Robe da chiodi

Archive for the ‘Cézanne’ tag

Cézanne 1907, la pittura come muraglia

leave a comment

Cézanne, Natura morta con bottiglia, 1906. Una delle 57 opere presenti al Salone d’Automne del 1907

Questo articolo sul volume “Cézanne-Rilke, Quadri da un’esposizione” (Jaca Book) è stato pubblicato su Alias del 3 giugno.

Il Salon d’automne in quel 1907 aprì il primo ottobre. Era alla quinta edizione e per il successo ottenuto era stato trasferito dagli spazi un po’ angusti dei piani bassi del Petit Palais a quelli immensi del Grand Palais. Quell’anno il manifesto annunciava quattro personali: Berthe Morisot, Eva Gonzales, Jean-Baptiste Carpeaux e Paul Cézanne, morto proprio nell’ottobre dell’anno prima. Il Salon, inventato da Frantz Joudain, architetto e critico di origine belga, prevedeva sempre la pubblicazione di un piccolo catalogo, con la lista puntuale delle opere esposte. Nel caso di Cézanne ci rivela che erano 56, elencate a blocchi per collezionisti prestatori, con il solo titolo e senza misure. Stranamente di quell’edizione del Salon non si conoscono fotografie, così le sale di Cézanne sono rimaste sempre un po’ in un cono d’ombra, nonostante si fosse trattato della sua prima grande personale e di una delle mostre-cardine del secolo passato.

Ci sono voluti 110 anni per scoprire quali quadri fossero appesi negli spazi del Grand Palais. Merito del lavoro di Bettina Kaufmann, co-curatrice del Cézanne Online Catalogue Raisonné, che sulle 56 opere esposte ha trovato traccia certa di 42, mentre altre 14 non hanno potuto essere identificate univocamente, per via della genericità dei titoli e dei numerosi passaggi di mercato. Comunque siamo nell’altamente probabile. Così la sfilata di immagini nel volume ora pubblicato a conclusione del lavoro (Cézanne -Rilke, Quadri di un’esposizione, a cura di Franco Rella, Jaca Book, 50 euro) restituiscono bene la fisionomia di quella mostra-evento che ha segnato come poche altre la storia dell’arte del secolo scorso: si scopre che lo sguardo su Cézanne era già uno sguardo totale, con notevole attenzione anche alle opere dell’ultimo periodo dello scontroso maestro di Aix: in particolare Ambroise Vollard aveva intercettato due ritratti del Jardinier Vallier, quasi ancora freschi di pittura. Il figlio Paul aveva prestato una serie di sette meravigliosi acquerelli, tra i quali un capolavoro del 1906, La Bouteille de Cognac. Tra i prestatori c’era anche un italiano, Egisto Fabbri, il mercate fiorentino che nella sua collezione aveva decine di opere di Cézanne, tra le quali Madame Cézanne à la jupe rayée, oggi al museo di Boston. Fuori catalogo, ma documentato dalle cronache, arrivò anche una 57esima opera, che Claude Monet volle prestare in omaggio al grande collega da poco scomparso: è un quadro del 1867, una figura di uomo nero di spalle (Le Négre Scipion). Un quadro strano se pensato in rapporto agli interessi di Monet, ma che documenta un approccio a Cézanne come artista totale e non come semplice compagno nell’avventura dell’Impressionismo e di ciò che ne derivò.

Com’è ben noto la mostra fu teatro delle visite compulsive di Rainer Maria Rilke che in quegli anni era a Parigi e che tra il 6 e il 24 ottobre raccontò, in una sequenza quasi quotidiana di lettere alla moglie Clara, la propria folgorazione davanti alle opere di Cézanne. Nel volume di Jaca Book le lettere sono presentate nella selezione curata da Clara Rilke in occasione della prima pubblicazione del 1952, con l’aggiunta di due lettere “cezanniane” inviate dal poeta alla pittrice tedesca Paula Modershon-Becker, sempre nel 1907. Scrive Rilke che «Cézanne è stato un evento che quasi tutti erano impazienti di ammirare, i pittori in particolare non vedevano l’ora».
Che si fosse trattato di una mostra terremotante lo conferma la circostanziata e a suo modo straordinaria stroncatura firmata da André Pératé per la “Gazette des Beaux-Arts”. È una recensione che testimonia come il contraccolpo del disvelamento di Cézanne avesse causato un profondo e quasi drammatico malessere in tanti osservatori. «Le vecchie abitudini classiche o romantiche», scrisse Pératé, «il nostro idealismo, per quel poco che sussiste, il nostro desiderio di stile e di sentimento, tutto è travolto, violentato da questo pittore brutale, da questo pazzo». Cézanne «uccide il mio innocente Corot, svela le bugie di Délacroix», scrisse quasi impaurito il critico francese, davanti a quella pittura che sembrava come «una muraglia», «una realtà» davanti alla quale «tutto il resto, alla prova, sembra come un decoro». Cézanne è un barbaro, metà operaio e metà trappista per il quale la pittura è «un morire per rinascere alla realtà» (il corsivo è di Pératé).

