Robe da chiodi

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Emma Ciceri/1. Da una schiena all’altra

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La mano di Emma che accarezza la schiena di Ester. Lì vicino c’è la Pietà Rondanini, con quella schiena della madre ricurva sul Figlio. È davvero intenso e “necessario” il dialogo che Emma Ciceri ha instaurato con l’ultimo capolavoro di Michelangelo.

Grazie alla disponibilità della direzione dei Musei del Castello Sforzesco, ha potuto stare a lungo, a tu per tu con la Pietà, nei giorni di chiusura. Lei ed Ester a vivere in quel contesto una condizione di vicinanza che da quando Ester è nata, è diventata per loro una condizione quotidiana e inalienabile. È nata così “Nascita Aperta”: due video che vanno in simultanea, dove gli stessi gesti si rimbalzano, compiuti in casa e al museo, cioè nella “casa” della Pietà. La presentiamo lunedì proprio al Museo della Pietà (dalle 14 alle 18) dove poi l’opera resterà per un mese: il progetto è di Casa Testori, curato da Gabi Scardi. L’installazione, ha scritto Gabi Scardi, “è una dichiarazione di adesione all’esistenza in ogni sua forma, anche là dove la vita si fa insondabile”. Aggiungo che è un’opera che ha la forza di una complementarietà: è complementare alla Pietà, perché dimostra come questo capolavoro sia “necessario” alla nostra vita. “Nascita Aperta” è un titolo che oltre ad essere bellissimo contiene un paradosso: la Pietà è immagine umanissima ma di una morte. Associarla alla Nascita che ogni giorno si compie nel rapporto tra Emma ed Ester, diventa una chiave per andare in profondità rispetto a quel capolavoro. Che quindi parla di vita, nella forma drammatica e anche dolcissima di un abbraccio sconfinato.

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:36 pm

Emma Ciceri/2. La Pietà come Nascita

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Ci vogliono ragioni profonde e anche una grande delicatezza per entrare in dialogo con un capolavoro impossibile da “circoscrivere” come la Pietà Rondanini di Michelangelo. Le ragioni di Emma Ciceri non sono molto distanti da quelle che hanno mosso il vecchio Michelangelo davanti a quel blocco di marmo. È un senso di infinità che si spalanca dentro la percezione di una finitezza, di una irrevocabile imperfezione. È quella dimensione solidale dei corpi, che in forza d’amore ribaltano la gravità della fatica e del limite in esperienza ascensionale.

Le ragioni per lavorare al cospetto della Pietà stavano dunque in una corrispondenza con quel capolavoro, vissuta e pensata. Emma si è accostata in punta di piedi, come a cercare riscontri tra la propria esperienza di madre e quella fissata, o meglio erosa, nel marmo da Michelangelo. Ha così trovato un’eco di quella dimensione imprevedibile che consiste nello scoprirsi sostenuti nel momento in cui si è sostegno: un confluire dei corpi in relazioni dove i ruoli non sono più rimarcabili, tanto che, come lei stessa ha confessato, è approdata alla convinzione che «la regia di “Nascita Aperta” dovesse essere di Ester».

Questa energia di ascolto ha trovato poi un suo corrispettivo nell’esito: il video è un lavoro che trova la sua intensità proprio nella delicatezza con cui sta un passo indietro, vela, allude, stabilisce corrispondenze silenziose. La scelta allestitiva è stata del tutto coerente con questa modalità di linguaggio: i due schermi, volutamente di dimensioni ridotte, sono stati collocati in una delle nicchie dell’Ospedale Spagnolo, protetti da una struttura a libro, appartati. E proprio per questo in profonda relazione con la Pietà.

Come Casa Testori siamo stati felici di accompagnare Emma Ciceri in questo percorso che l’ha portata ad operare all’ombra di un’opera che Giovanni Testori tanto amava. Credo infine che questa esperienza, resa possibile dall’apertura intelligente e dallo spirito di collaborazione della dirigenza del Castello Sforzesco, indichi una modalità vera e non strumentale di relazione tra arte contemporanea e opere del passato. Con tutta l’umiltà che ha caratterizzato il suo intervento, Emma Ciceri ha reso evidente come la Pietà Rondanini, capolavoro non finito e infinito, si prolunghi dentro le fibre della vita presente. Il titolo scelto da Emma allude, credo, anche a questo.

