Iniziava (nella sigla) con un richiamo ad un’opera famosa di Maurizio Cattelan The Young Pope di Sorrentino. Un Cattelan (quello della Nona ora) animato, perché la scultura è “completata” con la caduta del meteorite che arriva a colpire papa Wojtyla. Un inizio tra scanzonato e choc, per un film che senza darla troppo ad intendere alla fine prende terribilmente sul serio quell’opera-metafora. In sostanza: neanche papa Wojtyla con il suo esercizio di potenza mediatica e con la sua autorevolezza planetaria sarebbe riuscito a restituire una ragion d’essere alla chiesa davanti agli occhi degli uomini di questo tempo. Una chiesa costretta ad esercizi di autoccupazione per darsi la certezza di esistere. Si chiede allora Sorrentino, che papa potrebbe riuscire nell’impresa? Di qui l’invenzione della figura di un pontefice assolutamente improbabile. Che entra in scena quasi per un errore della storia, un americano che prende il nome di Pio XIII, la cui ipotesi di lavoro è quella di tornare a rinchiudersi dentro la roccaforte del passato, vista la distanza incolmabile con la modernità. Pio XIII azzera la mediaticità di cui GPII si era servito per di colmare quella distanza. Azzera in realtà anche l’attenzione sociale, la visione della chiesa a “porte aperte” che è invece la forza e la novità di Papa Francesco. Si chiude nel recinto, non per difendersi, ma essere fedele a se stesso. Eppure nell’improbabilità di questa figura poco alla volta si fanno largo elementi che riaprono un’apparenza di relazione con il mondo. Pio XIII non nasce papa ma matura questo suo destino passo dopo passo, facendo i conti con tutti i buchi neri della sua storia personale (emblematica nell’ultima puntata la scelta consapevole di prendere un segretario omosessuale: se te lo chiedo, gli fa capire Pio XIII, è perché anch’io sto cambiando). In questo suo non essere papa a priori, ma di diventarlo senza fare sconti alle proprie inquietudini, c’è qualcosa che lo riporta dentro il nostro tempo e che soprattutto gli restituisce un’imprevista libertà. Il film di Sorrentino (un grande film, non c’è dubbio) non guarda e non giudica il cattolicesimo da fuori, ma lo segue e cerca di capirlo da dentro. Da dentro i suoi dubbi, le sue paure, le sue incertezze. Allo stesso modo, in fondo, anche l’opera di Cattelan non era affatto un’opera ostile. Era un pensiero libero e drammatico sull’ardito conpito di essere papa nei tempi moderni.
(Ma bisogna ricordare che chi era arrivato per primo a metter a tema il grande dramma dell’essere papa oggi, senza infingimenti e senza buone maniere, era stato Francis Bacon…)
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Cattelan, Sorrentino e il destino dei papi
Abbuffata di mostre alla torinese
Una giornata torinese con Angela, Teo, Ale e Carolina. Non ci siamo fatti mancare niente…
Castello di Rivoli. Sempre così bello e così vuoto… un vero delitto non riuscire a farlo decollare. Siamo lì per Sophie Calle, per le recensioni lette e per una bella e dettagliatissima mail ricevuta da Giulietta Riva dopo la visita alla mostra. Che è bellissima, disposta con molto amore e molto pudore, con piena consapevolezza della delicatezza del tema e del rischio di cedere a un voyeurismo. Souci è la parola chiave, l’ultima detta dalla mamma di Sophie prima di morire, che è una parola tenera e imprendibile. Souci è preoccupazione, inquietudine (ma la madre la pronuncia con un “non” davanti: non dovete preoccuparvi per me); ed è anche prendersi cura, avere a cuore. Ricamata sulle gentili tende divisorie tra le stanze, rievocata ovunque e in tutte le forme, è un po’ la risposta all’immagine sempre ritornante della/delle tombe. Souci è quell’alito alito di tenerezza che sopravvive alla morte della madre e che è così reale, da prendere questa forma di percorso/mostra. E diventando addirittura fatto pubblico, non più privato. Bellissima mostra, non perdetela. Dimostra quanto gli artisti di oggi sappiano spesso inoltrarsi nelle fibre più intime e segrete della vita. Non solo della loro.
