Robe da chiodi

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“I libri di Vincent” di Mariella Guzzoni

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Un Van Gogh “concettuale

Che ci fanno quei due libri sul tavolino di Mme Marie Ginoux, detta “L’Arlésienne”? Mme Ginoux era la titolare, con il marito Joseph, del Café de la Gare di Arles, bar e piccolo albergo dove Vincent Van Gogh si era sistemato nel febbraio 1888, appena arrivato nella cittadina provenzale.  Da loro Van Gogh avrebbe poi preso in affitto la ben famosa Casa Gialla. Ci sono ben sette ritratti della signora, tre realizzati quello stesso anno, e quattro invece dipinti durante il lungo ricovero nel manicomio di Saint-Remy nel 1890.

Il primo dato da sottolineare è che non si tratta di ritratti in presa diretta, perché Van Gogh lavora lasciandosi mediare da Gauguin, che lo aveva raggiunto negli ultimi mesi del 1888. È Gauguin a fare il ritratto di Mme Ginoux seduta ad un tavolino del suo bar (il quadro è conservato al museo Puškin di Mosca). Van Gogh si sistema defilato sulla destra, e dipinge la signora con un taglio laterale. A Saint-Remy a fare da matrice era stato invece un disegno preparatorio di Gauguin, che Vincent aveva conservato: la posa è la stessa, ma la prospettiva è frontale. Come detto, nei sette ritratti di Van Gogh c’è un’altra costante: la presenza di libri sul tavolino, dove invece Gauguin aveva dipinto, più realisticamente, una bottiglia con un bicchiere.  Nelle quattro varianti di Saint-Remy, Van Gogh ci vuol far sapere anche di quali libri si tratta: “La capanna dello zio Tom” di Beecher Stowe e il “Racconto di Natale” di Charles Dickens (nelle varie versioni dei ritratti si alternano le edizioni in francese e in inglese: Van Gogh leggeva indifferentemente nelle due lingue, oltre all’olandese). È una scelta precisa, che si configura come una vera e propria operazione concettuale. Sono due romanzi che per lui avevano rappresentato una rivelazione fin dagli anni della sua attività “missionaria” tra i minatori del Borinage nel 1879. Due libri “politici” per la forza del loro messaggio sociale: uno contro la discriminazione razziale, l’altro per la denuncia della povertà urbana causata dal capitalismo. Per Dickens in particolare Van Gogh aveva una predilezione speciale: «Non esiste nessun altro scrittore che sia altrettanto disegnatore e pittore». Infatti aveva notato come l’autore inglese ricorresse all’espressione “I have sketched” per dire che aveva “schizzato” un appunto di quel che doveva scrivere. Tra pagina letta e tela per Van Gogh si determina quasi un’osmosi. Un passaggio in continuità.

Il disegno “matrice” di Paul Gauguin

Tutta la vicenda dei ritratti a Mme Ginoux è stata accuratamente ricostruita da Mariella Guzzoni nell’ambito di un libro rivelatore: “I libri di Vincent” (Johan & Levi, 224 pag, 28 euro) è il frutto di anni di ricerche anche certosine, partendo dal quel formidabile serbatoio d’informazioni costituito dalle oltre 800 lettere dell’artista. Il volume, la cui importanza è testimoniata dal fatto che è già stato pubblicato in edizione inglese e francese, propone un’indagine inedita e molto capillare su questo fattore decisivo nella storia di Van Gogh. Di libri è davvero piena la vita dell’artista, fin dagli anni della giovinezza. Allora si trattava di quelli che per consuetudine venivano letti in famiglia, sotto la guida del padre, il reverendo Theodorus. «Leggiamo spesso ad alta voce la sera. In questo momento Chillingly de Bulwer, nel quale troviamo molte belle cose», scrive il genitore nel 1974 al figlio Théo.  Van Gogh assimila questa dimensione “morale” e non solo letteraria del leggere, ma presto la allarga ad una dimensione di giustizia. Nel 1880, mentre è in missione nel Borinage, spedisce a casa un libro di Victor Hugo che solleva la perplessità della mamma, Anna Cornelia.  «Che genere di idee gli forniscono le sue letture», scrive, sfogandosi con Theo, vero parafulmine nella vita di Vincent. Come risposta vale quello che Van Gogh scrive alla sorella Willemien, con cui maggiormente condivide le passioni letterarie: i moderni «non moralizzano come gli antichi» e scrittori come i fratelli Goncourt e Zola «dipingono la vita come anche noi la sentiamo».

