Robe da chiodi

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Le Corbusier e il “Je vous salue Marie”

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Tornato dopo tanti, tanti anni a Nôtre Dame de Haut, mi sono ritrovato davanti alla stessa sensazione di un’inesplicabilità di questo capolavoro. Come da una mente chiara, capace di riportare tutto alla verificabilità di una misura, poteva essere scaturita un’idea architettonica che sembra più l’esito di un lasciare andare la mano?

Per dirla in parole diverse, qui lo spirito (sempre luminoso) di calcolo sembra lasciar spazio ad una grazia. Si è sempre detto che Le Corbu è stato conquistato dalla posizione destinata alla cappella («Il paesaggio, i quattro orizzonti. Autentico fenomeno di acustica visuale. Questi paesaggi dei quattro orizzonti sono una presenza. Sono degli invitati»»): la forma della cappella, determinata dalla memoria di un altro elemento naturale («Un guscio di granchio raccolto a Long Island nel 1946: diventerà il tetto della cappella»), conferma questa tensione ad un’armonia con il paesaggio.

Mi sembra però ci sia un altro fattore che Le Corbu tiene sotto traccia, anche se alla fine emerge in tanti dettagli, pieni di pudore. È il fattore mariano. Si sa dell’intitolazione della Cappella, che sposa devozione mariana e topografia (“de haut”). Le Corbusier sembra lasciarsi prendere per mano: è lui a scrivere di suo pugno le litanie sulle vetrate («dicono le lodi della Vergine»); è lui a prendersi cura della statua posizionata tra due vetri dietro l’altare, su una base girevole in modo da poter essere centrale anche in occasione delle funzioni tenute all’esterno. Sulla porta maggiore sono impresse le immagini crete da lui che fanno riferimento all’Annunciazione (lato esterno) e all’Assunzione (lato interno). In un libretto trovato nel piccolo bookshop, che raccoglie disegni e appunti diaristici di Le Corbu, c’è la riproduzione dell’Ave Maria trascritta a mano dall’architetto; «pleine de grâce» è ribadito a caratteri cubitali nella pagina a fianco e la grafia riflette una grazia percepita.

Il suono stesso del nome di “Marie” sembra ispirare le soluzioni architettoniche. Questo spiega la dimensione di intimità che la cappella trasmette, pur nelle sue prospettive audaci. «È un’intimità che deve irradiarsi su ogni cosa», scrive Le Corbu. E che si irradia anche su ogni persona. Mi viene da supporre che all’origine dell’idea della Cappella ci sia una commozione “mariana”, che conferisce quella dimensione di mantello aperto sotto il quale chiunque trova rifugio (del resto il mantello dell’iconografia della Madonna della Misericordia non è figlio di un pensiero architettonico?)

Written by gfrangi

Agosto 24th, 2021 at 2:11 pm

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Le Corbu con gli occhi di Peter Doig. L’essenza drammatica della Cité radieuse

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Lo annuncia già il suo nome: Briey-en-Fôret. Briey è un piccolo centro al Nord Est della Francia, cittadina un tempo a forte vocazione mineraria, circondata da grandi boschi. Qui la municipalità nel 1957 venne tentata da un progetto utopistico, per dare casa a minatori e operai delle sue industrie siderurgiche: chiamò Le Corbusier proponendogli di costruire una nuova variante dell’Unité d’habitation inaugurata nel 1952 a Marsiglia. Sarebbe stata la terza, dopo quella già in cantiere a Nantes.

L’architetto fu subito conquistato dal contesto per via di quella grande foresta demaniale che avrebbe circondato il nuovo edificio. Edificio che era già tutto nella sua testa: «Dalle finestre si vedrà l’ondeggiare degli alberi; qualche passo più in là si scende in un piccolo valloncello delizioso attraversato da un corso d’acqua: faremo un lago, un giorno. L’Unité di Briey-en-Fôret sarà davvero come il nome suggerisce». 

