Robe da chiodi

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Tanzio, Klein e la stazione Amendola

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Sono state settimane segnate da Tanzio da Varallo. Prima un pomeriggio a Casa Testori per presentare la mostra di Napoli, con Cristina Terzaghi. Con lei anche Davide Dall’Ombra ed Elena De Filippis, conservatrice al Sacro Monte, che raccontando delle cappelle tanziesche in modo molto preciso e filologico, ha rivelato dei nessi e delle scelte di coerenza iconografica bellissimi (l’esempio della porta da cui entra Barabba per il Giudizio di Pilato, che coincide con quella contigua della cappella di Morazzone: uno sgomitare che trasforma alla fine la pittura in scultura). Ma lo stupore è scattato nella sequenza dei particolari presi da vicino degli affreschi, dove si può leggere la scatenata energia di Tanzio nel cogliere sempre le figure in momenti di accensione fisica e insieme psicologica. C’è una elettricità vitale nei suoi affreschi che tracima anche nello stile e nel segno delle pennellate. Mi ero messo di lato e ho fotografato le immagini di scorcio: ma l’effetto non ne esce diminuito. Tanzio è uno che fora sempre il muro, che lo innerva di muscoli, che lo trapassa con la rapacità dei suoi sguardi.
Stessa meraviglia a Napoli, per la mostra essenziale ed esempale a Palazzo Zarvelos (la visiteremo con Cristina Terzaghi il 15 e 16 novembre prossimi): camminare per via Toledo e vedersi apparire aldilà della grande porta a vetri la pala di Domodossola, con il cielo livido e l’aria gelata delle montagne, è un’immagine indimenticabile.
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Bella anche la mostra un po’ “dinoccolata” che Giorgio Zanchetti ha organizzato al Museo del 900: la relazione tra Klein e Fontana è di quelle relazioni non preordinate, in cui affinità poetica e simpatia umana si combinano in una chimica libera e conquistatrice. Si resta conquistati da questi due che agiscono sfrontatamente, senza parole d’ordine e anche con un’inedita allegria. Il lavoro di Zanchetta è esemplare, perché mette in fila con molto ordine ma anche con una narrazione affascinante tutti i fatti e gli incroci su questo asse Milano-Parigi. Resta la fatica di un percorso, molto spezzettato perché il Museo obbliga a percorsi così. Ma è una fatica che costa poco e che vive di continui sussulti. E quando si finisce c’è rammarico perché il labirinto congegnato da quei due geni folli non ci porti ancora altrove.
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Oggi sono 50 anni dalla inaugurazione della MM milanese. Se ne ha poca consapevolezza perché il tempo ha maldestramente macinato quel progetto meraviglioso firmato da Franco Albini e da Bob Noorda. I corrimani rossi, il bullonato nero, il finto marmorizzato alle pareti, il pantone rosso con le indicazioni in Helvetica corretto: un capolavoro di misura e di equilibrio (la foto rende l’idea: è la stazione Duomo fotografata da Ugo Mulas). Per capirne qualcosa bisogna andare alla stazione Amendola, l’unica preservata e custodita secondo il progetto originario. Sembra di mettere piede in un salotto pensato però per tutti e non solo per alcuni. Niente nostalgia, ma in quell’idea di un’infrastruttura affidata all’intelligenza e anche alla capacità poetica di quei due c’era un ipotesi di sviluppo e di modernità in cui Milano poteva essere faro e che invece non è stata perseguita.

Written by gfrangi

Novembre 1st, 2014 at 12:09 pm

Testori a Visconti: “Quel Rocco è troppo gesù”

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Alain Delon in Rocco e i suoi fratelli

Presentazione dei Segreti di Milano al Castello, per Bookcity (pienone di pubblico). Con me Mauro Giori, bravissimo studioso di cinema, autore di due libri su Visconti, di cui uno su Rocco e i suoi fratelli. Per realizzarlo ha studiato tutti i copioni conservati alla Fondazione Gramsci di Roma. Ce n’è uno anche annotato da Testori, a cui era stato chiesto di sistemare i dialoghi in milanese (il film è tratto dal suo Ponte della Ghisolfa). Lui non si limita a quello e annota ai margini alcune considerazioni. Non gli gira il profilo del protagonista, Rocco Parodi (lo avrebbe interpretto Alain Delon). Dice che è troppo angelico, che sembra non vero. Non lo si vede mai fare cose normali, come mangiare, perdere la pazienza… Ad un certo punto annota: «Deve essere più crapone e meno gesù cristo (in minuscolo)». Giori spiega che Visconti non l’ascolta perché lui aveva in testa un Rocco stile principe Myskin dell’Idiota di Dostoevskij. Altra annotazione sulla scena celebre dell’incontro sul tetto del Duomo tra Delon e Girardot: Testori non voleva il Duomo. Non centrava con quella sua Milano.