Van Gogh è un lettore moderno, che sceglie e che esce da quel rito comunitario per imboccare una strada individuale. Ma di quell’esperienza giovanile gli resta attaccata l’idea che i libri buoni siano importanti per vivere: comunicano una forza etica e morale indispensabile anche per nutrire la pittura. Non a caso la Bibbia resta una lettura costante con il passare degli anni. Da ragazzo compila dei piccoli album (uno lo prepara per il fratello Theo) con montaggi di poesie e prose tratti da autori romantici e post romantici, che testimoniano già la varietà delle sue letture. Van Gogh in questi anni è davvero un divoratore di libri e non c’è da stupirsi se, nel momento in cui decide di diventare pittore, una delle prime opere, datata 1881, sia un acquarello con un uomo seduto che legge. Van Gogh non si preoccupa di conservare o di tenere una biblioteca, tant’è vero che delle centinaia di libri passati per le sue mani, se ne sono salvati solo tre, custoditi al Van Gogh Museum di Amsterdam: merito del lavoro di Mariella Guzzoni è quello di aver recuperato le edizioni originali dei volumi da lui citati, che molte volte sono diventati anche soggetto di suoi quadri.

I libri per Van Gogh sono sempre materia viva, non da biblioteca. Quando nel 1882 accoglie in casa Sien Hoornik, una ragazza prostituta rimasta incinta che viveva nella strada a L’Aia, si giustifica con il fratello Theo, facendo riferimento a ciò che aveva letto ne “La femme” di Jules Michelet. La triangolazione tra vita e letteratura approda inevitabilmente in un’opera, uno dei suoi disegni più belli, “Sorrow”, al cui piede inscrive una frase tratta da Michelet: «Comment se fait-il qui’il y eut sur la terre une femme seule – délaissée». I libri, insomma, riempiono la pittura di Van Gogh. La riempiono spesso in senso anche del tutto concreto, in quanto sono decine i quadri in cui libri entrano come soggetto.

Uno dei casi più emblematici è la stupenda “Natura morta con statuetta in gesso” del 1887. In primo piano, insieme ad un rametto di rose, Van Gogh ha posizionato due titoli “cult” per lui: “Germinie Lacerteux” dei fratelli Goncourt e “Bel-Ami” di Maupassant. «Capolavori che dipingono la vita come anche noi la sentiamo e quindi rispondono a quel bisogno che proviamo, di sentirci dire la verità», scrive alla sorella Willemien nell’ottobre di quello stesso anno. “Dipingono la vita”: l’uso stesso del verbo indica una caduta dei confini. Il pensiero colto tra le pagine è già per sua natura contenuto del dipinto che ne deriverà. «In “Une page d’amour” di Zola ho trovato alcuni paesaggi urbani dipinti o disegnatimagistralmente», aveva scritto in un’altra occasione a Theo. L’attenzione di Van Gogh non è mai per la portata letteraria: confessa non a caso la sua avversione per Baudelaire a cui contrappone la forza morale di Walt Whitman un poeta che «vede nell’avvenire e anche nel presente un mondo di salute, di amore carnale aperto e sincero – di amicizia – di lavoro sotto il grande firmamento stellato». Sono parole che entrano immediatamente in relazione con il capolavoro, “Notte stella sul Rodano” dipinto proprio in quel 1888.

È attraverso i libri che Van Gogh scopre e nutre la sua passione per l’arte giapponese. Ed è grazie alla mediazione dell’empatica biografia di Alfred Sensier che nasce la sua immensa devozione per Jean-François Millet, artista che sarebbe stato per lui un riferimento centrale: anche in questo caso si tratta di un magistero più di contenuto che di stile. Millet, come Zola, come i Goncourt e tanti altri è portatore di uno sguardo etico-politico sulla realtà che destinato ad diventare contenuto “concettuale” della pittura di Van Gogh.