La prima pietra venne posata il 4 marzo 1959. Nel 1961 il cantiere era concluso e 339 nuovi appartamenti attendevano i loro inquilini. Tra loro anche il futuro sindaco, Guy Vattier che ricorda così quegli inizi: «Erano appartamenti con un buon isolamento termico e fonico. Regnava una vita straordinaria, con un mix di abitanti molto diversi: ingegneri, insegnanti, operai e medici. A loro si aggiungevano gli americani della vicina base aerea della Nato, che stavano sempre con le porte aperte. Era veramente un agglomerato umano come quello sognato da Le Corbusier».  Nei 17 piani dell’edificio, che era lungo 110 metri, si erano accasate quasi 1500 persone. Ogni famiglia in un appartamento caratterizzato da un colore diverso, per spaccare l’uniformità cromatica del cemento armato grezzo, elemento principe nella chimica costruttiva delle Unité d’Habitation. Avrebbero dovuto esserci anche un asilo sul grande terrazzo e un supermercato: ma i due progetti finirono nel dimenticatoio, contro la volontà di Le Corbu.

Era il primo segnale di un vacillamento che avrebbe portato l’Unité sull’orlo di un declino irreversibile. I primi a lasciare gli appartamenti (ne occupavano ben 50) furono i soldati americani con le loro famiglie, dopo che nel 1966 la Francia aveva deciso di uscire dalla Nato. Nel frattempo anche la filiera siderurgica era entrata in crisi e Briey si trovò a fare i conti con una vera emorragia di popolazione. Progressivamente altri appartamenti vennero lasciati dai loro inquilini. La situazione precipitò al punto che nel 1983 tutto l’edificio, ritenuto pericoloso, fu chiuso e gli ingressi murati. Fu presa in considerazione addirittura l’idea di demolirlo, sinché nel 1987 la proprietà passò all’ospedale della cittadina, dietro il pagamento simbolico di un franco, con il progetto di portarvi la scuola di infermieristica. Era il segnale di una timida rinascita, a cui avrebbe lavorato con intelligenza e passione un’associazione locale, Premiére Rue, nata per iniziativa di un gruppo di architetti, con lo scopo di promuovere e valorizzare il grande edificio di Le Corbu. Il peggio era scongiurato, ma tanto era ancora il lavoro da fare. 

Peter Doig, Concrete Cabine, 1994

Erano stati proprio i responsabili di Premiére Rue ad invitare Peter Doig nel 1991, insieme ad un gruppo di artisti, per discutere come ristrutturare i primi tre piani dell’edificio. Doig, scozzese, nato nel 1959, oggi è uno degli artisti più quotati al mondo, prese subito a cuore il destino di quell’edificio sfortunato, rendendosi anche disponibile a lavorare, per ripulire parti di cemento dagli strati di pittura. In realtà, forse a dispetto dei promotori dell’iniziativa quello che aveva colpito Doig era una sensazione fortemente drammatica: la grande costruzione che emergeva in mezzo alla grande foresta di Briey gli appariva come un «edificio- teschio, bianco osseo, che parla con i suoi vuoti». Una sensazione che lui stesso avrebbe paragonato con quella ricevuta visitando la città-isola di Suakin, in Sudan, con le sue migliaia di piccole case crivellate dai continui bombardamenti.

Doig è nato ad Edimburgo ma è presto emigrato con la sua famiglia prima a Trinidad e poi in Canada, luoghi su latitudini così lontane e opposte che hanno allenato il suo sguardo ad orizzonti vasti e impregnati di mistero. A Briey l’orizzonte in realtà era chiuso dalla fitta cortina di tronchi: ma l’apparire al di là degli alberi della massa bianca della costruzione di Le Corbusier aveva provocato una sollecitazione visiva fortissima, dalla quale nell’arco di quattro anni, tra 1991 e 1995, avrebbe ricavato una serie di cinque grandi opere, certamente tra le più emblematiche del suo percorso: una di queste, “Boiler House” (il soggetto in questo caso è l’edificio caldaia staccato dal corpo dell’Unité), è andata all’asta questa settimana da Christie’s con un prezzo di partenza di 13 milioni di sterline. 