Quale fosse la sua Milano è ben chiaro. Una città con una cintura vitale esterna e un grande buco al centro, da sorvolare (sarebbe diventato nucleo dell’apocalisse nel Testori tardo). Notavo nella presentazione, che nel momento in cui T. scriveva i Segreti di Milano, alle spalle di via Mac Mahon già c’era il complesso case Mangiagalli Iacp di Gardella Albini (1953) e nel cuore di Vialba, in via Orsini, la Casa per lavoratori Incis, queste firmate solo da Franco Albini. Case meravigliosamente milanesi, per quella capacità di essere popolari e non massificanti. Quella di Vialba in particolare, con la pianta a “J” e i ballatoi che tagliano il grande angolo, reinterpretazione del tema delle case a ringhiera. Sono case in cui il fattore della relazione tra chi abita è ancora un fattore architettonicamente rilevante. Come nella narrativa di Testori, le case sono palcoscenici che tengono un lato sempre aperto, così le case di Albini tessono dialoghi continui tra chi le abita. Non appartamenti (nel senso etimologico) ma luoghi di continue contiguità.

Written by gfrangi

Novembre 19th, 2012 at 7:03 am

Dieci sguardi che mi fanno innamorare di Milano

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Hanno chiesto a Giuliano Pisapia i dieci luoghi di Milano che ama di più. L’outing devo dire è deludente: un po’ scontato e troppo politicamente corrette nelle sue scelte. L’amico no name mi sfida a scoprire le mie carte. Lo faccio volentieri, consapevole di avere un debole: più che i luoghi amo le architetture che li plasmano. Più che luoghi sono punti di vista sulla città, omaggio a quegli architetti che hanno saputo esprimere un’idea così alta, moderna e civile di città. (e manca all’appello uno di questi luoghi, di cui conservo ancora il sapore e l’odore – per via della gomma bullonata: la banchina del Metro 1 alla stazione Duomo, con le linee perfette di Albini e l’helvetica di Bob Noorda. Un vero capolavoro di eleganza in dimensione quotidiana. Tutto saccheggiato. Ci resta solo la foto di Ugo Mulas).
1. Lo stadio di San Siro visto da via San Giusto, con in primo piano la stecca a somma perfetta di quadrati di Figini Pollini e dietro l’immenso vascone di tanti trionfi.
2. Il grattacielo Pirelli visto di spigolo
3. Il Duomo visto da dietro, nel punto in cui via Larga sfiora piazza Fontana.
4. L’uscita da Milano su viale Scarampo con i grandi trapezi di vetro di Gino Valle sulla sinistra. Un frammento metropolitano meraviglioso se avete la fortuna di passare di lì nel pieno di un tramonto.
5. Vialba, dove la strada curva tra il campo Bariviera Tadini e le case di Franco Albini.
6. Corso Italia nel punto in cui irrompe la prua bianca del palazzo di Luigi Moretti.
7. Il chiostro grande della Statale, stando nell’angolo, dove si vede la torre Velasca spuntar sopra i tetti del
Filarete.
8. Il sagrato della Madonna dei Poveri a Baggio.
9. Il porticato di Aldo Rossi al complesso Monte Amiata al Gallaratese.
10. La sala firmata BBPR del Castello, nello snodo che nasconde la Pietà Rondanini alla tomba di Gaston de Foix.
11. Mi permetto di sforare: piazza degli Affari, esaltata nelle sue line dall’innesto della mano di Cattelan.