Lo sguardo di Rilke è più contiguo di quanto non sembri a quello di Pératé. Anche lui, come scrive Franco Rella nel saggio sulle lettere del poeta contenuto nel libro, «avverte una vertiginosa concentrazione», perché nella pittura di Cézanne c’è «tutta la realtà». Rilke arriva in mostra avendo già avuto più di un approccio con Cézanne, prima a Cassirer, in Germania e poi alla galleria Barnheim-Jeune a Parigi, nel 1906, in occasione di una mostra di suoi acquerelli. Il 7 ottobre durante la visita quotidiana al Salon aveva incontrato anche Julius Meier-Graefe, lo storico dell’arte che aveva fatto conoscere l’impressionismo in Germania e di cui aveva anche apprezzato un libro su quella stagione pittorica. Inoltre Rilke aveva compulsato i ricordi e le lettere che Emile Bernard aveva pubblicato nei suoi Souvenirs sur Cézanne, riproposti dal “Mercure de France” in occasione del Salon. Quello di Rilke è dunque un approccio strutturato e consapevole, che gli permette di scavare dentro la pittura e di cogliere delle dinamiche rivelatrici. Scrive ad esempio: «È come se ogni punto sapesse di tutti gli altri. Tanta è la sua partecipazione; tanto si combinano in lui adattamento e rifiuto». Il suo è uno sguardo ravvicinato, che si tiene alla larga da un’interpretazione letteraria.

È un approccio che trova un rimando in una pagina sinteticamente straordinaria dei “Pensieri Verticali” di Morton Feldman
(una lettura di cui sono debitore a Lea Vergine) e che spiega come Cézanne abbia costituito un nuovo inizio per la pittura: «Cézanne ci ha dato la “pittura per la pittura”, ma ci ha dato anche l’ultima grande rivelazione sulla natura. Questo è ciò che rende il suo approccio “analitico” così straordinariamente commovente. Per Cézanne il mezzo è diventato l’ideale».

Written by gfrangi

Giugno 4th, 2018 at 9:46 pm

Posted in libri

Tagged with ,

Da Cézanne a Giacometti, e viceversa

3 comments

Per soli 19,90 euro ho comperato il catalogo di una mostra che non so quanto avrei dato per poter vedere. È quella su Cézanne e Giacometti organizzata nel 2008 dal Louisiana Museum vicino a Copenaghen (tenetelo d’occhio, è uno dei più dinamici d’Europa). “Percorsi del dubbio” era il titolo della mostra che stabiliva dei confronti e dei paralleli per generi davvero perfetti. Ma la cosa interessante di questa mostra è che non era una mostra come da logica ci aspetterebbe a senso unico: cioè quel che di Cézanne vive in Giacometti. Quel che Giacometti ha preso da Cézanne (in mostra c’erano tutti gli studi del maestro di Stampa sulle opere di quello di Aix: sorprendentemente tanti). No, qui l’obiettivo è stato rimettere in circolo tutto: quindi di ri-guardare Cézanne dopo aver messo gli occhi su Giacometti. Sarebbe stato bello vedere il tutto dal vivo, ma già sfogliando il catalogo ci si accorge come non si sia puntato mai su paralleli facili, ma sul portare a galla intese più profonde. Così si sviluppa una dinamica per cui uno sguardo su Giacometti porta ad averne uno più profondo su Cézanne e viceversa. Quello che colpisce alla fine è la contiguità tra loro due, per cui il passaggio da una Sainte Victoire a una veduta di Stampa avviene senza sobbalzi, come se tutt’e due appartenessero a una stessa geografia mentale. Dovessi dire (con molta superficialità) quale sia questa geografia, mi viene da collocarla in quella zona dell’umano in cui l’ansia non smette di essere tale, ma trova un istante quasi epifanico che la porta oltre se stessa. Sono visioni fragili, acuminate che trovano un istante (un istante solo) di stabilità. Costruzioni improbabili che trovano non si capisce per quali strade un punto rapidissimo ed evidente fugace di equilibrio. È questa grandezza senza certezze che avvicina Cézanne e Giacometti a farne nel nostro immaginario, due fratelli (un’idea che la mostra ha riassunto efficacemente in quella “&” che lega i due protagonisti; più che una semplice congiunzione).