Peter Doig, Boiler House, 1992

Le Corbusier è sullo sfondo, eppure è la sua creazione che occupa lo spazio mentale di questa serie di quadri. Doig racconta di aver scoperto la forza fantasmatica di questo edificio, scattando delle immagini in bianco nero, a loro volta fotocopiate e poi montate in un piccolo album. L’idea progettuale sulla quale si erano riversati i rovesci della storia, emergeva da quelle immagini indefinite, ancora più potente, come nucleo di un’utopia ferita. «Sono rimasto sorpreso dal modo in cui l’edificio si è trasformato davanti ai miei occhi da pezzo di architettura in sentimento. All’improvviso è stata tutta emozione», ha raccontato Doig. Sospinta all’indietro, schermata dall’intricato groviglio di alberi che Le Corbusier sognava di poter vedere ondeggiare dalla finestra, l’architettura prende corpo, sviluppa appieno il pensiero da cui è stata generata, che è un pensiero aperto anche ai fallimenti. Le linee certe e bloccate di Le Corbusier (“Concret Cabin” è il titolo di tre quadri di questo ciclo) sono chiamate a misurarsi con le sfocature e l’instabilità visiva degli alberi. In questo modo Doig mette in scena l’architettura come dramma finendo con il renderle davvero onore: è una sorta di servizio che la pittura rende a quella che è sempre stata ritenuta la sorella maggiore nel campo delle arti. Ne era stato maestro Cézanne, le cui case provenzali, quante volte schermate dalla geometria degli alberi, si ergevano nelle retrovie della tela come corpi cubici, muti e senza tempo. Ma per venire a noi, è una logica che vediamo messa in atto anche nei paesaggi urbani di Sironi, dove la pittura impregna le architetture di una densità che popola la città; una logica che riconosciamo anche nella Roma di Scipione, con i suoi edifici ad altissime temperature, infiammati dagli stridori della storia. Quello di Doig è dunque come un nuovo capitolo di questa storia dove pittura e architettura giocano un duello che conosce solo vincitori.

 

Written by gfrangi

Ottobre 26th, 2020 at 8:39 am

Le Corbusier a Ronchamp: danzare tra le catene

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Molto bello il nuovo libro di Jaca Book sulla cappella di Ronchamp, grazie in particolare alla campagna fotografica Bamsphoto Rodella che indaga benissimo sui dettagli. Ma nel libro ho trovato alcune citazioni che è bene annotarsi, tanto intuitivamente restituiscono l’idea di “avventura” che è imprescindibile per capire Ronchamp. “Avventura” nel senso di inoltrarsi su percorsi che non si possiedono. Avventura,come un lasciarsi andare…

Prima citazione da Hans Urs Von Balthasar
«Il fatto che Ronchamp sia una chiesa, dunque un edificio con nessi di scopo fin nei dettagli, non ha impedito al costruttore di danzare, perché appartiene alla sua professione di danzare, perché appartiene alla sua professione di danzare tra le catene – e quali catene! – e di dare agli interessi più realistici una forma che sfocia nella gratuità senza scopo…
Ronchamp resta l’opera di un singolo e della sua libera équipe… non possiamo spaventarci se egli si comporta da enfant terrible nello spazio santo. I bambini mettono mano a molte cose e parecchie cadono nel nulla, ma alla fine ê loro il regno dei cieli».

Lettera di Lo Corbusier a sua mamma, 26 giugno 1955
«Mia piccola cara mamma, tutto si è svolto in modo mirabile. Tutto ê stato gioia, bellezza, splendore spirituale. Il tuo Corbu è onorato al massimo. Considerato, amato. Rispettato. Il compito era molto delicato. È la più rivoluzionaria opera di architettura realizzata da molto tempo a questa parte. Sul piano religioso, cattolico, del rito. Ora il rito è valorizzato al massimo, decantato, riportato ai Vangeli dalla mia architettura… Ma il diavolo deve tramare in un angolo, ha l’abitudine di non restare inattivo.