(A margine: la mostra si apre con i video già noti girati da Sophie Calle a Istanbul, filmando cinque persone semplici che per la prima volta vedono il mare, pur abitandovi a pochi chilometri. Mi viene in mente quella pagina stupenda di don Giussani in cui immaginava lo sguardo di un uomo che avesse la ventura di nascere con la coscienza già di un adulto. Il video è quella “cosa” lì, quella commozione lì).
Al Castello c’è pure Manifesta Intenzione, una rassegna dedicata al “disegno in tutte le sue forme”. Non mi soffermo, ma la sala finale con i meravigliosi video di Kentridge alle prese con i disegni da sola vale la visita. Si capisce che per disegnare si deve essere un po’ maliardi.
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Gam. La sorpresa della giornata è la mostra su Lichtenstein. “Opera prima” (titolo della mostra) significa che è un’indagine sulla genesi delle sue opere, e quindi ancora una volta sul disegno e sul pensiero che vi sottostà. Sorpresa, perché di Lichtenstein sembra di aver visto anche troppo. È tutto sempre così dichiarato, sempre estrinseco, anche programmaticamente piatto, che non si capisce cosa ci sia da scoprire. Invece c’è da scoprire la genesi di immagini che diventano semplici grazie ad un processo molto determinato e lucido di semplificazione. Lo spazio dentro nel quale opera prima di essere tela è una specie di cella, riquadrata dentro i fogli di carta, in cui, come lui diceva, “gli oggetti sono segni da organizzare, collegare e ricostruire in una visione unificata”. E, ovviamente, assolutamente bidimensionale. Oserei sostenere che il cantiere delle immagini in Lichtenstein è più affascinante delle immagini finali. È affascinante il percorso di strutturazione delle immagini, che è un percorso per fare “quadrare” l’opera, accettando tutta le complessità e le implicazioni connesse, ma senza mai “complicare” l’immagine. L’apparenza volutamente effimera dell’esito, in realtà nasconde un lavoro di messa a fuoco compositiva, che probabilmente ne spiega l’energia iconica.
Sono tanti i cantieri interessanti di cui siamo resi partecipi. Il più bello, per me è quello per Shipboard girl (immagine qui sopra), una sua celebre opera del 1965. Il “separation drawing for red”, cioè l’emersione grafica delle sole parti che nell’opera finale dovevano andare in rosso, da una parte documenta il rigore del percorso di Lichtenstein, dall’altra lascia pensare che il non detto, che il rosso solo evocato, che il sorriso lasciato a mezza bocca, sia alla fine qualcosa di più compiuto (nel senso di più sinteticamente semplice) che non l’immagine finale.
Alla Gam anche Cecily Brown. È una delle esponenti più in vista di una nuova figurazione. C’è in lei un mix di carnalità che si scioglie in lirismo selvaggio. Certamente interessante, vitale, anche coraggiosamente oltranzista. Non so quanto alla fine un po’ avvitata su se stessa (è un po’ il destino di tutti i “baconiani”). Ci voglio pensare su…
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Infine Shit and Die, la mostra curata da Cattelan in occasione di Altissima e allestita a Palazzo Cavour. Francamente deludente, vecchia per quell’eclettismo cercato a tutti i costi, alla fine abbastanza confusa anche nei suoi tentativi di richiamare componenti dell’antropologia torinese. Insopportabile a tratti in quei rigurgiti di un nichilismo che ha fatto il suo tempo. Molto più magico, bello, inquietante e anche tenero, il Cattelan visto la mattina nelle raccolte di Rivoli con il bambino (lui stesso?) con le mani inchiodate al banco con due matite.
Tre pensieri sul meraviglioso Papa Francesco
Il primo pensiero mi viene da questa foto (cliccate sopra l’immagine per ingrandirla). Di una bellezza da restare senza fiato: complimenti all’autore, Dan Kitwood. Bella l’immagine ma straordinaria la forza del gesto di Papa Francesco, in una San Pietro che sembra oscurata dal buio del Venerdì Santo, con la pianeta rosso sangue e le scarpe da parroco del mondo. Si percepisce l’intensità di affezione per il Cristo in croce, il senso di immensa gratitudine per una salvezza avvenuta attraverso quel sangue versato. C’è la dimensione di un perdono arrivato davvero e arrivato per grazia.