Written by gfrangi

Maggio 27th, 2011 at 8:57 am

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Da Albini a Ponti, l’Italia delle geniali cose da poco

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In questi giorni bazzicando qua e là per il Salone del mobile, mi sono seduto su una sdraio larga e ospitale disegnata da Vico Magistretti (foto sotto), sull’agile Superleggera di Gio Ponti, su una seggiola anche lei leggerissima di Chiavari che un gruppo di ragazzi appassionati ha deciso di rilanciare ( foto sopra; andate a vederla anche sul sito www.segnoitaliano.it). Poi ho rivisto il Veliero di Franco Albini, rimesso in catalogo da Cassina (foto sotto). L’ho rivisto collocato in un contesto simil casa, restare aereo e sospeso, seppur carico di libri. Cose geniali, che non temono di esser anche cose da poco. Cose semplici e leggere, che mettono di buon umore. A Venezia il 20 riaprono il negozio Olivetti disegnato da Scarpa restaurato: leggendo l’articolo di Fulvio Irace che lo annuncio, scopro che ha una dimensione di 20 metri di profondità per solo 5 di larghezza. Dalle foto me ne ero fatto idea di uno spazio fluido e senza ristrettezze: magie di Scarpa. È vero, è un pezzo di magnifica archeologia, visto che la realtà produttiva che aveva fatto essere quel gioiello è stata spazzata via. Ma è pur sempre un altro sintomo di un’Italia che non vuole perdersi.

Sono spezzoni di un’Italia magnifica, che sapeva trovare risposte alte a questioni banali. Anche Koolhaas ne ha parlato alla biennale per la democrazia di Torino, ha avuto parole di elogio per l’architettura italiana di primo Novecento, facendo coraggiosamente riferimento anche all’architettura della stagione fascista. Ha elogiato l’indistinto tipico di certe aree urbane della prima metà del Novecento, dove tutto era aperto, «anche la possibilità di avventura», in confronto agli spazi urbani superorganizzati di oggi, dove «ogni metro è occupato da un’opera d’arte, ogni percorso è definito, dove niente può più avvenire. Angosciante».

Written by gfrangi

Aprile 18th, 2011 at 8:01 am

Caravaggio, questione di sguardi

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Dopo tanti anni di nuovo a Genova, a Palazzo Bianco, davanti all’Ecce Homo di Caravaggio. Dell’allestimento delicato e perfetto di Franco Albini restano solo poche reliquie, ma una di queste tocca proprio al capolavoro: la parete con lastre di granito che gli fa da sfondo. Dobbiamo a Roberto Longhi e a Caterina Marcenaro, la mitica direttrice delle Bella Arti a Genova, la riemersione di quest’opera abbandonata tra uffici, magazzini e sottotetti e tenuta in condizioni penose sino al 1954. La Marcenaro si accorse che non era un quadro qualunque. Longhi la pubblicò, senza incertezze sull’autografia caravaggesca, su Paragone nel febbraio 1954. Il quadro ha un’evidenza clamorosa nella sua semplicità: tre personaggi, su tre piani, dietro a una balaustra. C’è un Pilato senza tentennamenti che mostra al popolo (che siamo noi, aldiqua della balaustra), un Cristo di struggente dolcezza e remissività. Dietro lo sbirro regge il mantello e guarda la vittima con l’abitudinario disprezzo. Ma basta una lettura epidermica del quadro per accorgersi come Caravaggio condensi genialmente la scena nel gioco degli sguardi. C’è lo sguardo di Pilato, sgranato, potente, aggressivo. Lo sguardo di uno che sa quel che vuole e che ruba la scena (nel senso letterale, perché a differenza dell’iconografia tradizionale conquista il primo piano). E c’è il non-sguardo di Cristo. Che sta con la testa china e le palpebre abbassate, un passo indietro. Non li vediamo gli occhi di Cristo, emblema di innocenza. E a memoria non ricordo un’immagine simile. La voracità di Pilato contro il silenzio denso d’obbedienza di Cristo. Non si poteva pensare nulla che potesse restituire con più definitività l’Ecce Homo.

Longhi poi aggiunse un’altra ipotesi tremendamente suggestiva. Pensò che nel Pilato Caravaggio si fosse rappresentato, e portò una serie di credibili analogie somatiche con effigi note del pittore («la somiglianza profonda delle orbite incassate, delle palpebre spesse come di cuoio, delle sopracciglia rialzate quasi per orrore fisso…»). Portò allo scoperto un altro particolare che poteva confermare la sua ipotesi: le mani di Pilato sono nella posizione di un pittore che si fa un autoritratto, la sinistra che tiene la tavolozza, la destra che con il pennello s’appresta a dipingere il «torso di Cristo che sboccia intatto e virginale, come dal mallo, una scultura arcaica». Il tutto senza una briciola di compiacimento. Chiude Longhi: «Anche per noi oggi, è pur questa l’iilusione di realtà intrepida e straziante che promana dall’Ecce Homo ritrovato a Genova»

Written by giuseppefrangi

Novembre 4th, 2008 at 12:04 am