Discorso di Le Corbusier alla benedizione della Cappella, 25 giugno 1955
«… L’opera è difficile, minuziosa, rude, forte dei mezzi impiegati, ma sensibile e animata da una matematica totale, creatrice dello spazio indicibile… Il dramma cristiano ha ormai preso possesso di questo posto. Eccellenza, io ci consegno questa cappella di semplice cemento, plasmata forse di temerarietà, certamente di coraggio, con la speranza che essa troverà in voi come in coloro che saliranno sulla collina, un’eco a ciò che tutti noi vi abbiamo inscritto».

Written by gfrangi

Dicembre 13th, 2014 at 10:13 pm

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Corbu, Vermeer, Guttuso. Bellezze romane

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Le Corbusier, uno dei fogli-lavagna con gli schemi fatti nel corso della lezione milanese del 1934. (cliccando si ingrandisce)

Al Maxxi mostra di Le Corbusier e l’Italia. Spiccano quei cinque meravigliosi fogli- lavagna conservati all’archivio Bottoni del Politecnico di Milano, relativi a una lezione di LC a Milano del 1934. Il tema è l’abitare e la città. Lo sguardo di LC è di un’ampiezza attentissima però al particolare minuto della vita, è uno sguardo palesemente dettato da un amore verso l’oggetto che sta affrontando. L’abitare in città non è vissuto come un problema da risolvere, ma come un patrimonio di vita da conoscere, innanzitutto, e poi da custodire e far crescere sano. LC non ha uno sguardo superiore dell’esperto, ma è uno della partita: lo si vede dall’amore che muove i pastelli colorati sui grandi fogli di carta, in cui mostra come l’architettura debba sempre pensarsi a partire dal dato della vita. Sono fogli da cui si capisce che cosa significhi avere davanti un maestro nel senso completo della parola. e naturale. Riferendosi alle sue conferenze LC disse: “Esse con tutta la modestia, hanno aperto porte e finestre. Sono illustrate da schizzi, fatti sotto gli occhi del pubblico. Hanno permesso al loro autore di veder chiaro dentro se stesso, d’essere ingenuo una volta di più, nel contentarsi di porre i problemi e di dar loro la risposta più naturale”.

La Mostra di Vermeer alle Scuderie del Quirinale conferma un’impressione già avuta scorrendo il catalogo: che il dato di contesto è una bella palla al piede per un gigante come lui. Non che le decine di opere che accompagnano le otto opere di Vermeer non c’entrino. Ed è difficile pensare modalità alternative per esporre un pittore con 36 opere certe in catalogo. Ma l’impressione di modestia di tutto ciò che avveniva attorno a lui resta. Vermeer è un genio pulviscolare, visto da vicino ci si accorge che ogni millimetro di superficie dipinta è superficie non definita ma sempre in divenire. Più ti porta dentro il quadro più lui sfugge, perché concepisce l’esattezza come una vibrazione, non come un dato perimetrabile. Nella stradina di Delft impressiona il modo con cui ha dipinto il glicine sulla sinistra, non inseguendone le forme ma intercettandone il respiro, le intermittenze luminose. È certamente il modo con cui, senza muoversi e senza infrangere canoni, scappa via dalle prospettive anguste della sua Delft…

C’era molta voglia di riveder Guttuso, come dimostra la quantità di gente che affolla le sale del Vittoriano (se sale si possono chiamare questa sequenza di corridoi e di balconate: sede disgraziatissima). La mostra, che è quella del centenario con un anno di ritardo, è fatta senza molta testa, e certo non aiuta un grande artista generoso che ultimamente nin ha conosciuto grande fortuna. Sarebbe stato meglio fare una mostra con un taglio più ragionato e ambizioso, ad esempio su Guttuso e Roma, visto che Roma continua ad amarlo. Così si vedono alcuni quadri meravigliosi (il ritratto in rosso di Mimise, l’Antonio Santangelo, uno dei più bei ritratti del secondo 900), ci si chiede perché ne manchino alcuni fondamentali, come In spes contra spem. I disegni vengono “massacrati” in due salette anguste, ci sono un paio di pareti messe insieme come se fossimo ad un’asta di provincia. Eppure Guttuso dimostra di tenere e che la marginalità a cui è stato relegato (uno solo dei quadri esposti viene da fuori Italia…) è un destino del tutto immeritato. È un artista pieno di uno slancio che oggi sembra così raro tra suoi colleghi troppo calcolatori e cerebrali. È uno che vive la pittura senza riserve e senza complessi, pagando il dazio di tante cadute per mancanza di calcolo e di lucidità. Bellissimo a rivederlo, il grande funerale di Togliatti, con la soluzione pop dei fiori ritagliati su carta attorno al volto del defunto. Un quadro baldanzoso, un quadro di lotta ma soprattutto di amicizia, con quelle bandiere rosse, ancora piene di sogni e di ideali. Su un muro si rilegge una sua frase famosa: “Se io potessi, per un’attenzione del Padreterno, scegliere un momento della storia e un mestiere, sceglierei questo momento e questo mestiere”. C’è da amarlo anche solo per questa frase….