Una postilla a questa immagine: chiaro, io non posso non pensare al papa colpito da una meteorite di Maurizio Cattelan (lo ricordo nel cuore della Sala delle Caritidi, vuota, appoggiato su un tappeto rosso che copriva l’inetro pavimento). Anche quel Papa aveva una croce tra le braccia, e non credo affatto che l’intenzione di Cattelan fosse né beffarda, né blasfema. Identificava un papa da battaglia, come Wojtyla fu, un papa condottiero. Papa Francesco è diverso. È un papa innamorato, che sente la tenerezza di Dio. E se ne lascia abbracciare. In un certo senso questa foto archivia Cattelan.
Il secondo pensiero mi viene da una frase incredibile che il papa ha rivolto ai sacerdoti di tutta la chiesa. La riporto: «…Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini». (qui il discorso integrale) L’odore delle pecore! C’è tutto in questa indicazione, c’è l’amore all’altro che è fatto di contiguità, di prossimità non teorica ma fisica, corporale; c’è condivisione reale di destino. È l’antica immagine del buon pastore che ha la pecora sulle spalle, che se ne fa carico non per eroismo ma per amore. Nessuno ci aveva mai pensato, ma a quel pastore resterà sempre addosso “l’odore delle pecore”. Ed è la cosa che lo rende contento. Luca, 15: «…ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta».
Ultimo pensiero, un po’ malizioso. Dopo Pasqua si svelerà finalmente il progetto elaborato per il Padiglione del Vaticano alla Biennale. Si sa che il tema è l’inizio del Genesi, si sa che il sito è quello che nella Biennale 2011 ospitava il padiglione… dell’Argentina. Ma mi sorge una domanda: a questo papa gliene importerà qualcosa che il Vaticano sia alla Biennale? Non riesco a trovare punti di contatto tra il suo modo d’essere e il mondo che ha espresso il bisogno di “legittimarsi” portando grandi artisti sotto la propria sigla alla Biennale. Papa Francesco è disomogeneo ad ogni intellettualismo, non ha complessi. Secondo me sarebbe del tutto d’accordo con questo auspicio di Paolo VI: «… come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri…».
In formule accessibili: immagino i murales, immagino Diego Rivera… Oppure presumo che si ritroverebbe nel lavoro fatto da Gianriccardo Piccoli per la chiesa di Portovejo, una cittadina in Equador. Una Pentecoste “in formula accessibile” (ma contemporanea). Ma non penso proprio che queli come Piccoli abbiano chance di entrare nell’elite degli invitati alla Biennale…
Così parlò Kiefer, il saggio
Anselm Kiefer rilascia un’intervista a Repubblica alla vigilia della presentazione della sua mostra alla Fondazione Vedova, a Venezia. Titolo: “Salt of the earth”. Il titolo deriva dal luogo dove espone: i Magazzini del Sale. E dà pretesto a Kiefer per un ciclo in cui la riflessione sulla potenza alchemica della pittura prende il largo. È l’intervista di un artista che non cerca spettacolarizzazioni della propria opera. E che quindi propone frammenti di vero pensiero. Come questo: ««Un artista è sempre alla ricerca di nuove forme, giacché si contrappone sempre all’ esistente, cercando ogni volta un nuovo ordine del mondo. Oggi però molti artisti sfruttano la ripetizione, riducendo l’ arte a semplice divertimento. La ripetizione è senza sorprese. Se io lavoro duramente alle mie opere,è solo per imbattermi di tanto in tanto in una sorpresa».
Kiefer liquida Damien Hirst come artista ostaggio del mercato, e assolve Maurizio Cattelan, come artista furbo ma capace di sorprese: «Io non cerco mai di provocare volontariamente il pubblico. Cattelan invece sì, anche se a volte i suoi risultati possono essere molto interessanti. A me, ad esempio, era molto piaciuta la sua Hollywood sulla discarica di Palermo».