(Prefazione al volume di prossima uscita dedicato a “Nascita Aperta”)

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:32 pm

La Pietà riscoperta di schiena

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Questo è l’articolo scritto per Alias e pubblicato domenica 24 maggio

Michelangelo aveva mancato il suo appuntamento con Milano nel 1561. Papa Pio IV avrebbe voluto che fosse infatti lui a progettare la tomba in Duomo per il fratello Gian Giacomo Medici, detto il Medeghino. Michelangelo aveva declinato l’invito, ma aveva suggerito il nome di chi poteva sostituirlo: Leone Leoni. Il monumento, nel transetto destro della cattedrale respira michelangiolismo a pieni polmoni, al punto da far pensare che Leoni avesse lavorato sulla base di uno schizzo del maestro. L’appuntamento di Michelangelo con Milano però non fu annullato, ma spostato di quattro secoli. Nel 1952 infatti la città, anche grazie a risorse arrivate da una sottoscrizione popolare, comperò l’ultima scultura di Michelangelo, messa sul mercato dagli eredi della famiglia Rondanini, da cui viene il nome della Pietà. C’erano numerosi musei stranieri disposti a comperarla, ma l’opera era notificata e quindi non poteva lasciare l’Italia. Questo contribuì a far scendere il prezzo e rese possibile al sindaco di Milano Virginio Ferrari di portare a termine l’operazione, pagando il capolavoro 135milioni.

Perché Milano si mobilitò per avere Michelangelo? La ragione è interna a una coscienza civile a cui oggi si guarda con un po’ di nostalgia: un grande centro deve saper mettere i suoi cittadini nella condizione di poter confrontarsi e conoscere i grandi protagonisti dell’arte italiana. E a Milano, che poteva contare già su Leonardo, Raffaello e Caravaggio, mancava proprio il genio di Caprese.
Arrivò dunque Michelangelo, il primo novembre 1952, dopo un viaggio abbastanza travagliato in treno, con tre trasbordi. Il capolavoro di Michelangelo venne sistemato nella cappella ducale del Castello, dopo un serrato dibattito che aveva visto come protagonista Fernanda Wittgens, la leggendaria sovrintendente di Brera la quale sosteneva, pur essendo assolutamente laica, che la Pietà dovesse finire in qualche storica chiesa milanese. Vinse invece l’ipotesi dei musei civici del Castello. Dove in quel periodo erano in corso i lavori per un nuovo allestimento, progettato dal gruppo BBPR. A loro dunque toccò di progettare la sistemazione definitiva della Pietà. Si scelse l’ipotesi di trovare spazio nella grande Sala degli Scarlioni, che era stata destinata alla scultura lombarda, e in particolare al Bambaia.

Costantino Baroni, allora direttore dei Musei, aveva chiesto ai progettisti di immaginare uno spazio che separasse Michelangelo dal resto delle opere esposte e fosse capace di «suscitare l’impressione di un raccoglimento quasi religioso attorno al grande capolavoro». L’input venne seguito con decisioni anche molto ardite, come quella di abbassare il piano del pavimento di quasi due metri, con connessa distruzione delle sottostanti volte quattrocentesche. Una grande nicchia in pietra serena isolava il capolavoro di Michelangelo dal contesto, una contronicchia rivestita in legno di ulivo, stimolava quel clima di raccoglimento richiesto da Baroni. L’allestimento ha subito fatto epoca suscitando entusiasmi, ma anche qualche perplessità, come quelle di Franco Russoli, direttore di Brera («quinte elaborate e frammentarie») e qualche attacco feroce, come quello della battagliera Wittgens. Qualche anno fa, una laureanda dell’Università Statale, Maria Cecilia Cavallone, per il lavoro di testi trascrisse e pubblicò una lettera della Wittgens a Clara Valenti, datata 16 aprile 1956. Il testo è di una virulenza memorabile: «Da giovedì, giorno dell’inaugurazione con Gronchi, a sabato, inaugurazione per l’élite culturale milanese, imperversa nel mondo sensibile di Milano la reazione ai Musei del Castello, sistemati come “fiera”, e particolarmente alla indegna esposizione della “Pietà” entro un’edicola che ricorda… un vespasiano!».