Written by gfrangi

Novembre 25th, 2012 at 11:00 pm

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Kiefer, tre settimane in convento

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Scorrendo il catalogo (bello) della mostra di Kiefer ai Magazzini del Sale a Venezia ho scoperto che l’artista tedesco aveva preso la decisione di dedicarsi all’arte dopo un ritiro di tre settimane al convento domenicano di La Tourette, progettato da Le Corbusier. Era il 1966: visse quel periodo in una cella come ospite dei monaci. Voleva semplicemente «riflettere in tutta tranquillità sulle grandi questioni». Allora Kiefer era uno studente di legge e di lingue romanze. Non passò molto tempo da quel soggiorno perché decidesse di dedicare le proprie energie all’arte.
Non mi stupisce che una decisione così sia maturata in un luogo denso di una potenza monumentale impressa dal genio di Le Corbusier. La Tourette per me resta una delle architetture più impressionanti del 900. Un quadrilatero che ha l’aspetto della fortezza, luogo di concentrazione rara. Un luogo quasi brutale, nel suo tagliar fuori il mondo. Ma anche nel suo imporsi al mondo. Mi è sembrato del tutto logico quindi che in un luogo così si potessero maturare decisioni come quella presa da Kiefer.

Written by gfrangi

Giugno 19th, 2011 at 9:58 pm

Lo scrupolo di Le Corbusier

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Le Corbusier a Pier Luigi Nervi, 12 settembre 1960: «Mi renderebbe grande servigio e la pregherei anche, sempre se è d’accordo, di prenotarmi in tempo utile anche tre camere d’albergo singole, senza fronzoli, senza lussi, visto che dovremo solo dormirci» (una lettera pubblicata oggi da Repubblica e custodita negli archivi del MAXXI. Le Corbusier voleva venire a Roma a vistare le strutture olimpiche, a giochi conclusi). Nella lettera si legge anche : «Ho uno scrupolo che è una regola della mia vita: è ogni volta possibile fare meglio».
Altro che archistar…

Written by gfrangi

Maggio 19th, 2011 at 2:21 pm

Belle chiese di oggi. Ecco le fotine richieste…

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Le Corbusier, la chiesa del Convento di La Turette

Gio Ponti, la Concattedrale di Taranto (1964-70)

Steven Holl, Cappella di Sant’Ignazio, Seattle (qui altre foto)

Ignazio Gardella, Sant’Enrico, San Donato (1963)

Carlo Scarpa, San Giovanni Battista a Fiorenzuola

Gustavo Pulizer Finali, Santa Barbara, Arsia (1943)

Alvar Aalto, Chiesa di Santa Maria Assunta, Riola (1966) (qui altre foto)

Written by gfrangi

Novembre 15th, 2010 at 7:50 pm

Belle chiese di oggi. Ecco un elenco

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L’amico Luca mi sfida ad un’ennesima classifica: quella delle più belle chiese moderne, secondo me naturalmente. Premetto che quelle meritevoli sono tante, sicuramente più di quelle che si potrebbero contare nell’ottocento, e che alcune le ho viste solo per fotografia. Seconda premessa, tengo fuori gara la Sagrada Familia, per motivi che sono semplici: troppe le suggestioni che entrano in gioco, troppo diverso l’impegno che la sua costruzione ha comportato.