Written by gfrangi

Aprile 28th, 2012 at 8:19 am

I Giocatori di carte di Cézanne: una partita interessante. Anzi decisiva

leave a comment

La versione dei Giocatori di carte di Cézanne ora di proprietà dei reali del Qatar

Ha fatto bene l’amico No Name a mettere in fila le cinque versioni dei Giocatori di Carte di Cézanne, per meglio far capire l’importanza del quadro che è stato comperato dalla famiglia reale del Qatar, per 250milioni di dollari, record assoluto mai pagato per un quadro.
Siamo agli inizi degli anni 90: Cézanne, alle soglie della sua ultima grandiosa stagione, inizia a pensare rigorosamente per motivi, che di studio in studio vuole portare sempre più vicini all’immagine che ha in testa. I Giocatori di Carte sono uno di questi motivi a cui lavora nella prima metà del decennio. Il percorso è lineare: si parte dalla versione più grande, quella conservata alla Barnes di Filadelfia in cui l’ambiente è quello riconoscibile dell’atelier con il grande tendone e le pipe appese al muro; i giocatori sono tre, cui si aggiungono un uomo e una ragazza che assistono al gioco. La seconda versione è quella del Metropolitan: le dimensioni si riducono, sparisce la ragazza, l’interno si spoglia di alcuni elementi occasionali. Lo stacco delle tre successive versioni è invece netto: a partire da quella Courtauld non restano che due giocatori e la funzione compositiva che veniva svolta dal giocatore frontale, viene assegnata da Cezanne a una bottiglia di vino, messa al centro. Il fatto che sul tavolo non ci siano bicchieri toglie ogni dubbio sul senso di quella bottiglia. Stessa costruzione per l’esemplare finito in Qatar e per l’ultima versione oggi al Musée d’Orsay.
Ma la vera differenza tra queste due serie è più profonda e radicale. Nei primi esemplari il punto da cui Cézanne sta guardando la scena è chiaro e tranquillo: come qualcuno ha detto giustamente è un Cézanne che ha un punto di vista ancora “courbettiano”.
Con le ultime tre versioni invece avviene un vero terremoto dello sguardo; il punto di vista ormai è destabilizzato: è frontale ma nello stesso tempo anche dall’alto. La linea del tavolo non è più orizzontale ma viene intaccata da quel senso “obliquo” che è la cifra dell’ultimo Cézanne. La costruzione tanto più si mostra capace di concepirsi solida (le curve “giottesche” delle schiene dei due giocatori, collaudate in alcuni straordinari disegni, ne sono la testimonianza) tanto più si trova a rischiare una precarietà degli equilibri, a sperimentare l’ansia del quadro che non si chiude mai in una forma raggiunta. È come se una grandiosa e drammatica incrinatura avesse spalancato le immagini. Ma è proprio qui la grandezza dell’ultimo Cézanne, pittore “aperto”, magistrale nel concepire geometrie ma destinato a non poterle mai poggiare su terreni che tengano. Il percorso dei Giocatori di Carte da questo punto di vista è di un’esemplarità quasi didascalica.

PS: una curiosità. Ci si è chiesti in quale gioco siano impegnati i paesani di Cézanne (il contadino Pére Alexander, a sinistra, e il giardiniere Paulin Paulet a destra). Visto che i giochi da fare in due non sono molti c’è chi ha pensato ad una specie di gin rummy (per altro inventato qualche anno dopo). La cosa più verosimile è quella suggerita da Meyer Shapiro: «Sono impegnati in un solitario collettivo». Del resto è provato che Cézanne facesse posare i suoi modelli uno alla volta. Quindi uno giocava la partita solo con se stesso. Proprio come il genio che stava al cavalletto…