Il giudizio della Wittgens restò però minoritario e con il passare degli anni l’allestimento dei BBPR consolidò consensi e prestigio, sino a rivestirsi di un’aura di intoccabilità. Tra i pochi a contestare l’allestimento ci fu Henry Moore, che attaccò duramente l’arca romana usata come basamento e le geometrie dei blocchi di pietra serena che secondo lui disturbavano la vista della Pietà.
Con il tempo, poco alla volta, piccoli interventi dettati da diverse ragioni hanno modificato in maniera profonda il gioco di equilibri organizzato dai progettisti. Ringhiere di sicurezza sugli scalini e un affollamento di nuove sculture arrivate a ricomporre la Tomba di Gaston de Foix, capolavoro del Bambaia. Le foto mostrano un microcosmo profondamente cambiato, al punto che nel 1999 il Comune di Milano bandì un concorso internazionale per una risistemazione della Sala degli Scarlioni. Vinse Alvaro Siza, ma il progetto che prevedeva il ripristino della quota del pavimento originale rimase lettera morta, anche per i veti che subito si alzarono dal mondo accademico. I problemi però restavano. La Pietà era di fatto inaccessibile ai disabili e pagava anche un isolamento che la marginalizzava in ogni senso: paradossale destino per un’opera che era stata acquisita con sottoscrizione popolare.

Ci è voluto un assessore alla Cultura che fosse architetto e docente al Politecnico per sbloccare la situazione. A settembre 2012 Stefano Boeri aprì infatti con determinazione il “fascicolo” di una nuova sistemazione della Pietà. Fortuna volle che immediatamente venne individuata una collocazione ideale in un ambiente affacciato sul grande Cortile delle Armi e che avrebbe dovuto essere destinato a piccolo auditorium. Incaricato del progetto era Michele De Lucchi. Quando si palesò il cambio di destinazione De Lucchi ammette di aver pensato di rinunciare. «Ho detto no tre volte, a muso duro», racconta. «Addirittura mi sono scoperto di una scortesia che non conoscevo in me. Mi dispiaceva intaccare la sala degli Scarlioni e non mi piaceva l’aspetto un po’ impersonale della sala che era stata scelta, un’insignificante costruzione perimetrale lunga e bassa». Che cosa ha convinto De Lucchi alla fine ad accettare? Il fatto di una evidente inadeguatezza dell’allestimento BBPR, innanzitutto. «I visitatori erano costretti ad un percorso molto vincolato e non era possibile vedere l’opera nella sua completezza. Senza girare intorno alla Pietà non si percepisce il dramma anche personale che Michelangelo ha così mirabilmente rappresentato».

Da qui la scelta coraggiosa e innovativa del nuovo allestimento in quello che era l’Ospedale dei soldati della guarnigione spagnola di stanza al Castello (una struttura per altro coeva alla Pietà Rondanini). I visitatori, dopo essere entrati in un piccolo ambiente di decantazione, passano nella grande sala e si trovano la Pietà di spalle. «La schiena della Madonna è quanto di più espressivo e commovente. Michelangelo ha scolpito questa figura con una curva tracciata nel marmo che appartiene a tutte le epoche dell’arte», dice De Lucchi. «Per questo la sorpresa più grande ora è vedere l’opera esposta di schiena e dover girare attorno alla statua per ammirarla in tutta la sua meraviglia».

Tutto il percorso di riallestimento, guidato dal direttore dei Musei Claudio Salsi e da Giovanna Mori, è avvenuto all’insegna di quella coscienza civile che 63 anni fa aveva permesso che l’ultimo capolavoro di Michelangelo diventasse patrimonio della città. Le scelte sono state tutte all’insegna di una sobrietà e di un rigore per mettere al centro in ogni modo non solo la visibilità ma anche il valore culturale e umano di un’opera come la Pietà. Il pavimento in rovere chiaro scelto da De Lucchi riprende quello che secondo i documenti era il pavimento dell’ospedale. Gli affreschi recuperati sulle volte, con i cartigli che compongono il Credo, restituiscono anche una dimensione religiosa al luogo: sopra la Pietà, tra l’altro, c’è il versetto che riguarda l’Ascensione, quasi a richiamare quel movimento “ascensionale” che l’idea compositiva di Michelangelo misteriosamente contiene.

Anche la parte didattica, affidata a Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, è stata realizzata con grande cura, senza che interferisca visivamente sugli equilibri dello spazio. Una guida (Officina Libraria, 8 euro) restituisce al visitatore non solo la storia della Pietà e la sua fortuna, ma anche le ragioni di questo nuovo allestimento. La coda ininterrotta di visitatori all’ingresso è poi il miglior test che rende ragione della scelta fatta: 30mila ingressi nei primi dieci giorni, con una ricaduta positiva anche sui numeri di tutti i musei del Castello.
Nella sala oltre alla Pietà sono esposti il ritratto in bronzo di Michelangelo di Daniele da Volterra e la medaglia che Leone Leoni coniò e inviò a Michelangelo per ringraziarlo della commessa ricevuta per la tomba del Medeghino in Duomo. Una sorta di sigillo ad un’operazione di grande valore civile e culturale.