Secondo: non amo le chiese a vela, quelle con spirali che sembrano coni di panna risucchiati verso il cielo; quelle con gli spazi pensati per produrre suggestioni a man bassa. Tra queste ci sono quelle di Mario Botta, compresa la prima, quella di Mogno, in Valle Maggia, che di per sé non è affatto una brutta architettura. Non amo le chiese di Michelucci, architetture troppo incerte tra eccitazione e passatismo (molto meglio la stazione di Santa Maria Novella…). Mi scuso per le tante mancanze dovute a non sufficiente conoscenza… (sarò grato se integrerete)

Non è una classifica, è un elenco, anche se la tentazione di dire che la chiesa del convento di La Turette sia la più bella è tentazione forte (Le Corbu). Ecco le altre: Alvaro Siza, chiesa di Marco de Canaves, Oporto; Figini Pollini, chiesa Madonna dei Poveri, Milano; Gio Ponti, Concattedrale di Taranto; Alvar Alto, chiesa di Riolo; Le Corbu, Ronchamp; Gardella, Sant’Enrico, a San Donato; Carlo Scarpa, San Giovanni Battista a Fiorenzuola; Steven Holl, cappella di sant’Ignazio, Seattle. Poi ci sono due commoventi chiese della stagione. “fascio e martello” (le città costruite dal fascismo)): la Santa Barbara di Arsia (in Istria) di Gustavo Pulizer Finali, e la chiesa parrocchiale di Segezia (Foggia), con la facciata dolecemente traforata. Ma ho visto solo foto di esterni. Ma perché non citare Santa Maria Rossa di Muzio a Milano, con quella sua volta a botte, oggi delicatamente accarezzata dalle luci di Dan Flavin?

La chiesa più bella forse è una che non è mai stata costruita: è la chiesa di San Carlo alla Barona a Milano di Aldo Rossi. Restano disegni e un modellino. Rossa di mattoni lombardi, struttura da fabbrica ma con grande statue stile san Carlone in facciata. Un colpo al cuore…

Written by gfrangi

Novembre 10th, 2010 at 7:30 pm

Quando si può dire che è una chiesa è bella

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santasabinasbasilicaHa spunti illuminanti il libro di Severino Dianich appena uscito La Chiesa e le sue chiese (nonostante una copertina di grafica un po’ di saporre clericale). Si spiega ad esempio quale sia l’origine dello “spazio chiesa”. Che non è affatto uno spazio per il sacro ma uno spazio per uomini che si radunano, nel nome di un qualcosa che è sacro. Tant’è vero che a differenza dalle altre grandi religioni che tra pagode, moschee e sinagoghe si inventano ambienti a misura del sacro, la chiesa sin dall’inizio usa un impianto già esistente: la basilica romana che era luogo civile e non certo un tempio. Che alla basilica sia stato aggiunto poi un transetto dandole così la forma di una croce è evoluzione morfologica che non cambia quella sostanza iniziale. La chiesa è luogo dove gli uomini si radunano, alle volte con qualche libertà in eccesso, com’era accaduto al Duomo milanese, divenuto una sorta di galleria commerciale ante litteram, sinché san Carlo non rimise tutti in riga chiudendo una delle due porte del transetto e impedendo che la cattedrale fosse luogo di transito e di mercato.

Altro spunto illuminante è quello che riguarda gli architetti moderni alle prese con la committenza ecclesiastica. Tutti dimenticano quel punto di partenza e si fanno invece prendere dal trip di creare lo spazio sacro, con risultati che tutti legittimamente aborriamo. Nascono le chiese – grermbo, le chiese anfiteatro per lo “spettacolo” della messa, e così via. Solo Le Corbusier si accorge del grande equivoco e per questo ha tanta resistenza a mettersi nell’impresa. Alla fine anche lui cede, con risultati esteticamente magnifici (Ronchamp e La Turette), ma ultimamente pur sempre equivoci.

La chiarezza con cui Dianich imposta la questione mi induce a elaborare una classifica delle chiese italiane per me più belle. Dove per “belle” s’intende lo star dentro quell’idea giusta. Eccola dunque, ovviamente sfacciatamente personale.