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Novembre 10th, 2020 at 9:37 am

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Iper Bacon a Montecarlo

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Vista la mostra di Francis Bacon al Grimaldi Forum di Montecarlo. Certamente, fino a questo punto, la mostra più bella dell’anno.
Oltre settanta opere, alcuni confronti molto pertinenti (Soutine e Giacometti, Picasso, un meraviglioso Rodin), un filo conduttore un po’ sciovinista ma che alla fine dimostra di tenere: il rapporto privilegiato di Bacon con la Francia.
Tra 1946 e 1949 aveva soggiornato a Monaco insieme a quello che era stato oltre che un suo amante anche uno dei suoi primi collezionisti. Sono anni cruciali, all’indomani di quello straordinario e spossante capolavoro che è Painting 1946, oggi al Moma di New York (che lo comperò già nel 1948…, prima sua tela a entrare in un museo): uno dei grandi quadri del 900. A Montecarlo però non c’è il Bacon museale. C’è il Bacon custodito dai grandi collezionisti privati di tutto il mondo, in molti casi collezionisti della prima ora. Quadri che non si vedono mai, alcuni addirittura inediti, come lo straordinario Study of bull dipinto nel 1991 e dedicato a Michel Leiris, il grande critico e curatore della mostra parigina del 1971, morto in quell’anno.

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Allestita in grandi spazi, con un respiro che è adeguato alla grandezza fisica e qualitativa delle opere, la mostra è una di quelle che non si dimenticano facilmente. Si segue un percorso che ha punti fermi (la violenza della pittura come riflesso della violenza della vita), ma che attorno a questo punto fermo si muove con oltranzismo e anche spesso con sperimentalismi (ad esempio, la peluria che Bacon a volte lascia, togliendo colore con uno straccio dove ha dipinto il corpo umano).
La forza di Bacon, visto nel suo insieme, è nel saper sempre spingere la tensione delle immagini e delle forme, al punto da far passare in secondo piano tutte le questioni stilistiche. D’altra parte il suo è il più grande atto di fede nella pittura di tutto il 900, perché scatena la pittura all’inseguimento del mistero della carne dell’uomo, in una stagione della storia in cui sul destino dell’uomo e della carne di cui è fatto, incombono rischi drammatici. È pittura che mentre implode in quel mistero sa guardarsi anche da fuori, dotarsi un’intelaiatura potente che ne garantisce sempre una piena intelligibilità (le famose gabbie di Bacon, che si generano dall’architettura della grande sedia che “ingabbia” l’Innocenzo X di Velazquez, presente in mostra con una copia francese ottocentesca). Qui sotto un dettaglio di Head IV, 1949: si vede il doppio gioco tra la memoria della sedia di Velazquez e la gabbia che Bacon ne ricava.

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La dichiarazione più intensa ed esplicita di questo atto di fede nella pittura è nel lavoro che Bacon fa attorno al quadro di Van Gogh (L’Autoritratto sulla strada di Tarascona, distrutto a Berlino dalle bombe della seconda guerra mondiale). In mostra sono presenti due varianti di questo lavoro, tra cui l’ultima (foto sopra). In questa serie Bacon si concede alla pura istintività vangoghiana, lascia che la composizione vada d’impeto. L’ultima versione si traduce in una sorta di incendio, folgorante, di un’intensità indimenticabile. In mostra “buca” da lontano lo spazio buio che contrassegna la prima sezione. Quel quadro sembra metafora della ambivalenza della pittura: che divora ma chiede a sua volta di essere divorata. Uno scambio furioso. Un quadro che è come avventurarsi in un roveto ardente, per intensità e per luminosità.
Alla fine della mostra resta impressa la sensazione di aver avuto davanti agli occhi qualcosa che incorpora una dimensione di vastità. Vastità come larghezza e anche come profondità. Vastità come espressione fisica e visibile della grandezza. Vastità che consiste in Bacon nell’osare ad oltranza, chiedendo alla pittura qualcosa che travalica la pittura stessa.