Written by gfrangi

Maggio 27th, 2015 at 7:37 am

Michelangelo, una rivincita a Milano

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Michelangelo, La Pietà Rondanini, particolare

Michelangelo, La Pietà Rondanini, particolare. Foto di Giovanni Dall’Orto

C’erano più di 800 persone martedì alla presentazione del ciclo sulla Vita di Michelangelo organizzato dal Fai su proposta e progetto di Giovanni Agosti A parlarne lo stesso Agosti, Jacopo Stoppa e Stefano Boeri. A parte il dispiacere personale di non poter seguire un percorso così (27 appuntamenti che percorrono tutta la vita di Michelangelo, qui il programma), per via di incompatibilità con orari di lavoro, a parte l’invito a chi può di non perdere un’occasione così, mi venivano due considerazioni.
Oggi un format di questo tipo, rappresenta qualcosa di molto innovativo, di coraggioso e non scontato. Conferma di richiamare un pubblico largo, fa formazione e divulgazione, propone un percorso che costruisce vera conoscenza e non conoscenza spot, ed è un’opportunità per chi studia di diffondere il proprio sapere e di verificare la propria capacità divulgativa. Dove voglio arrivare? Che questa è una pratica intelligente alternativa al rito sempre più stanco e insulso delle mostre. Immaginare cioé dei percorsi, che come è dimostrato sono capaci di grande impatto sul pubblico, e che magari si concludano con una mostra, anche piccola, ma che diventa “grande” e importante proprio per il percorso che l’ha originata.
A Milano (ed è la seconda considerazione che volevo fare) ad esempio questo corso avrebbe potuto concludersi idealmente con quella stupenda iniziativa che Stefano Boeri aveva immaginato e messo a punto e che la giunta Pisapia, dopo il suo allontanamento, ha disgraziatamente messo da parte: l’esposizione temporanea della Pietà Rondanini a San Vittore. Era una grande sfida, di quelle capaci di scuotere una città, di ridarle vigore civile, di affermarne un’immagine più interessante e dinamica nel mondo. Oltre che di ricordare a tutti quell’impressionante capolavoro che giace semi dimenticato. A chi pensasse che Michelangelo oggi sia qualcosa di estraneo alla città, quegli 800 nell’Aula Magna della Statale sono la migliore risposta.

Written by gfrangi

Ottobre 6th, 2013 at 8:45 am

Michelangelo in Duomo e altri pensieri domenicali

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C’è una ragione anche storica perché la Pietà Rondanini faccia tappa in Duomo, dopo San Vittore e prima della sua nuova sistemazione, all’Ospedale degli Spagnoli. Sarà posizionata, sempre che nessuno si metta di traverso, nel transetto destro davanti alla tomba di Gian Giacomo de’ Medici, detto il Medeghino. Figlio di un ramo minore dei Medici, si costruì con spregiudicatezza una straordinaria carriera politica e militare. Quando morì suo fratello che era diventato papa, Pio IV (loro sorella era invece la mamma di san Carlo, Margherita Medici di Marignano), aveva chiesto a Michelangelo, come racconta Vasari, di progettare la tomba da sistemare nel Duomo milanese. Michelangelo non riuscì a realizzare la commessa, ma in compenso avrebbe realizzato il disegno della tomba monumentale, a cui l’autore. Leone Leoni, si è attenuto. Quindi la presenza seppure per breve tempo, della Pietà, coeva al monumento del Medeghino, risarcisce in un certo senso per quella mancata realizzazione.


