Da una mano all’altra. Se Milano ha Cattelan, Roma ha ( per poco però) la gigantesca mano di Dessì, che troneggia davanti a Sant’Ivo alla Sapienza. È un reperto primordiale, vagamente informe, tendente a farsi zampa, con quelle dita che si chiudono ad uncino, come quelli di un volatile dalle proporzioni spaventose. È una gigantesca mano regressiva e animalesca, che non manca di una sua struggente tenerezza, con quel gesto di voler tener alta la casa – lanterna, inserto completamente geometrico e artificiale che completa la scultura. Nelle sue dimensioni così volutamente sballate, non vuole cercare dialoghi pretestuosi con il luogo. Accetta la sua natura di corpo estraneo, come uno zombie che però a questo punto nessuno vorrebbe più cacciar via da lì. È interessante perché fa riflettere sulla natura della scultura oggi, che quasi ha imbarazzo del suo ingombro, della sua invasività. Che si fa regressiva per recuperare una sua ragione (mi vengono in mente i meteoriti vegetali di Franz West).
Altra notazione che rubo da una bella pagina che Federico De Melis ha dedicato a Dessì su Alias. Il gesto di questa mano ricorda quello di Caravaggio che irrompe in scena nella Cattura di Cristo di Dublino, brandendo con concitazione una lanterna. Anche Dessì ha trovato una mano totem che si fa faro in tempi oscuri.
un dolore. acuto.
– la mano di Gianni Dessì. Spunta da terra come un fungo informe: regge una lanterna di cartone che non fa luce. L’artista soffre del buio, sfangandosi dal buio. L’Altro non è preso in considerazione. Ma forse l’Altro è quello che lo cava dalla terra, come Adamo dal fango. La mano dell’artista divenuta mostruosamente gigantesca tradisce un ingoiamento dell’Altro. Una inflazione di onnipotenza che ha già in sé, nel suo rattrapimento, la sua punizione.
– la mano di Caravaggio (Cattura di Cristo) alzava lucerna a fare apparente luce su una scena che da Altrove prendeva luce. Un tradimento dell’uomo rappresentato come una storia che ancora non ci riguarda in prima persona. Il tradimento ferisce Cristo, fa partire la sua passione. Non ferisce noi direttamente.
– la mano di Cristo (Caravaggio. Vocazione di Matteo). ‘Sei tu uomo (colto nel tuo fare il cambiavalute) che ora io chiamo: svegliati!’. ‘Chi ? io?’. Lo stesso stupore dell’artista (stupido-stupito) che solleva la lanterna testimoniandosi.
– la mano di Dio (Michelangelo. Sistina). ‘Sei tu Adamo/uomo addormentato nel tuo corpo, innamorato del tuo corpo: svegliati!’. Adamo protende il dito a ricevere. Come Eva appena tolta dalla sua costola si protende verso Dio.
– la mano dalle dita mozze e dal dito medio puntato verso il cielo di Piazza Affari a Milano. Mano dii uomo orribile, cambiavalute in pianta stabile che si è sostituito a Dio. L’uomo non punta l’indice: in una ritrosia furba, understatement, punta il medio. L’uomo medio-misurato. L’uomo spiritoso. L’artista divertito lo rappresenta e si esibisce e si diverte. ‘Simia Dei’.
paola
14 Apr 11 at 9:02 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
Ultimamente, dentro lo sguardo che mi impegna a giudicare opere d’arte come questa, risuona in me questa affermazione di Eugenio Corti: “l’universale nel particolare”, e tutto si complica di una semplicità che disarma. Sinceramente, anche in questo lavoro di Dessì, mi chiedo: dove si coglie l’universale?
Giovanni Savio
15 Apr 11 at 6:15 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
Se universale è una categoria assoluta e astratta (per quanto coperta dal concetto di semplicità) non mi interessa. Se l’universale passa attraverso il relativo di una forma con tutti i suoi difetti, invece lo prendo in considerazione. Mi sembra che a volte si cerchi un universale come espressione assoluta e quasi non discutibile. In questa forma di Dessì, con la fatica che corta dentro e il coraggio del suo sgraziato c’è qualcosa di profondamente interessante, di doloroso e di vero. E la ritengo un’evidenza, non un’opinione…
gfrangi
15 Apr 11 at 8:38 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
L’evidenza del vero che descrivi è visibile e condivisibile, ma “la fatica che porta dentro e il coraggio del suo sgraziato” non sono caratteristiche molto umane e pertanto non “esclusive” di ciò che è arte?
Non si corre il rischio di ritenere interessante un lavoro “solo” per questa fatica e dolore che porta dentro?
Insomma l’opera non dovrebbe, in quanto tale, reggersi da sola nel tempo raccogliendo in se quell’universale che, se “passa” attraverso il risultato di un lavoro e di un soggetto, poi davvero con semplicità disarmante si mostra nella sua unicità tanto da essere riconosciuta da ogni uomo in ogni tempo?
Sono riflessioni che partono da un mio personalissimo bisogno di chiarezza e che, grazie all’ospitalità e al lavoro di questo tuo blog, ti confido proprio per un lavoro reale di attenzione. Grazie
Giovanni Savio
15 Apr 11 at 10:01 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
E’ vero che sembra una zampa, un elemento primordiale, con una lanterna-tabernacolo in mano, forse come guida nel suo essere un elemento più quadrato.
Sì, interessante, ma spero che sarà presto smantellato come fu tolto l’Avanzante di Rodin nel cortile di Palazzo Farnese (che a mio parere poteva avere più senso di questa opera).
p.s.: secondo me, l’Adamo della C.S. non si protende neanche molto, ma piuttosto vedo protendersi Dio Padre nel suo sforzo di creare la perfezione
p.p.s.: condivido il pensiero di Savio vedendo l’opera d’arte come quella che riesce a sopravvivere al proprio tempo tendendo all’universale, ma in questo caso credo che si debba ritornare davvero ai classici. Ma vorrei dare uno spunto: non è proprio la disperazione dell’uomo nel suo voler essere ricordato che spinge all’arte?
Juria
3 Mag 11 at 11:44 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>