La mostra dura solo sino al 3 settembre. Poi si sposta modificata al Guggenheim di Bilbao. L’occasione è data anche dalla pubblicazione del monumentale catalogo ragionato a cura si Martin Harrison (cinque volumi, 1400 euro). Il catalogo della mostra, edizioni Albin Michel, è ricco, peccato che non si siano fatte schede delle opere e che l’elenco di quelle esposte non sia completo.

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Luglio 17th, 2016 at 5:31 pm

Come conquistare i ragazzi all’arte del 900

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25 BluGiotto

Settimana di belle avventure. Mercoledì scorso sono stato a Ravenna. Mi ha chiamato un bravo e appassionato professore di Storia dell’arte, Leonardo Babini, che ha radunato tutti gli studenti delle quinte dei classici e scientifici della città. Sono circa 350 studenti che occupano tutti i posti dell’auditorium della Cassa di Risparmio di Ravenna. A me tocca convincerli che il 900, per quanto riguarda la storia dell’arte, è stato il secolo più affascinante che ci sia. L’auditorium ha una grande bellissimo schermo. È quello il mio testo. Scelgo di non avere appunti e di seguire solo il binario delle immagini che ho preparato. Non voglio che sia lezione né conferenza, perciò parlo stando in piedi vicino alla prima fila. Sullo schermo, in partenza, ho il ritratto di Eugene Boch di Van Gogh, 1888. Mi serve per conquistare gli occhi e per fare capire due cose basilari: che la pittura a quel punto era diventata una partita a due dimensioni, la partita ce la si giocava senza più la scappatoia di spazio illusori aperti sul fondo della tela. La seconda cosa è che questa specie di saracinesca calata a chiudere ogni punto di fuga, da limitazione si era trasformata in una leva di energia: il fondo stellato e piatto di Van Gogh era un di più, non un di meno. Era espansione del personaggio, sua proiezione, completamento del suo profilo umano e psicologico. La cosa viene capita benissimo, lo intuisco subito guardando il volto dei ragazzi. Boch era un poeta che per Van Gogh simboleggiava una mente familiare all’infinito. Questo il quadro lo dice, e a tutti è un’evidenza.
Non posso raccontare tutto. Ma posso dire che il percorso ha aperto una breccia nella testa dei ragazzi. Che hanno seguito senza stanchezza e con tanta curiosità. Quando ho dovuto introdurre il tema dei monocromi li ho visti conquistati dal salto mortale da Giotto, che fa arrotolare l’azzurro del cielo agli angeli del suo Giudizio Universale di Padova, a Yves Klein, che fa dell’azzurro tema unico del suo quadro, infinito che si fa oggetto. Materia che diventa visione senza fondo. Quando ho fatto entrare in scena Gagarin e il suo “la terra è blu, che meraviglia, è incredibile” (1961), ho poi mostrato come Klein avesse visto prima con il suo Mappamondo blu del 1958. La sensibilità porta gli artisti in alto e lontano…
Per finire. L’ultimo percorso, dedicato al tema della luce, si concludeva con i cinque minuti di un video dell’installazione di Garutti al Maxxi. Riflettori potenti che si accendono in una sala del museo ogni volta che un fulmine cade su un qualsiasi pezzo del territorio se italiano. La connessione non è partita, così l’ho raccontato a parole, citando la didascalia che dà la chiave all’opera: “dedicata agli uomini che guardano in alto”. Poi ho dato il link perché chi volesse se lo guardasse a casa. Risultato, come mi ha scritto Babini, in tanti vogliono farne tesina dell’esame di maturità.
Alle 12,45, dopo un’ora e mezza abbiamo finito. Tutti contenti, io per primo.

30 Klein

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Febbraio 16th, 2015 at 11:47 pm

