Volenti o nolenti Ai Weiwei è l’artista simbolo di questi anni. Lo dimostra la mostra curata da Artutro Galansino è aperta in questi giorni a Palazzo Strozzi. Una mostra impeccabile, completa, che nella sua ossessione per una pulizia formale dal punto di vista allestiti o riesce anche ad emozionare (impressiona il silenzio con cui le persone visitano la mostra).
Perché Ai Weiwei può essere ritenuto artista simbolo? Provo a rispondere. Innanzitutto per quanto sia “personaggio”, lui si muove in una dimensione collettiva. Le sue opere sembrano sempre nate più da un noi, che ogni volta muta, che da un io. È un artista in perenne relazione con “altri”. È questa relazione è il fondamento di ogni sua creazione artistica. È artista sociale, sulla scia di Joseph Beuys: l’opera non è nell’oggetto ma nella coscienza che determina in chi la vede. In questo è anche un artista molto empatico, che sa tramettere conoscenze attraverso le emozioni. «È diventato una cosa simbolica essere artista», dice. «Seguendo Duchamp mi sono reso conto che essere un artista è più uno stile di vita è un atteggiamento che non la produzione di qualche oggetto».
Ai Weiwei poi è un artista che gioca allo scoperto. È in un certo senso perennemente collegato con il mondo. Racconta tutto di se stesso. È artista pubblico per antonomasia. Si sa sempre tutto di lui. E anche nelle opere molto warholianamente sono tutte in superficie. Hanno significati che è facile scoprire e anche memorizzare (prendete le opere realizzate dopo il terremoto di Sichuan che causò stragi di bambini per le scuole mal costruite).
Per questo Weiwei è una artista tutto esposto sul presente (la tradizione, dice, è un punto di partenza per compiere un gesto nuovo). Il titolo dell’installazione con i gommoni appesi sulla facciata di Palazzo Strozzi è emblematico: “Reframe”. Il passato ha bisogno di una nuova cornice, che parli all’oggi. Una cornice che rispetti le misure della tradizione ma che apra finestre sul presente.
Sono tutti fattori che rendono sempre molto “umane” le sue opere. Si avverte che il suo operare artistico è sempre mosso da una grande simpatia verso i propri simili. Ed è questa simpatia che lo induce ad essere sempre così “social”. La simpatia è qualcosa che va oltre la denuncia. Se ha appeso i gommoni da salvataggio sulle facciate di Palazzo Strozzi lo ha fatto non per «una provocazione ma per un invito ad un altro modo di sentire l’umanità». Questa è una dimensione che si “respira” in ogni sua opera, che diventa la sua ragion d’essere.
C’è teatralità, c’è scaltrezza, c’è una straordinaria abilità sartoriale nei suoi lavori. Ma alla fine quello che resta è soprattutto un segno umano, semplice, che è difficile dimenticare. Poi si possono fare tutte le obiezioni del mondo su di lui, ma è difficile negare che Ai Weiwei ci abbia considerati tutti ogni volta un po’ suoi “fratelli”.
Ps: Ai Weiwei è architetto. E lo si vede da come ha allestito questa mostra, che esalta come non è mai accaduto gli spazi meravigliosi di Palazzo Strozzi. Si può dire che si vedono due mostre in una: Ai Weiwei e gli interni del palazzo.