Written by gfrangi

Febbraio 6th, 2012 at 10:51 pm

Posted in pensieri

Tagged with , ,

Un grande dimenticato del 2011, Renato Guttuso

leave a comment

Il 2011 sono stati cent’anni dalla nascita di Renato Guttuso, ma l’anniversario è passato via in una sostanziale indifferenza. Eppure sarebbe stato interessante riaprire oggi il capitolo che lo riguarda. Guttuso non è un artista a cui si debbano invenzioni o intuizioni di quelle imprescindibili. È sempre stato nella scia dei tempi e di alcune linee maestre aperte da altri (Cézanne, Picasso), senza mai nasconderlo. C’era un fondo irriducibile di sincerità in lui che lo rende ancor oggi umanamente e culturalmente interessante. Ricordo di un’intervista all’Europeo in cui spiegava la sua diffidenza dall’espressionismo, che agiva facendo violenza sulle cose, mentre a lui interessava portare a galla la violenza delle cose, dove violenza non era una categoria affatto negativa, ma alludeva alla vitalità delle cose. “Un artista deve cercare la realtà come essa è, cercare di raggiungere le cose come sono”, diceva. Affermazioni persin banali, ma che lasciano intendere quel suo desiderio di sfilarsi dalle spire del soggettivismo. Che ci sia riuscito è un’altra questione: si può dire che questa intenzione la si scorge sempre davanti a tutte le sue opere più riuscite.
Ma in Guttuso c’è un altro aspetto interessante connesso a questo: è la malinconia, conseguenza di quel senso di fallimento e di inadeguatezza rispetto a quello che avrebbe voluto essere. C’è uno scollamento tra le cose e il modo con cui le cose rifluiscono anche in un’interiorità amica delle cose come la sua. C’è in Guttuso come un’impossibilità di adesione netta e semplice, a cui pur aspira. C’è un’intercapedine che si frappone tra il suo sguardo senza riserve e ciò che poi il suo artista metabolizza. E onestamente Guttuso non censura questa sua difficoltà. Basta vedere i ritratti dei primi anni, tra cui spicca quello ad Antonino Santangelo, del 1942, uno dei grandi quadri del dopoguerra, certamente uno di quelli di più intensa partecipazione umana alla temperie di quella stagione (un quadro, per dirla tutta, umanamente memorabile). C’è in questo quadro così aderente al piano delle cose, un senso di irrimediabile sconfitta, una malinconia che va ovviamente in rotta di collisione con tutte le certezze ideologiche. È questa sincerità squadernata che rende Guttuso un artista irriducibilmente simpatico nel senso più profondo e coinvolgente del termine. Simpatico cioè amico. Cioè innamorato delle cose, ma ferito dalla consapevolezza che quelle stesse cose erano destinate a sfuggirgli (quanto è lontano da lui il prepotente senso di possesso picassiano). Diceva sempre che l’artista vero è uno che va allo sbaraglio. Anche nella coscienza di non portare a casa quel che desiderebbe. Guttuso in fondo è uno che, con tutti i suoi limiti, è andato allo sbaraglio rispetto alla realtà e rispetto anche a se stesso. Per questo sarebbe stato molto salutare riscoprirlo.