Vista la piccola, bella mostra in omaggio a Giulio Einaudi realizzata dal nipote Malcom nelle sale laterali di Palazzo Reale a Milano. Una sala è tappezzata da tutte le copertine dei Coralli, la collana di narrativa iniziata con Pavese nel 1947. 312 libri (non solo copertine) incorniciati e sistemati con grande ordine.
A parte la bellezza grafica che contrassegna senza cadute 40 anni di storia, è affascinante l’intuizione, dopo che l’inizio era stato affidato a un illustratore, di abbinare un’opera d’arte a ciascuno titolo. Con scelte a volte di grande ricercatezza: come il meraviglioso e millimetrico particolare preso dal quadro dei Proverbi di Brueghel per Il Coltello di pietra di José Revueltas (1948)

Bello l’estratto dall’introduzione del nuovo libro di Camille Paglia uscito negli Usa (Glittering Images: a Journay Throught Art from Egypt to Star Wars), di cui avevamo già letto un’intervista sul Corriere. Riporto: «Benché sia atea, rispetto tutte le religioni e le prendo seriamente, come vasti simboli che contengono una verità profonda sull’esistenza umana. Anche se nel suo nome si è fatto del male, la religione stata una forza enorme di civilizzazione nella storia del mondo. Schernire la religione è una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione rachitica. Eppure, questa posizione cinica è diventata di rigore nel mondo artistico, un ulteriore sintomo della banale superficialità di tanta arte contemporanea». Dall’altra parte «i conservatori a loro volta, hanno peccato contro la cultura. Nonostante i loro squilli di tromba per un ritorno dell’educazione al canone occidentale, si sono comportati come filistei di provincia rispetto alle arti visive».

Written by gfrangi

Gennaio 20th, 2013 at 3:29 pm

Appunti di Natale, tra San Vittore e Bellini

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Ieri Messa a San Vittore, celebrava il Cardinale. Davvero emozionante, con il coro (il Coro amatoriale del Reparto Trattamento avanzato La Nave di San Vittore) che cantava a squarciagola i canti di Natale, e i detenuti che venivano aldiqua delle sbarre per prendere la comunione con una semplicità da bambini. Sono le occasioni in cui capisci che se l’arte non sa misurarsi con tutto l’umano che pulsa e incalza lì dentro, è solo inutile e un po’ cinica accademia. In quel posto arriverà la Pietà Rondanini, e non c’è posto più “giusto” per quel capolavoro. Non è solo un piccolo atto di riparazione verso un luogo e un’istituzione che questa presunta civiltà ha abbandonato in modo indegno a se stesso. È anche un richiamo a capire quale sia il senso del fare arte, ma anche il senso del fruirne (questo secondo ci riguarda tutti). Sarà, speriamo, uno dei grandi temi dell’anno che verrà.

Tra i libri ricevuti per Natale, ne spicca uno. È “Giovanni Bellini’s Dudley Madonna” di Antonio Mazzotta. È dedicato a una Madonna dipinta da Bellini intorno al 1508, la cui storia viene tutta ricostruita con un’affascinante dovizia di particolari. Ma il bello di questo libro è l’intelligenza con cui è stato costruito, con una serie di particolari e di confronti emozionanti, enfatizzati dal formato grande che ai libri d’arte certamente giova. La Madonna che in dolcezza fa la gara con il paesaggio dello sfondo, tiene tra le braccia un Bambino eretto, tenero ed energico nello stesso tempo. Ha una posa strana ma non del tutto inedita per Bellini, con la gamba sinistra tesa e quella destra contratta, come se fosse pronto a scattare in piedi. La Madonna con una mano sembra pronta a far da “scalino”al piede, con l’altra, più protettiva, già si prepara a tenere il Bambino comunque stretto a sé. È una dialettica stupenda quella che Bellini sa creare in questa tavola, tra la posa delicatamente fluida della Madonna (con quel movimento a spirale sottolineato da Mazzotta) e quella invece forte tutta rettilinea del Bambino. Sono i particolari, oltre alle parole, a raccontare il quadro: quello di pagina 10, con la mano della Madonna che sfiora il piedino di Gesù; quello di pagina 16, dove un close up ardito e molto efficace conferma la forza del Bambino, che ha una saldezza quasi pierfrancescana; a pagina 72, dove il confronto tra il volto della Madonna Dudley e quella di Detroit (1509) svela il mestiere di Bellini, che nella costanza trova sempre più profondità: stesso taglio delle labbra, stesso punto di luce negli occhi, stesse ombre soffuse, stessa impercettibile inclinazione che comunica una calma dolcezza.

