bonus per i banchieri: è stato il decennio della Young british art, della performance di Marina Abramovich alla Biennale, delle cose per cui Damien Hirst avrà un angolino nella storia. È stato il decennio dell’addio all’ultimo gigante del 900, Francis Bacon. E il primo decennio del terzo millennio? Non è stato un decennio pieno dell’energia che nel passato dava ogni voltar di secolo. La cifra va cercata, io credo, in un moltiplicarsi di voci, in un’orizzontalità in cui mancano punte di riferimento. Una qualità diffusa senza acuti straordinari. È stato un decennio “partecipato”, in cui l’arte ha sentito di dover dire la sua sugli affanni del mondo. A volte s’è fatta strumento di un miglior vivere per tutti (il caso di Alberto Garutti in Italia). S’è chinata ad avere un profilo meno protagonistico: la Biennale del 2009, in questo senso, ha centrato in pieno l’anima del decennio. Arte socializzante.
Detto questo quali sono le cose più belle del decennio? Provo ad avviare un elenco, che è un elenco aperto a suggerimenti e correzioni di rotta. Al primo posto ci metterei Cy Twombly (le rose immense, 2008; o Paphos 2009). Poi Gerhard Richter (Snow White, 2009; ma anche le coraggiose vetrate del Duomo di Colonia, 2007); Sigmar Polke a Punta della Dogana, con le sue enormi pareti tese, come smaltate di fango. Poi mi sono rimaste negli occhi la porta di Kounellis all’orto monastico di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, i nove lenzuoli di marmo di Cattelan sempre a Venezia, e Natalie Djumberg, la più ossessionata del decennio. E poi Anselm Kiefer con il suo Merkaba. E la svolta candida di Baselitz.
Twombly, pittore al bacio
Quando ho esternato il mio entusiasmo dopo aver visto la mostra romana di Cy Twombly in corso alla Galleria nazionale d’arte moderna, mi è stato obiettato: perché lo consideri un grande? Provo a rispondere (anche se la domnda è indebita: non sono io a considerarlo un grande. È un po’ nei fatti e nella percezione condivisa…). Twombly ha questa qualità rara, di coniugare elementarità con complessità. Leggerezza con monumentalità. Nella composizione e convivenza degli opposti sta il punto di fascino, che in lui coincide come non mai con un punto di mistero. Twombly è bambino e insieme un erudito. Un balbuziente e un poeta epico. Un istintivo che non perde mai di lucidità. Ha la sfrontatezza degli americani e insieme la complicazione senza soluzione degli europei.
Twombly non si distoglie mai dal suo epicentro creativo. Sembra calamitato sul ciglio di quel cratere, al fondo del quale c’è il segreto alchemico dell’invenzione creativa. Con la sua mano ronza sempre intorno a quel ciglio, in attesa d’acchiappare lo spirito giusto. Lo vedi radunare gli elementi in ordine sparso per interi lavori, per poi assestare il colpo improvviso e decisivo che ha come esito il capolavoro. I suoi ragionamenti e le sue interviste non aggiungono nulla a quel che la pittura svela: nei dialoghi con Carla Lonzi radunati in Autoritratti, alle lunghe domande seguono solo silenzi, per nulla enigmatici. Tutto è sulle tele, semplice, lirico, fluente.
Il paradigma di Twombly sta nell’episodio accaduto ad Avignone nell’estate del 2007: Sam Rindy, una visitatrice dell’esposizione della Collection Lambert, si è fiondata su una grande tela dell’artista americaano e l’ha baciata lasciando il segno vistoso del rossetto rosso. L’opera del 1977, secondo i tecnici, sarà difficile da restaurare e si porterà quindi sempre il segno di quel bacio. E la cosa ci sta. Si bacia Twombly, perché Twombly nella sua apparente impalpabilità ed enigmaticità è anche un pittore molto carnale. Risucchia con la sua pittura ipnotica e insieme materna. Il grondare giallo nel pannello dell’estate delle Quattro stagioni, è come una colata di densità amorose. Che però conserva l’andamento aereo e imprendibile della pittura-grafia (nella foto L’inverno). Una nota sulla mostra. Il percorso è al contrario. Si inizia dalle ultime cose, con la sala più bella. Nella sala grande, l’impaginazione è tutta sbagliata, perché sia le Quattro sagioni che i tre pannelli quadrilobati dipinti a Bassano Romano sono spezzati su pareti d’angolo. Il passaggio alle altre sale è complicato da un dismpegno con una mezza scala: ed è un’interruzione che disunisce. Magnifico il salone con i due grandi quadri grigi e le due tele di onde in omaggio a Nini Pirandello. Il finale sale su su, sino all’astrattismo solido e forte dei primi quadri. Alla fine si pensa a Pollock, il fratello maggiore di Twombly. Più lirico, più brutale. Certamente meno felice.