Borinage, 1880. Quel primo passo di Van Gogh nella pittura

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Venerdì scorso presentazione del libro di Mariella Guzzoni su Van Gogh con Rocco Ronchi, alla Biblioteca Sormani. Personalmente ho insistito su quel punto chiave della storia di VG che è il momento in cui decide di immaginarsi pittore. È il 1879, quando racconta al fratello dell’incontro con il reverendo Pieterszen, che lo aveva spinto a continuare sulla strada dei disegni realizzati in quei mesi nel Borinage. Scrive nella lettera: «Spesso sto a disegnare sino a tarda notte per fissare qualche ricordo e per rafforzare i pensieri che mi arrivano in mente da soli nel vedere le cose». Rafforzare i pensieri: è un’indicazione chiara quella di Van Gogh. La pittura è uno strumento per meglio vedere, che significa rafforzare la presa di pensiero sulla realtà. L’anno dopo il 24 giugno 1880, scrive un’altra lettera, la prima in francese, di una lucidità ancora più decisiva: «J’ai preferé une mélancholie active qui aspire, qui espère et qui cherche à celle qui morne et stagnante désespère». la malinconia che che spera, che aspira e che cerca: “Ora sono in cammino” scrive non a caso nel settembre di quell’anno, poco prima di lasciare il Borinage e andare a Bruxelles per un corso di pittura.
Si capisce qual è la necessità di essere pittore, che va oltre la rappresentazione dei soggetti, ma come ha detto bene Ronchi, riguarda l’apparire dei soggetti. La pittura di VG è una pittura dell’apparire, non di ciò che è già apparso. O meglio la sua pittura porta in superficie l’apparire di ciò che è già apparso. Quella condizione che è slegata alla contingenza e che trova una chiave sintetica in un’altra parola suggerita da Van Gogh in una sua lettera del 1883: «sarò pittore, uomo o cane, enfin un uomo con sensibilità». La pittura di Van Gogh parla una lingua che alla fine va oltre se stessa, si libera da se stessa, perché si trasfigura in sensibilità. Una sensibilità più larga, un’aura, un accensione. Anche Testori nella introduzione al volumetto con tutte le opere di VG di Sansoni, scrive che VG rappresenta l’atto finale della pittura. Per questo pensare che l’espressionismo sia quel che da Van Gogh discende è assolutamente fuorviante. Piuttosto ci vedo Klein e la sua folle idea di vendere sensibilità artistica. (Tutti ragionamenti possibili grazie agli spunti che un buon libro garantisce. E quello di Mariella Guzzoni è appunto un buon libro) .

Written by gfrangi

Febbraio 8th, 2015 at 6:55 pm

Giacometti e le stelle

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Sabato scorso avevo fatto visita guidata alla mostra di Giacometti a Villa Reale. Una mostra discreta, purtroppo allestita come una bomboniera (proprio Giacometti che aveva vissuto in una specie di studio caverna, con i graffiti sui muri, nel cuore di Parigi). Ma Giacometti è sempre Giacometti…. Ho fatto la visita seguendo con testi di Giacometti (o con testimonianze dirette) stesso e davanti a un ritratto della serie di Isaku Yanaihara, ho letto questa pagina di diario dello stesso Yanaihara: «Ricominciando sotto la nuda lampada elettrica, Giacometti ha gridato: “Un istante fa ho visto un grazioso lago dietro di lei, era un grande lago quasi abbagliante su cui si rifletteva la luce del tramonto. Sfortunatamente si è spento un istante dopo, ma devo dipingere il fondo trasparente, luminoso, immenso all’infinito, come l’ho appena visto”. In realtà dietro di me c’era un’umile stufa a carbone e il muro sporco e scrostato su cui si vedevano diversi graffiti.
“Più si vede il volto con densità, più lo spazio che lo circonda diventa immenso; è veramente curioso! Il suo viso è molto, molto bello, quasi terribilmente compatto. A fianco del suo viso, perfino un ritratto di Frans Hals, perfino uno di Rembrandt non sono che immagini buffe!”. E ha ripetuto: “Oggi posso vedere la costruzione del suo viso meglio di prima. Sì, è vero! A meno che non si colga l’architettura dell’interno, non si possono dipingere le cose”».
Viene in mente la celebre lettera di Van Gogh sul ritratto all’amico poeta Eugene Bloch, il biondo sul blu stellato. Uscendo dalla visita non a caso Luca Doninellli mi ha fatto notare che l’etimologia di “considerare” era affine a quella visione di Giacometti: per capire (prendere in considerazione) il volto di una persona bisogna metterlo in relazione con il suo destino (“sidera” cioè le stelle: le stesse che Van Gogh accende alle spalle del suo poeta). Vedere “il lago” alle spalle del giapponese significa capire che si può stringere su quel volto solo dopo aver dilatato lo sguardo all’infinito di cui è fatto o a cui è destinato.
Ecco perché il togliere di Giacometti, il suo affilare senza tregua le figure è in realtà un aggiungere, un mettere sempre più a fuoco. Se le figure gli scappano via dalle mani e non si consolidano mai in esiti per lui definitivi, è proprio per la consapevolezza che non è possibile arrivare a nessuna forma di possesso, proprio come non si possono possedere le stelle.
(Questo per dire che la lettura esistenzialista e sartriana della scultura di Giacometti, è più che altro un comodo stereotipo per ricondurlo dentro una gabbia culturale. Ma lui è più affine ai bizantini, che non a caso amava e guardava, come testimoniano le su Copie dal passato).