Written by gfrangi

Dicembre 25th, 2012 at 10:30 pm

La Rondanini a San Vittore. Risposta a Bertelli

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(Queste mie righe sono state pubblicate sul Corriere del 23 dicembre)

Spiace che un personaggio autorevole come Carlo Bertelli non abbia capito l’importanza della scelta di portare la Pietà Rondanini a San Vittore. Bertelli giustamente vede nella Pietà un’opera simbolo, come lo sono la Primavera del Botticelli per gli Uffizi e la Gioconda per il Louvre, ma tralascia una differenza sostanziale: mentre quelle due opere citate attraggono e sono viste ogni anno da milioni di visitatori, la Pietà è un capolavoro dimenticato: quanti milanesi l’hanno vista? Quanti sanno dov’è? Questo accade anche per una scelta espositiva di grande eleganza ma molto escludente, che ha isolato la Pietà in un angolo del percorso espositivo del Castello invece di farne un perno, anche in funzione di richiamo. Portare la Pietà a San Vittore quindi serve a riaccendere i riflettori dell’attenzione e della coscienza collettiva su questo capolavoro, mettendola in connessione con un altro luogo ferito e dimenticato della città. È vero, la Primavera e la Gioconda non verrebbero mai mosse dalle loro sedi espositive. Ma anche la Pietà non viene portata via da Milano: e lo spostamento è funzionale a restituirla alla città in senso finalmente pieno. Quanto ai rischi, proprio in queste settimane abbiamo visto un’altra opera di Michelangelo, il Davide Apollo del Bargello, volare Oltreoceano senza che nessuno abbia protestato. E lo stesso Louvre in un anno ha «prestato» due capolavori di Leonardo: la delicatissima tavola con la Vergine delle Rocce per la grande mostra londinese e, proprio in queste settimane, la Vergine con Sant’Anna, altra tavola reduce da un complicato restauro, in occasione dell’apertura della nuova dependance del grande museo a Lens, nel Nord della Francia.Quanto al tema della ricezione da parte dei detenuti che affollano le celle di San Vittore, credo che la risposta migliore sia venuta dalle lettere pubblicate proprio dal Corriere qualche giorno fa: dimostrano una consapevolezza sul valore della Pietà e sul suo senso che spesso manca a critici e intellettuali. Per quanto riguarda i tanti musulmani detenuti, è bene ricordare che la figura di Maria e di Gesù sono presenti nel Corano e che per la figura di Maria l’Islam nutre rispetto e anche venerazione: è l’unica donna a cui viene dato l’appellativo di «Siddiqah», colei che è sempre veritiera. Quindi la Pietà nel cuore di San Vittore può diventare anche un vero punto di dialogo, di incontro.

Written by gfrangi

Dicembre 24th, 2012 at 1:40 pm

Pietà Rondanini, quelle voci da dentro

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Non voglio aggiungere molte parole a questi testi. Sono presi dal Corriere della Sera di ieri. Sono voci di detenuti che commentano la decisione di portare la Pietà Rondanini nel carcere dove stanno rinchiusi: San Vittore. Mi preme solo sottolineare il valore di un servizio giornalistico che vuole intelligentemente rispndere a chi aveva detto che a San Vittore la Pietà non sarebbe stata vista da “nessuno”. Il Corriere ha dato la parola ad alcuni di questi “nessuno”.

Come l’abbraccio di mia madre. «L’arrivo della Pietà Rondanini a San Vittore mi evoca tante emozioni. Ho ben presente l’immagine: Maria che tiene tra le sue braccia Gesù morto. Non posso non associarla al pensiero di mia madre che fin da piccolo mi ha sostenuto sempre, senza lasciarmi mai solo neppure nei momenti più difficili e cupi. Per quanto drammatica è un’immagine che racchiude un’immensa dolcezza: una madre vicina al figlio nell’ora della fine. Penso che nessuna espressione di pietà arrivi a questa. Vorrei ringraziare chi, con l’idea di portare Michelangelo qui, ha dimostrato per noi una pietà analoga pur non essendo noi figli suoi».
Davide

Quale posto migliore. «Pietà: sentimento di compassione suscitato da dolori altrui, misericordia, avere pietà di qualcuno, provare pietà o invocarla, far pietà, ma anche atteggiamento di devozione, culto, pratiche di pietà, la Pietà di Michelangelo, la «Rondanini». Ecco, Maria che sorregge Cristo morto che le scivola tra le braccia rievoca tutto ciò. E allora quale posto migliore di San Vittore perché un uomo si chieda cosa sia, la pietà, e quanto di questo sentimento possiamo provare o suscitare nella vita, al cospetto nostro e degli altri. Pietà che trasuda dal marmo gelido di una statua: non possiamo che fermarci e riflettere. Grazie».
Nando