1. Santa Sabina, Roma

2. San Lorenzo, Milano

3. Sant’Apollinare in Classe, Ravenna

4. Santa Maria del Fiore, Firenze

5. Sant’Ambrogio, Milano

6. Santa Maria Maggiore, Roma

7. San Pietro, Tuscania

8. Duomo, Siracusa

9. Sant’Andrea al Quirinale, Roma

10. San Filippo Neri, Torino

Due nota bene.

Sono escluse meravigliose chiese a pianta centrale (San Tomé, Santa Maria delle Carceri a Prato, la grande chiesa di Todi, Santo Stefano Rotondo), per i criteri di cui sopra. Entra San Lorenzo di Milano, perché pur a pianta centrale è aula quanto mai laica. E poi perché Krautheimer scrisse essere la più bella chiesa del mondo. Secondo, ho guradato agli interni e non agli esterni. Sennò avrei messi una fila di chiese del barocco piemontese e del romanico pugliese.

Written by giuseppefrangi

Marzo 7th, 2009 at 8:02 am

Le Corbusier, Matisse e la testimonianza del vero

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le-corbu2Nico, Riccardo, Cristina e Luca hanno portato da Vence un piccolo gioiello: è la lettera che Le Corbusier scrisse a Matisse nel 1953 dopo aver visitato la cappella di Vence. È una lettera piena di stupore e di gratitudine. Eccone una trascrizione (con qualche parola d’incerta interpretazione):

«Caro Matisse, sono andato a vedere la cappella di Vence. Tutto è gioia e limpidezza e giovinezza. I visitatori, per uno slancio sponetaneo, sono rapiti e affascinati. La vostra opera mi ha dato uno slancio di coraggio – non che me ne manchi – ma ho riempito le mie otri. Questa piccola cappella è una grande testimonianza: quella del vero.
Grazie a voi, una volta di più, la vita è bella. Grazie. A voi il mio ricordo più amichevole.
Le Corbusier».

Colpisce come le biografie di due giganti del 900 s’incrocino in questo luogo piccolo, nato quasi per una coincidenza fortuita («Questa cappella non sono io  che l’ho voluta, è venuta da altrove, de plus haut que moi»). Un luogo che non ha nessuna pretenziosità né culturale, né spirituale. Come dice sempre Matisse di questa cappella, è «un fiore»: «Un giorno sono entrato a Nôtre Dame e sono rimasto impressionato dalla folla, dai canti, dalla solennità. E mi sono detto: in confronto cos’è la mia cappella di Vence? È un fiore.Non è che un fiore. Ma è un fiore» (8 marzo 1952). Come un fiore, è nata da sola: «È curioso: ero guidato non guidavo io. Io non sono che un servitore». Sono meravigliose le riflessioni di Matisse sulla cappella (contenute in Ecrits et propos sur l’art, Hermann). Quando Picasso gli contesta la decisione di fare arte religiosa («Picasso era furioso che io facessi una chiesa»), non si scompone: «Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapete bene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Ha ragione Le Corbusier: la grandezza di Vence è nella sua piccolezza, nella sua semplicità e leggerezza. E fa pensare il fatto che un’intelligenza dall’ambizione colossale come quella di Le Corbusier, si chini sulla bellezza umile e architettonicamente anonima (uno stanzone con i muri squadrati) della cappella di Vence. È una spia del cuore, della tensione vera che lo muoveva.
Ultima riflessione: nel rapporto con l’arte, la chiesa di oggi si barcamena tra ripiegamento sugli stereotipi del passato, sudditanza verso le mode spiritualiste del presente e qualche tentativo di quadratura teologica. Invece deve far pensare come a Vence si sia messa in movimento un’altra dinamica: una grazia che ultimamamente apre soluzioni e esiti imprevisiti. Un fiore. Matisse: «C’è bisogno di un coraggio per l’artista, che deve vedere le cose come le vedesse per la prima volta: bisogna vedere ogni cosa per tutta la vita come quando si era bambini».

matmedal

Written by giuseppefrangi

Gennaio 18th, 2009 at 2:32 pm