Ma quanto la sa lunga Cattelan
L’ultimo numero di Domus a direzione Mendini ha la sorpresa di 32 pagine “condirette” con Maurizio Cattelan (qui le foto della presentazione del numero a Milano). Le 32 pagine sono un Domus in miniatura e si aprono con un editoriale dell’artista. Più che un editoriale è un elenco di pensieri, in apparenza banali. In realtà, nient’affatto banali. C’è un realismo, che oggi è un bene raro in chi pensa. Me ne sono segnati alcuni. In neretto, quello che più mi piace…
Se dobbiamo solo invecchiare e morire perché siamo qui?
Una tentazione non può essere scambiata per un opportunità.
L’arte puo produrre realtà?
La ripetizione è una forma di cambiamento.
I fatti non smettono di esistere perché li si ignora.
L’universo è fatto di storie non di atomi.
Una conclusione è solo un luogo in cui ci si è stancati di pensare.
Si può pensare al nulla?
Per avere dei bei ricordi ci vuole più di una buona memoria.
Sono parte del problema non la soluzione.
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Infine, le 32 pagine firmate Cattelan si chiudono con la foto di Gabriele Basilico in Piazza Affari. Quando si dice un grande fotografo… Immagine presa da dietro, sagoma perfettamente incastrate nel volume dei palazzi disegnati da Lancia, continuità di linee sempre perfettamente rette, e compattezza dei grigi. Il dito sbuca potente, solo contro il cielo di latte, drammatico, con il marmo già soffocato dalla fuliggine milanese.
I più e i meno di inizio 2011 (2)
Meno. La casa del Parco (casa Tognella, 1946-53), capolavoro di Ignazio Gardella, è in restauro, fasciata dalle impalcature. Impalcature un po’ più alte del necessario. Dal figlio Jacopo scopriamo che vogliono farle un sopralzo. Autolesionismo demenziale frutto della nuova ignoranza milanese. Dopo aver distrutto la metropolitana di Albini e di Bob Noorda (un capolavoro), si mette mano anche al gioiello di Gardella… A due passi dalla Triennale: speriamo che Davide Rampello alzi un po’ la voce. C’è anche una petizione da firmare (azz.. solo 237 a oggi). E un blog sul quale tenersi informati
Più. La giunta di Milano s’è lavata le mani della mano di Maurizio Cattelan. Nel senso che ha rimandato la decisione di sei mesi, cioè alla giunta che verrà. Un buon segnale, perché Cattelan poteva finire nel tritatutto elettorale, invece l’ha scampata.
Più. Spostandosi a Roma. A pagina 210 dell’intervista al Papa uscita prima di Natale, Benedetto XVI a proposito della presunta ostiulità della chiesa verso le donne, dice che a Roma c’è una chiesa dove i quadri hanno tutti soggetti femminbili. Non dice quale. Chi sa qual è?
Meno. Ho scoperto che Paolo Portoghesi ha progettato una chiesa per il paese umbro in cui risiede, Calcata, dedicata ai Santi Cornelio e Cipriano. Si dimostra che chi costruisce belle moschee non può costruire belle chiese. L’enfasi della struttura a stella che si alza come un cappello da cuoco sembra una macchina scenica per uno spettacolo. Anche a Salerno, qualche anno fa aveva fatto ricorso a questa stanca reminiscenza borrominiana. Ma Borromini è uno di quegli autori cui è sempre pericoloso appoggiarsi… i suoi equlibri, un po’ esoterci, li conosceva solo lui…
Più (?). Ho scoperto anche che Sigmar Polke prima di morire ha realizzato delle vertate per una chiesa evangelica di Zurigo, il Grossmuenster. L’agata è l’elemento e la forma portante. Di una bellezza molto alchemica. A naso però mi sembra più grande il tentativo di Richter nella Cattedrale di Colonia.