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Dicembre 21st, 2014 at 2:28 pm

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Van Gogh, liberi sguardi sui grandi del passato

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È uscito un libro dalle dimensioni e dall’aspetto un po’ biblici. È la raccolta di 265 lettere di Van Gogh (sul totale di 903), traduzione italiana del volume ricavato dal gigantesco lavoro fatto per il Van Gogh Letters Projects (bisogna andare sul sito per rendersi conto di cosa si tratti: tutte le lettere pubblicate e linkate a tutti i riferimenti che Van Gogh fa al loro interno). Bello il titolo dato a questa edizione, Scrivere la vita. Il volume ha oltre mille pagine, con indice dei nomi molto ben fatto e quindi molto utile (Donzelli, 55 euro). Le lettere di Van Gogh sono un documento meraviglioso ma assolutamente asistematico. Così la tentazione è sempre quello di saltare da una pagina all’altra, segnandosi alcune frasi che non possono essere dimenticate, tale la suggestione che evocano. Ho fatto anch’io così. Ma aiutandomi con l’utilissimo indice dei nomi sono andato a cercare le pagine in cui VG parla di altri pittori.
(tralascio Millet, di cui si sa bene cosa VG pensasse: ricorre in ben 75 lettere).

A proposito di Delacroix (in indice 39 occorrenze)
«Delacroix, ah, lui – “ho trovato la pittura – ha detto – quando non mi erano rimasti più denti né fiato”. E quanti hanno visto questo illustre artista dipingere hanno detto: quando Delacroix dipinge è come il leone che divora un pezzo di carne. Scopava poco e aveva solo avventurelle per non sottrarre il tempo consacrato alla sua opera»

«Ah il bel quadro di E. DELACROIX – la barca di Cristo sul mare di Genesaret -; lui con l’aureola giallo limone chiaro – che dorme luminoso – nella drammatica chiaza viola, blu scuro, rosso sangue del gruppo dei discepoli attoniti. Su quel terrifico mare di smeraldo che monta, monta fino alla parte più alta del quadro».

«Non mi sorprenderebbe affatto che gli impressionisti trovassero da ridire sul mio modo di dipingere, che è stato fecondato più dalle idee di Delacroix che dalle loro».

«Così morì quasi sorridendo Eugéne Delacroix, pittore di grande razza- che aveva un sole nella testa e nel cuore una tempesta – che passò dai guerrieri ai santi – dai santi agli innamorati – dagli amanti alle tigri – dalle tigri ai fiori».

A proposito di Rembrandt (in indice 45 occorrenze)
«… cò che tra i pittori solo Rembrandt ha, o quasi solo lui, quella tenerezza dello sguardo degli esseri umani che vediamo sia nei Pellegrini di Emmaus, sia nella Fidanzata ebrea, sia in quella strana figura d’angelo come in quel quadro che tu hai avuto la fortuna di vedere – quella tenerezza afflitta, quel barlume di infinito sovrumano che allora appare così naturale, lo si incontra in numerosi passi di Shakespeare».

A proposito di Rubens (3 occorrenze)
«Niente mi colpisce meno di Rubens quando esprime il dolore umano. Comincio col dire, per spiegare cosa intendo – che perfino i volti della sue Maddelene piangenti o Mater dolorose mi fanno sempre pensare semplicemente alle lacrime di una ragazza che si sia presa magari una malattia venerea… Rubens è sorprendente nel dipingere donne comuni, belle. Ma nell’espressione non è drammatico».