Written by gfrangi

Dicembre 29th, 2011 at 9:49 am

Posted in pensieri

Tagged with , ,

La sensualità di Cézanne

5 comments


Come si direbbe nel gergo calcistico, in occasione dei sorteggi per la Champions, ad esempio, Milano è una città di terza fascia. La mostra di Cézanne ospitata in queste settimane a Palazzo Reale è una mostra modesta, frutto di una pur generosa intuizione, ma con una fragilissima idea alle spalle. Di Cézanne abbiamo visto almeno quattro mostre di alto o altissimo livello negli ultimi anni. La straordinaria Cezanne finished-unifinshed a Vienna (2000); le due mostre per il centenario a Parigi (Cézanne e Pissarro) e ad Aix and Provence (Cézanne e il Midi) e infine Cézanne and Beyond, a Filadelfia due anni fa. Tutte mostre dettate anche dal’idea di far avanzare in qualche modo la conoscenza e gli studi su questo pittore cardine della modernità. Ovviamente non è il caso della mostra milanese, ma è inutile infierire. Basta sapere che siamo in terza fascia…
Comunque Cézanne è sempre Cézanne e nella scelta delle opere portate a Palazzo Reale c’è una serie di acquerelli conservati al Dipartimento di Arti Grafiche del Louvre, quindi difficilmente visibili, che da soli meritano la mostra. Sono tre “interni”: una serie di vasi di fiori, un interno con un grande tendaggio e una natura morta con mele, pere e una pentola. I primi due degli anni 80, l’ultimo invece a cavallo del secolo. Vedendoli mi sono chiesto se davvero le chiavi con cui ho sempre approcciato Cézanne fossero sufficienti per darmi ragione della sorpresa che questi tre acquerelli mi hanno riservato. E mi sono dato un tentativo di risposta: in Cézanne gioca anche una golosità del reale, inversamente proporzionale alla complicata riservatezza del personaggio. Mi spiego: Cézanne si rivela pittore di una sensualità potente e inaspettata. Le sue mele sono da toccare. O meglio ancora da tastare e palpare. Riempiono le mani, mi verrebbe da dire. Hanno forme che richiamano corpi nella loro pienezza. Hanno l’allure potente di chi non censura nulla del reale. I vasi di fiori hanno una prorompenza mediterranea. La tenda si apre su un interno vuoto ma denso di respiri e di vita. Forse non si spiega pienamente Cézanne se si censura quest’attrattiva sensuale che il reale esercitava su si lui. Che poi lui la controllasse con la disciplina mentale propria dei grandi, e con l’energia morale che lo contraddistingueva, non è affatto cosa che contrasti. Ma si ha una percezione più esatta di Cézanne se si tiene presente questa golosità potente che il reale accendeva in lui e che lo attira sin dentro il cuore del reale stesso. Le mele non sono solo forme, volumi (il famoso “cilindro, sfera, cono”): sono polpa.

Qui leggete il grande articolo di Testori sull’altrettanto grande mostra parigina del 1978 sull’ultimo Cézanne.

Written by gfrangi

Ottobre 25th, 2011 at 8:03 am

La grandezza senza retorica di Richter

2 comments

«We were playing with fire to see how far one could take the destruction of art». Oggi inaugura la mostra molto attesa di Gerhard Richter alla Tate di Londra. Mostra dal titolo molto richteriano: Panorama. La frase che riporto è tratta da un’intervista che l’artista aveva rilasciato a Obrist su Frieze nel lontano 1993. È una dichiarazione che mi ha impressionato perché sintetizza in modo chiaro e perentorio il rischio che l’arte sta prendendosi oggi; un rischio in cui è riposto anche, paradossalmente, il suo senso. Se mettiamo in rapporto la dichiarazione con il suo autore si capisce come dietro la calma e il controllo che sembra tener fuori la sua pittura dal marasma del contemporaneo in realtà sia una riflessione estrema sul senso e sullo spazio dell’arte. L’ordine, il self control, la parabola quasi classica di Richter alla luce di quella frase mi sembra assumano una profondità che non avevo colto prima d’ora. Anche il suo elegante eclettismo che lo porta a transitare dalla figurazione all’astrazione, dalla fotografia all’impulsività controllata di una pittura gestuale diventano un po’ come la danza di un acrobata sul ciglio di un burrone, che individua con scioltezza e con rapidità di presa tutti gli appigli che gli garantiscono di non cadere. Io amo molto Richter, lo considero capace di una grandezza che forse oggi non ha uguali. Amo il suo procedere sempre così lucidamente logico. Questa sua capacità di restare immune da ogni retorica. Questa sua riservatezza borghese, che tiene la biografia al riparo dai rischi che l’artista pur si prende.
Ma soprattutto capisco che Richter è uno di quegli artisti, sempre molto rari, su cui converge il senso di un’intera epoca. Non geni che spalancano nuove stagioni, ma grandi che raccolgono chi è in rotta e si costringono a dare un ordine credibile alle cose. Cézanne aveva fatto un po’ così, il genio più inconsapevolmente lucido della storia dell’arte moderna.
Nella foto, Mother and child, olio su tela, 1995
Il sito della mostra alla Tate
Il sito di Richter con tutte le sue opere