Per favore, non togliete la mano di Cattelan da Piazza Affari
Ha una forza iconica impressionante la mano mozzata di Maurizio Cattelan in piazza Affari a Milano (qui una foto). Sistemata su un plinto alto almeno una decina di metri, disegnato con sapienza in armonia con i motivi architettonici della piazza, ha una semplicità e insieme un’energia che dialettizza con gli spazi un po’ metafisici della piazza. Non si pensa al significato ironico del monumento, ma si resta sorpresi dallo spiazzamento che provoca, dal corto circuito di quel marmo bianco, come di una classicità resa monca. Cattelan dimostra una grande capacità di regia dello spazio; ne sente lo spirito, ne interpreta gli equilibri, li metabolizza e li scavalca senza umiliarli.
Una bella piazza, disegnata con la sapienza architettonica che l’Italia degli anni 30 aveva ancora connaturata nel suo Dna, diventa in tutto e per tutto una piazza contemporanea. Energia di oggi calata dentro un pezzo di tessuto di storia che è nostra storia.
Per favore, non togliete Cattelan da quella piazza.
(Cattelan ha avuto poi l’intelligenza di proporre una sfida: sa la scultura se ne va, lasciate il plinto, come base per altri che vogliano accettare la sfida di mettere le loro opere in mezzo alla piazza. Come sulla colonna di Trafalgar Square a Londra. Almeno questa sfida raccogliamola!)
Cattelan, il bambino che sono io
Bellissima l’intervista di Francesca Bonazzoli a Maurizio Cattelan, apparsa sul Corriere. Qui la potete leggere in integrale. Io ne ho fatto uno smontaggio a temi (così bella da chiedermi se queste parole non siano un compimento dell’opera stessa. Cioé necessarie alla loro esistenza. Comunque colpisce il venire a galla dell’anima bambina di Cattelan: questa è la sua forza)
Un trittico perfetto «Molti dei miei lavori migliori sono frutto o di errori o di situazioni come questa dove sei costretto a trasformare in positivo gli imprevisti. Alla fine le tre opere che esporrò a Palazzo Reale sono un trittico perfetto, la mia famiglia autobiografica: il padre, la madre e il figlio. Se mi fossi seduto a tavolino non mi sarebbe venuta in mente una mostra così». Ha messo in mostra la sua famiglia? «È una famiglia disfunzionale, come è stata la mia: il padre fa il Papa; la madre sostituisce il figlio in croce e il figlio non riesce a comunicare se non battendo il tamburo».
Il Papa colpito dal meteorite. «La statua di papa Wojtyla è un lavoro del 1999 che era nato in piedi, ma non mi convinceva. A una settimana dalla mostra cominciai a pensare a come distruggerlo. Alla fine mi venne l’ idea del meteorite e fu come un’ illuminazione: capii che avevo abbattuto la figura del padre. Questo è quello che sanno fare i lavori importanti: se io ho avuto un’ epifania, allora può averla anche qualcun altro». Chissà come sarà contento suo padre a leggere questa rivelazione. «A diciassette anni tentai di strangolarlo; fu allora che andai via di casa. Di giorno lavoravo otto ore, alla sera andavo a scuola: niente divertimento. Ma avevo bisogno di silenzio intorno a me: la casa era piccola e noi eravamo in troppi. È stato il cruccio di mia madre che era orfana e ha rivissuto l’ abbandono».
Il bambino che sono io. Il bambino tamburino allora è lei? «Decisamente: non posso togliermi dalla partita. Penso di essere un caratteriale, forse da piccolo molto più di adesso. Mia mamma, presa dalla disperazione, venne a chiedermi cosa non andava. Mi ricordo mezz’ ora di silenzio dove nella mia testa c’ erano migliaia di inizi di possibili dialoghi che non hanno mai preso forma verbale. Non era solo l’ incapacità di esprimere le mie necessità, era un blocco emotivo. Io non avevo un tamburo, ma usavo il silenzio. Come ho montato il bambino nella sala delle Cariatidi è perfetto: è in alto sul cornicione, solo e distante; c’ è e non c’ è. Non è a livello delle altre figure ma è sospeso nel punto di vista esterno dello spettatore, quello che ho sempre usato nella vita».