A proposito di Degas (11 occorrenze)

«Degas vive come un piccolo notabile e non ama le donne, ben sapendo che se le amasse e scopasse troppo si ammalerebbe mentalmente e diverrebbe incapace di dipingere. La pittura di Degas è virile, impersonale appunto eprché lui ha accettao di essere un piccolo notaio, aborrendo la vita sergolata. Osserva gli animali umani più forti di lui infoiarsi e scopare e li dipinge bene appunto perché non ha tutte le quelle pretese di infoiarsi».

A proposito di Giotto
«Io e Gauguin abbiamo visto un suo piccolo pannello a Montpellier. La morte di qualche santa. In quel dipinto le espressioni di dolore e di estasi erano talmente umane che, pur essendo nel XIX secolo, ti senti li dentro – e ti pare di essere stato là tanto ne condividi le emozioni».

Written by gfrangi

Febbraio 1st, 2014 at 1:55 pm

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Van Gogh pubblicato alla rovescia

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L’implacabile detective vangoghiano Antonio De Robertis ha beccato in castagna tutti  i maggiori giornali italiani. Martedì avevano dato grande enfasi all’allarme lanciato da due ricercatori Letizia Monico dell’Università di Perugia e da Koen Janssens dell’Università di Antwerp sul deperimento dei colori di Van Gogh. Scrive De Robertis nei commenti con cui è andato a tamponare le informazioni sballate su tanti siti: «Giornali e blog annunciano in articoli molto documentati l’alterazione del giallo di cromo verso il marrone si manifesti di più nella versione dei girasoli del museo Van Gogh rispetto a quella della National Gallery di Londra (nella foto) e poi allegano invece la fotografia della terza versione di Tokio». I Girasoli di Tokio sono quelli acquistati dalla compagnia di assicurazioni giapponese Yasuda nell’87 e sulla cui autenticità molti studiosi hanno avanzato dubbi. Lo stesso detective De Robertis aveva avanzato l’ipotesi che a dipingere quei Girasoli fosse stato in realtà Gauguin (questo spiegherebbe la miglior tenuta del giallo: Gauguin usava acquistare colori di qualità migliore).

Ma le disavventure informative non finiscono qui: i giornali infatti pubblicano tutti il quadro di Tokyo al contrario!

Quanto al giallo, Van Gogh usava il giallo cromo Tasset&Lothe o quello del famoso pére Tanguy. I Girasoli “sicuri” sarebbero stati dipinti con i primi. La diversa conservazione dei due esemplari sarebbe determinata dal fatto che quello di Londra ha avuto una storia molto più tranquilla, menre quello di Amsterdam ha viaggiato moltissimo, con effetti deleteri per cambi di ambientazione e di esposizioni alla luce.

Mia nota personale: non bisogna esagerare nell’idolatrare i colori di Van Gogh. Quelli erano potenzialmente a disposzione di tutti. La sua grandezza è in quello sguardo eternamente divaricato sulla realtà e il colore è strumento per questio sgiuardo. È come se penetrasse la realtà, l’aprisse, ne dilatasse febbrilmente l’orizzonte. Van Gogh imprime sempre una grande pressione sulle immagini: ma questa pressione deriva da un fattore mentale non da una reazione emotiva. Lui parla di un’«alta nota gialla». Sarebbe davvero limitante pensare che quel giallo coincida semplicemente con un colore. Piuttosto è l’eco di un desiderio inestinguibile e ultimamente non catturabile. Il giallo in questo senso è un’ultracolore. Per questo Antonin Artaud poteva scrivere: «I suoi girasoli, d’oro e bronzo sono dipinti, sono dipinti come girasoli e nient’altro, ma adesso per capire un girasole in natura bisogna prima rivedere van Gogh».