Maria piange per tutti noi.
«Questo è il ventiseiesimo Natale che non passo con mio padre, mancato quando ero piccolo, e il quinto senza la mia bambina. Personalmente non ho mai avuto modo di vedere la Pietà Rondanini prima d’ora. Ma già le foto che ho visto mi hanno detto molto: è il pianto della Madonna per suo figlio morto, e la mia fede (perché sono credente, nonostante tutti i miei errori) mi fa pensare che quella madre pianga anche per noi. Sarà collocata nella rotonda centrale di San Vittore, dove ogni domenica viene celebrata la messa, e penso che renderà il luogo un po’ più sacro».
Fabio

Il fuori e il dentro. «La ristrutturazione del Castello Sforzesco ci darà il privilegio di avere qui a San Vittore, per un po’, la Pietà di Michelangelo. Un’idea bella soprattutto perché unita alla possibilità, per chi vuole, di venire a vederla qui in carcere: sono rari i contatti tra questi due mondi, il «fuori» e il «dentro», e perciò tanto più preziosa è questa occasione. In realtà «tra» detenuti non è così strana, la pietà. Succede, per esempio, quando arriva un «nuovo giunto» e si cerca di accoglierlo ascoltando la sua storia davanti a un caffè-e-sigaretta. Il giorno saranno i volontari, psicologi, assistenti sociali, a impegnarsi per andargli incontro: estranei che si aiutano, spesso, più che vecchi amici. Dovremmo tutti ricordarcelo anche fuori».
Peter


Promemoria di Pietà.
«Un’opera di Michelangelo nella rotonda di San Vittore: non so cosa ne pensino fuori, ma credo che niente sia casuale. La Pietà ci parla di Gesù, crocifisso tra due malfattori come noi: lui, inchiodato e non legato, ebbe la fine più atroce. È ovvio, nessuno di noi può paragonarsi a Gesù. Intanto però la «pietà» arriverà a San Vittore sotto forma di opera d’arte. È un inizio e un’occasione doppia. Per chi verrà da fuori ad ammirarla: perché oltre alla statua vedrà, forse per la prima volta, anche un carcere. E per noi che in carcere ci stiamo: promemoria di pietà per noi stessi e per le vittime dei nostri reati».
Lenny

Written by gfrangi

Dicembre 13th, 2012 at 11:48 pm

Immaginate, la Pietà Rondanini a San Vittore

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Il carcere di San Vittore visto dall’altro. La Pietà Rondanini verrebbe messa proprio al centro, nel Panopticon da cui si dipartono i raggi.

Quando sabato ho letto su Repubblica del progetto di portare per qualche mese la Pietà Rondanini a San Vittore mi sono detto che non ci poteva essere, in questo momento, un’idea più bella per Milano. La Pietà messa al centro panopticon da cui si partono i sei raggi e dove ogni domenica si dice la Messa, è un gesto dove la dimensione umana e quella artistica arrivano a coincidere. Non c’è bisogno di spiegare un granché: ma è un’operazione in cui vedo un doppio disvelamento. Innanzitutto il disvelamento della condizione disumana in cui oggi sono stipati mille e passa detenuti a San Vittore, cioè in un carcere che è nel cuore della città. Dall’altra il disvelamento di uno dei più grandi capolavori della storia della scultura, che oggi se ne sta infossato e dimenticato dietro quel malaugurato muro, al Castello Sforzesco.
Non voglio aggiungere altro, perché sarebbe solo retorica: ma ipotizzare la Pietà con quella Madonna inarcata a reggere il corpo del figlio in quel preciso luogo, incrocio di migliaia di storie di passione, mi sembra un’immagine di una potenza e di una commozione che ha pochissimi paragoni. Mi auguro davvero che Milano sia determinata e appassionata nel sostenere questo progetto.

Written by gfrangi

Ottobre 29th, 2012 at 2:29 pm

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Come spiegherei la Pietà Rondanini a dei ragazzi di 14 anni.

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Una frequentatrice del blog ha posto il problema: i suoi allievi in visita ai musei del Castello Sforzesco, sono rimasti incantati davanti al Barnabò Visconti e sono rimasti invece indifferenti davanti alla Pietà Rondanini. L’ho sentita un po’ come una sfida e provo a dire come l’affronterei.
aaagambePartirei ad altezza d’occhio (il loro). Dalle gambe di Gesù, la parte “conclusa” dell’opera. Farei notare la meraviglia di quei ginocchi, di quelle rotule scolpite senza una sbavatura. Farei notare come la gamba cada, se non morta, addormentata, con i muscoli rilasciati. La parte interna della coscia in particolare colpisce: asciutta, affusolata, perfetta.