Mia madre in croce. Dunque la donna crocifissa è sua madre, quella che non l’ ha mai baciato? «Nell’ arte la donna è la Madonna e la rappresentazione della bellezza, ma nella mia famiglia la donna era sofferenza. Quest’ opera per me non è mai nata come una crocifissione invertita, ma in questo trittico mi sento di giustificarla come la mia visione domestica femminile». Non pensa che il bambino tamburino e il Papa assieme nella sala delle Cariatidi faranno pensare agli scandali di pedofilia che hanno colpito la Chiesa? «Si possono smembrare le opere e dare anche letture di attualità. Però l’idea a monte è unire tre opere che hanno significato moltissimo per me».
Il dito medio a piazza Affari. Si aspetta polemiche come per i manichini impiccati a Milano nel 2004 che furono tolti dopo un solo giorno? «Questa ormai è una mostra certificata e già discussa sulla stampa. Quando andremo a vederla qualcuno si chiederà perché c’ è stato tanto rumore per nulla. Anche la statua della mano in fondo viene da un’ immagine classica come quella della mano di Costantino ai Musei Capitolini. Se non ci fosse stata la precedente avventura milanese sarebbe stata una mostra senza tanti problemi. Quando dicono che sono un manipolatore o un pubblicitario, io dico: voi che fate i giornali, i blog, siete i manipolatori. Io produco, sono gli altri che parlano».
50 anni con i calzoncini corti. Ma lei non era il ribelle dell’ arte? Non le dà fastidio che questa mostra arrivi, come dice lei, certificata? «Non ho mai perseguito polemiche o strategie del ribellismo. Sono felicissimo che il vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Milano, interpellato dal Comune per non urtare la Curia, abbia visto quello che in realtà è la statua del Papa: un lavoro spirituale che parla di sofferenza. Il titolo La Nona Ora allude a quella in cui Cristo, sulla croce, chiede al Padre perché l’ ha abbandonato, ma il Papa cadente si aggrappa al crocifisso. Certe cose hanno bisogno di tempo per essere digerite. Forse dieci anni non sono ancora abbastanza». Il 21 settembre compirà cinquant’ anni. Un bilancio? «Mi sento ancora con i calzoncini corti, come se fossi cresciuto durante l’ ultima notte. Sono il primo a essere sorpreso di essere arrivato qui integro».
McCarthy e Cattelan, aspettando Bossi
Sono andato a vedere la mostra organizzata dalla Fondazione Trussardi di Paul McCharty a palazzo Citterio. Palazzo Citterio è un palazzo di cui Milano sembra essersi dimenticata: a due passa da Brera, avrebbe dovuto accogliore lo sviluppo della Grande Brera. Negli anni 80 cominciarono gli interventi architettonici di ripristino, poi tutto s’è fermato. Oggi giace lì già datatassimo e ridotto a rudere contemporaneo. Ci si chiede come Milano possa accettare uno spettacolo di simile tristezza. E la bella borghesia che si autodefinisce Amici di Brera in questi 30 anni cosa è stata lì a fare? All’interno la Fondazione Trussardi diretta da Massimilano Gioni ha presentato un ciclo di opere di Paul McCarthy. Complimenti per la scelta della location attuata da questa istituzione itinerane: almeno ha dissepolto questa vergogna milanese e la tristezza dei luoghi, vere cantine metropolitane dimenticate dai viventi. McCarthy in sede di presentazione viene definito «leggendario artista americano che con la lunga carriera ha scritto pagine findamentali della storia dell’arte contemporanea». Mi permetto qualche di nutrire qualche dubbio in proposito. Sarà un mio limite, ma non sopporto più l’orrore che non si fa carico del dolore. Troppo facile liquidare il mondo e l’uomo come un’Isola dei porci (è il titolo sin troppo didascalico della mostra). E poi mi ripugna questo voler tenere insieme il glamour ben palesato della macchina organizzativa con il compiacimento per il disgusto di McCarthy. Che il mondo sia un porcile non devono essere gli stilisti a venircelo a dire…