Written by gfrangi

Febbraio 16th, 2011 at 10:55 pm

Lo spasmodico Van Gogh

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Ho scritto per gli amici di 30Giorni un ragionamento sulla mostra di Van Gogh a Roma. Mostra non banale, per quanto macchiata dai dubbi sull’autenticità di uno dei quadri esposti. La mostra nel titolo annuncia una riflessione sulla visione che Van Gogh aveva del paesaggio attorno a sé. Una chiave interssante, perché ci porta dentro quella straordinaria capaxità di dilatazione dello sguardo e dell’orizzonte che Van Gogh avea come connaturato. Il mondo sembra allargarsi sulla sua tela, divaricarsi come se ogni volta si trattasse di un parto. Il disegno (un vero capolavoro) che vedete qui sopra, datato 1884, è emblematico di quello che tento di dire. C’è una visione come miniaturizzata, che però corre a dilatarsi, che prende un respiro immenso. L’attenzione al filo d’erba, è tutt’uno con l’attrazione ansiosa, direi spasmodica verso un illimite. È in questa spola dal dettaglio all’infinito, che si scatena l’energia della pittura di Van Gogh.

Written by gfrangi

Dicembre 1st, 2010 at 1:59 pm

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Indovina un po’ quale Van Gogh hanno rubato…

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Ma qual è il Van Gogh rubato al Mahmoud Khalil Museum del Cairo? Su quasi tutti i giornali italiani è apparsa l’immagine di un Vaso di papaveri, margherite e peonie conservato al Ministero della Cultura olandese, in prestito permanente dal Museo di Otterloo (immagine a sinistra). Evidentemente non è quello il quadro sparito. L’equivoco è nato dal titolo fatto girare da qualche agenzia: un vaso di papaveri. In realtà il quadro è un altro, Vaso di viscarie e altri fiori (che potrebbero essere in effetti due papaveri), dipinto negli stessi mesi del 1886 (immagine a destra). È il momento in cui Van Gogh sente con più intensità l’influsso di Monticelli, il grande e oscuro maestro marsigliese a cui lui guardava con l’occhio devoto del discepolo. Questo era il vero indizio (il nome di Monticelli era fatto in qualche dispaccio di agenzia) che poteva aiutare a riconoscere il quadro, con quei toni terra che discendono proprio da Monticelli. Per altro la tela non è piccola come è stato scritto ma è di 65 x 54 cm.

La cosa curiosa è che se su Google si fa ricerca in italiano esce l’immagine sbagliata. Se la si fa in inglese ece invece il quadro giusto. Vorrà dir qualcosa? Soliti peccati di superficialità…

Written by gfrangi

Agosto 23rd, 2010 at 10:02 pm

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19 marzo, dedicato a tutti i padri

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Oggi san Giuseppe e festa del papà. Le più belle immagini che mi vengono in mente sono tutte religiose, legate a quel grande santo, che è diventato santo restando sempre dietro le quinte. Ma c’è anche un’immagine memorabile e molto laica: è una tela di Van Gogh, si intitola i Primi passi ed è del 1889. Ci sono due motivi per cui questa tela è inscindibilmente legata alla paternità. Il primo è il soggetto: un papà contadino che a braccia aperte attende i primi passi della sua bambina. Il secondo è la storia del quadro: Van Gogh infatti lo dipinge da “figlio” in quanto copia un soggetto di François Millet, pittore fancese della scuola di Barbizon morto nel 1875. È commovente questo suo atteggiamento di mettersi con umiltà sulla scia di un altro artista che sente come proprio padre. Uno da cui attingere, su cui appoggiarsi. Infatti per essere buoni padri, bisogna innanzitutto avere la coscienza di essere figli (non di “essere stati“, ma di “essere sempre” figli).

Oltre a Van Gogh (che non fu mai padre) un’altra grande visione della paternità è nelle pagine, di pochi decenni successivi, di Charles Péguy in Véronique. Ve ne propongo un piccolo estratto:: «C’è solo un avventuriero al mondo, e ciò siu vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia…. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Lui naviga su questa rotta immensamente larga, lui solo non può affatto passare senza che la fatalità si accorga di lui… Gli altri scantonano sempre. Possono permettersi di infilare solo la testa. Lui, lui deve nuotare di spalle, deve risalire tutte le correnti. Deve infilare lespalle, il corpo e tutte le membra. Gli altri scantoneranno sempre. Sono carene leggere, sottili come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico».

Written by giuseppefrangi

Marzo 19th, 2010 at 2:55 pm