Farei notare e memorizzare quella perfezione che non è una perfezione astratta, ma è quintessenza della bellezza che l’uomo è, tant’è che vien voglia di accarezzare, di sentire se lì la vità davvero c’è… (è gamba di un atleta, un salttore in alto potrebbe averne una così…)

A questo punto chiederei loro, prima di alzare lo sguardo, di chiudere gli occhi e di immaginare come avrebbe potuto essere quella scultura se fosse continuata  tutta così: “Michelangelo, ragazzi, è uno che ci sapeva fare come nessuno altro…”

Riaprendo gli occhi si trovano ad affrontare la realtà di una scultura che ha imboccato un’altra strada: è il passaggio più delicato. Il passaggio che produce incomprensioni.

aaabracciojpgÈ un passagio che non va affrontato di petto, ma preso lateralmente. Cioè da quel braccio sospeso sulla destra (con la vena che pulsa…) che indica una svolta drammatica nelle vicende di questa scultura. La figura cui appartenevano quelle gambe, nella prima versione era spostata verso la nostra sinistra, pendeva da quella parte, sempre con quel senso di corpo a peso morto. Poi l’artista ha preso una decisione estrema, che si potrebbe giudicare inspiegabile sapendo ormai, avendolo sprimentato, quasi tattilmente sulle gambe, che quell’artista ha la capacità di render vivo il marmo. Ma una ragione evidentemente ci doveva essere.
E qui chiederei loro di provare a formulare qualche ipotesi, senza togliere lo sguardo da quel marmo diventato lassù così nebuloso. Può essere che qualcuno azzecchi una risposta di questo tipo: che Michelangelo voleva legare di più la mamma e il figlio, far vedere quanto bene li unisse e che poi si trovò a non poter chiudere il lavoro per cause di vecchiaia. “Fuocherello, quasi fuoco: ragazzi”.

Le cose potrebbero essere andate così: Michelangelo ad un certo punto, mentre vecchissimo lavorava a questa scultura aveva capito con chiarezza l’idea che l’aveva generata e a cui doveva “obbedire”. E qual era questa idea? Che quando un figlio muore, non si dà che una mamma sia una spettatrice. È una a cui muore qualcosa dentro. Quindi bisognava annullare distanze, fare dei due personaggi quasi un personaggio unico, per dire questa coincidenza di destino (m’è venuto in mente che Michelangelo ha reso in scultura quell’idea straziante che abbiamo visto nel recente funerale delle vittime del terremoto, quando la bara di un bambino è stata appoggiata sopra quella della mamma: un “essere insieme”, irriducibilmente).
aaavoltiSiamo al punto: se l’idea era questa, come si poteva renderla in scultura? Rendendo potente quel senso di fusione tra le due figure, quasi calamitate una dentro l’altra. Farei osservare il particolare della mano della mamma che sembra infilarsi nel corpo del figlio. O quella del mento che s’appoggia con delicatezza sulla testa di Gesù.
Impossibile descrivere per filo e per segno quell’idea: sarebbe diventata qualcosa di banale. Invece quell’idea ha bisogno di restare nell’indistinto, di restare inafferrabile nel suo mistero. Per questo il non finito di Michelangelo è un passo concettulamente oltre il suo finito. Racconta di più, in larghezza e in profondità.

2154247703_8aedaba176Infine farei notare quei due grandi archi che disegnano la scultura vista sul lato destro (quelle disegnato dalla schiena inarcata di Maria) e quello di visto dal lato frontale, disegnato  dalla gamba incurvata e dal braccio “rifiutato”. È come se il blocco di marmo avesse preso le funzioni di un grembo, di un contenitore perfetto per tenere dentro due esseri inscindibili.

Per questo alla domanda madre, che ingombra la testa dei ragazzi: comunque sia questa è opera lasciata a metà strada. Il Barnabò Visconti, invece, è là tutto bello, concluso in ogni dettaglio. Non voglio forzare risposte. Ma dico questo: Ragazzi, guardate bene quei due volti. Sono loro a depositarsi nei vostri sguardi, nonostante le riserve che poete avere. E quando vi capiterà nella vita di scorgere momenti di struggente tenerezza, nel dolore ma anche nella gioia, tra una madre e un figlio, vedrete che la memoria corre subito qui.

Written by giuseppefrangi

Aprile 18th, 2009 at 10:58 am