Written by gfrangi

Ottobre 6th, 2011 at 7:26 pm

Posted in mostre

Tagged with , , ,

Picassò, Picassò

leave a comment

Al Grand Palais di Parigi, ore di coda per entrare nella mega mostra Picasso et les maîtres. È una mega mostra inutile, fatta solo per saziare l’ambizione transalpina, la mai sopita voluttà per la propria grandeur. Ecco quindi Picassò messo a paragone con i giganti della pittura che in qualche modo gli sono caduti sotto gli occhi: l’obiettivo è di dimostrare che lui è sullo stesso livello. Cosa probabile, ma che converrebbe dimostrare per ben altre vie.
Picasso si accosta ai classici con la stessa voracità e la stessa inerzia culturale con cui può accostarsi al corpo di una donna o alla brocca d’acqua di una natura morta. Ma questa che è una qualità della sua grandezza diventa un limite nel momento in cui si confronta con i giganti, che invece del “pensare” hanno fatto spesso un architrave del proprio agire pittorico. Prendete la parete della sala finale: in trenta metri sfilano la Venere del Prado di Tiziano, la Maya Desnuda di Goya, L’Olympia di Manet, l’Odalisca di Ingres. In mezzo i divertimenti dell’ultimo Picasso. Gigantesse che sembrano dipinte da un bambinone cui sia stata donata l’energia di un gigante. Ma bambinone resta. E il confronto finisce con l’essere oggettivamente imbarazzante.
Picasso macina i maestri come macina tutta la realtà che lo circonda: ma nel confronto con i maestri il rischio si fa più alto e il gioco ha il fiato corto. Così è nella sezione delle nature morte, dove soccombe vicino alla magia pre morandiana di Zurbaran, e dove s’incarta davanti alla profondità misteriosa dei teschi di Cézanne. Insomma, l’elementarità che è una forza di Picasso, in questa mostra venga ribaltata clamorosamente in debolezza.

Tre postille. Primo: non mancano i capolavori. Il più capolavoro è il ritratto di Olga del 1923. Uno schianto di eleganza, forza, con un filo di malinconia, nello sguardo rivolto altrove.
Secondo: nel rapporto con il passato, manca il più importante, quello che la pittura romanica catalana. È lì che Picasso succhia la linfa della sua pittura senza ombre e tutta certezze. È quello il terreno saldo su cui poggia i suoi piedi e prende la sua andatura colossali.
Terzo: Domanda maliziosa. Se Picasso avesse avuto il coraggio di distruggere qualche suo quadro, non sarebbe stata cosa salutare?

Written by giuseppefrangi

Ottobre 13th, 2008 at 11:46 am

Posted in moderni

Tagged with , , ,

Impressionisti verticali

2 comments

Una piccola trasferta di impressionisti al Mart di Rovereto. Sono quelli del Museo di Gerusalemme. Tutto già visto? No, niente è stato visto abbastanza, neanche i fluviali impressionisti di questi anni. Bella la sala di Renoir, che si conferma un Rubens un po’ stranito e imbambolato (in effetti non ha più attorno a sé re, regine e papi, ma borghesi ben pasciuti e senza ambizione).
Ma il clou sta nel fil rouge che lega i due quadri più forti arrivati per questa trasferta. Lo Stagno con ninfee di Monet (1907) e la Casa di campagna vicino al fiume di Cézanne (1890 ca). Hanno una struttura comune, tripartita. Il cuore è al centro, nell’uno e nell’altro. È la zona dove si condensa la luce. È, per così dire, il luogo dell’evento. Una fascia stretta tra due masse. È impressionismo in verticale (che smentisce l’idea di una pittura costituzionalmente riposata e orizzontale: non si è mai visto abbastanza). Ma il verticalismo di Monet è verticalismo che sprofonda, che si cala nel magma visivo del mondo. Che se ne lascia risucchiare, senza mai perder di lucidità. Quello di Cézanne invece va in direzione opposta, si alza, punta verso il cielo come una cattedrale. Monet man mano che scende si sfalda (scriveva Francesco Arcangeli: «è una specie di campo mirabile di confusione, non è solo una confusione naturale, è una confusione di “risonanza”»). Cézanne man mano che sale si consolida. Si fa più lucido, anzi più logico. Il tema della verticalità lo svela lui stesso in una lettera a Bernard del 1904: «Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè una sezione della natura, o, se lei preferisce, dello Spettacolo che il Pater Onnipotens Aeterne Deus dispiega davanti ai nostri occhi. Le linee perpendicolari all’orizzonte invece danno profondità. Ora, la natura, per noi uomini, è più in profondità che in superificie…». Più in profondità…

Ovviamente questa è una controprova di grandezza. Monet e Cézanne sono i due più grandi del gruppo. O meglio quelli che hanno un’ansia che li porta sempre oltre.

La mostra è visitabile al Mart sino al 6 gennaio.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 1st, 2008 at 11:14 pm

Posted in moderni

Tagged with , , ,