Poi è rieploso un caso Cattelan. Invitato a fare una mostra dal Comune, anticipando la grande rassegna che gli dedicherà il Moma, ha incontrato sulla sua strada le pruderie del sindaco Moratti (esemplare di quella bella borghesia di cui sopra, che quando non è addormentata si lascia prendere dall’isteria). Ora, se inviti Cattelan, sai che qualche rischio te lo prendi. Confinarlo al Pac e impedirgli di esporre la mano che fa le fiche davanti al palazzo della Borsa mi sembra un’idiozia. Cattelan, furbo di tre cotte, annunciando a Francesca Bonazzoli la notizia del veto e la sua conseguente rinuncia a fare la mostra, ha detto che se Milano fosse stata governata da Bossi non avrebbe incontrato resistenze (del resto immagino che la sua mano in marmo di Carrara, a cui sono state tagliate tutte le ditea, tolto il medio sia sgtata ispirata da quella celebre foto di Bossi; se non ve la ricordate eccola qui si sotto). «Sono convinto che se ci fosse stato Bossi come sindaco non solo avrebbe accettato la statua della mano, ma l’ avrebbe voluta in permanenza perché è una statua che, collocata proprio di fronte al palazzo della Borsa, alla fine parla della rabbia dei cittadini verso quello che Bossi chiamerebbe il teatrino della finanza». Bisognerebbe portare Cattelan nelle cantine di palazzo Citterio. Probabilmente gli ispirerebbero qualche idea interessante.
Quel furtivo Cattelan da otto milioni di dollari
Ha fatto otto milioni di dollari questo lavoro di Maurizio Cattelan, Untitled, 2001 (figura in cera). Un bel record, che raddoppia il suo precedente ( L’opera non era sua ma lui incassa i diritti di seguito). Dell’opera esistono tre esemplari, più una prova d’autore. L’esemplare che più si vede fotografato è quello nel museo di Rotterdam, che sbuca dal pavimento nel centro di una sala di pittura antica. E anche in questo divertente filmato, girato a New York (l’immagine l’ho “rubata” da lì), che spiega come si deve allestirlo, l’autoritratto di Cattelan sbuca nel centro di una raffinata parata di quadri antichi. Non voglio fare né apologie né demonizzazioni, ma certo Cattelan ha sempre una capacità di prenderti per simpatia. Sbuca, è il caso proprio di dirlo, dove meno te l’aspetti. E non sai mai se sia oggetto o soggetto. Qui sembra dire: «Mi piacerebbe essere all’altezza di questi, ma non so più da che parte si comincia. Vengo qui a sbirciare per carpire il segreto della loro forza. Magari di notte, quando non c’è nessuno, e i quadri pensano di non essere osservati da nessuno, combinano quelle misteriose alchimie che il giorno dopo li rendono capaci di incantare tutti. E io voglio essere lì a sorprenderli». Questo mi immagino dica Cattelan.
Dal vero, dice invece questo: «L’arte sta cercando una nuova identita e la cosa piu onesta mi sembra quella di avere una sana convalescenza avendo degli scambi in altri ambienti. Lo scambio e una cosa che ti da l’opportunità di rimetterti in discussione, la vedo solo sotto questo punto di vista».
E poi (parlando di Paolo Uccello e Goya): «Pero hanno una qualita che rappresenta in modo esemplare un’epoca, non semplicemente quel periodo, quel fatto. Un’epoca non la rappresenti per quella battaglia, ma per lo spirito dell’epoca. Sintetizzi un’esperienza, non un fatto».
E infine: «Mi ha sempre affascinato lo spostamento in termini di luogo, tempo, spazio, identità, punti di vista, la ridefinizione dello stesso soggetto in un altro luogo. Duchamp ha messo le basi di tutto questo, la ridefinizione del significato, ma anche dei luoghi. Quei piccoli spostamenti, gesti di un’energia minima, hanno prodotto un enorme risultato».
A me piace questa “cosa” di Cattelan. C’è lo sguardo furtivo e stupito del bambino, che una cultura troppo cervellotica ha completamente smarrito. C’è l’ironia di chi sa di essere un clandestino là dentro e che quindi potrebbe essere cacciato da un momento all’altro, con buona pace di chi ha sganciato otto milioni di dollari… Io non spendo niente, ma voglio provare a sbirciare come lui.