Robe da chiodi

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Kounellis in cattedrale. Pensieri sul caso Reggio

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La cattedra vescovile di Kounellis: realizzate con vecchie assi di un soffitto a cassettoni del '400

Coincidenze. Apro Vernissage l’allegato al Giornale dell’Arte e trovo un servizio completo sui nuovi arredi liturgici della cattedrale di Reggio Emilia. Un’operazione in grande stile, che ha visto impegnati nomi importanti come Kounellis (suo il podio con la sedia vescovile), Claudio Parmeggiani (altare), Ettore Spalletti (candelabro pasquale)… Oggettivamente sono tutti interventi di alta qualità stilistica, affidati ad artisti seri e importanti. Quindi trovo che le contestazioni un po’ triviali che hanno accompagnato la presentazione di questo allestimento siano del tutto fuori luogo. Mi chiedo perché non facciano piuttosto problema gli sperperi in arredi stile “aiazzone” che invadono le chiese italiane: pulpiti e leggii orrendi, candelabri che non si possono guardare, altari da vetrina… Marmi traslucidi, ottoni, vetro a piovere…
A Reggio le cose sono state fatte con attenzione e con artisti che hanno rispettato gli equilibri del luogo. Il problema che io pongo quindi non è sulla qualità degli interventi, ma semmai sul percorso che porta a questi interventi. A me sembra che quando gli artisti entrano in chiesa abbiano la grande preoccupazione di mantenere una distanza che li rende comunque “ospiti” sotto quelle navate. Si ricorre a un linguaggio molto allusivo, sempre elegante, che si tiene alla larga da nessi troppo stringenti con la tradizione. Così viene meno il senso di un impegno che dovrebbe essere invece concepito come una sfida. La colpa ovviamente pesa molto anche sulle spalle della committenza, incapace di giocare l’enorme portato della storia e della tradizione nel rapporto con gli artisti. E a volte si resta in loro balìa. Ci si accontenta di avere incassato il loro consenso alla committenza e non chiede altro.
Coincidenza vuole che proprio in questi giorni abbia avuto la fortuna di lavorare a un piccolo libretto che documenta il lavoro fatto da un artista bergamasco in una chiesa in Ecuador. Gianriccardo Piccoli ha realizzato una grande Pentecoste, che incrocia in modo sorprendente e delicato attualità e tradizione. Ci tornerò su questo suo lavoro. Ma intanto sottolineo due fattori. Il primo, che Piccoli ha accettato di non fare semplicemente se stesso ma di rischiare una sfida vera con quel soggetto. Il secondo, che abbia pensato a chi era il destinatario di quel suo lavoro: il popolo dei fedeli, realizzando così un’opera preziosa ma comprensibile e cercando di restituire anche un’energia emotivamente coinvolgente.
Sono due fattori semplici, che non si tengono mai presenti nella committenza troppo intellettuale della chiesa in Italia. Il risultato è che opera anche significative stanno dentro le chiese come stessero in un museo. Magari guardate con sufficienza o con (ingiusto) disprezzo da coloro per le quali dovrebbero essere state ultimamente realizzate.
Tornando al caso di Reggio l’unico che mi sembra sia davvero andato in profondità, plasmando un lavoro pensato per il luogo e per la funzione a cui è adibito è stato Jannis Kounellis. Come ha scritto Alberto Melloni la sua cattedra è un «oggetto teologicamente commovente. Un assito di legno antico e scuro, e sopra un nudo sedile di ferro: non segni, ma materia della croce, attorno alla quale si stende il corpo di Cristo che è la communio dei fedeli». (Le assi quattrocentesche conservano ancora i chiodi fatti a mano con cui furono fissati. Suggestivamente possiamo pensare ad un’opera a quattro mani, quelle di Kounellis e quelle del popolo di allora…)

Written by gfrangi

Febbraio 1st, 2012 at 10:53 pm

Ancora Paladino, Ai Weiwei e Parmiggiani. Appunti dal week end

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Vista la mostra di Paladino. I suoi eroi sono i dormienti o uomini con il volto girato verso il muro. Posso dire che non è il tipo di eroe che mi interessa. Paladino è un artista in perenne stand by: non si coglie un percorso. È un artista il cui orologio si è fermato, un po’ come fosse anche lui uno degli uomini ingessati per l’eternità dall’eruzione di Pompei. È un artista di un intimismo da ritorno al privato: il suo Mi ritiro in silenzio a dipingere un quadro (1977), mi sembra rivisto oggi l’idea di uno che si mette nell’angolo e ci sta bene. Voleva essere una risposta, non barricadera, al dominio del concettuale e del minimalismo. Ma c’è da ricordare che c’erano in quel momento artisti che scegliendo la pittura non stavano affatto nell’angolo. Tra i vecchi Bacon e De Kooning. Tra i giovani i nuovi selvaggi tedeschi.

Palazzo Reale. Detto questo, l’allestimento della mostra realizzato da  Giovanni Tortelli è magnifico. Semplicissimo, rigorosamente bianco, ma con una capacità di valorizzare gli spazi dalasciare a bocca aperta: non sembra nemmeno di essere a Palazzo reale. Speriamo che chi farà mostre d’ora in poi tenga conto di questa lezione…

L’artigiano cinese. Hanno arrestao Ai Weiwei, l’artista cinese che ha riempito la Turbin Hall della Tate Modern con 15 milioni di semi di girasole in ceramica realizzati dagli artigiani da più di 1600 lavoratori della città cinese di Jingdezhen, famosa per la produzione della porcellana Imperiale. Mi è piaciuta la motivazione: “L’artigianato contro la produzione di massa”. Detta da un cinese è una bella sfida. Ma Richard Sennett nel suo stupendo libro L’uomo artigiano (Feltrinelli) ci aveva avvertito che un’invwersione di marcia era possibile….

Claudio e Claudia. Infine. Domani va all’asta la racconta di Claudia Gian Ferrari da Sotheby’s. Sul cartoncino d’invito c’era questo bella cosa di Parmiggiani. Delicato epigono morandiano.

Written by gfrangi

Aprile 11th, 2011 at 10:58 am

Parmiggiani, un’overdose di perfezione

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Mattinata a  Parma per un convegno. C’è la grande mostra di Claudio Parmiggiani, un genius loci, che qui può lavorare a mani libere. La mostra è allestita ala Palazzo del Governatore, rimesso a nuovo. Stanze linde, che s’affacciano sull’abside della Steccata e su Piazza Garibaldi. Ogni stanza un’opera. Un allestimento iperminimale, senza targhette e senza nessuna scritta di aiuto. La mostra in quel momento è vuota, ma ogni sala ha di fatto una custode che la presidia. Una di loro accetta di farmi da guida. È precisa sui titoli delle opere, sulle ragioni di ciascuna, sulle scelte dell’allestimento. Insomma è preparata, davvero. L’unica cosa che non sa sono le date delle opere. L’allestimento ovviamente non segue nessun andamento cronologico: c’è come un “complesso” del tempo. Come si trattasse di una dimensione “sporca” da lasciarsi alle spalle. Eppure, quando vengo a sapere le date, si scorge che un percorso c’è. Se si sgranano le opere in sequenza cronologica, si scopre che c’e una gentilezza iniziale (Cerchio di piume, cerchio di fuoco, 1969) e un momento molto potente sulla fine degli anni 90:  gli anni dei 365 grandi pani di ferro disposti per terra e soprattutto della gigantesca ancora che trapassa il muro (Nel cuore, il titolo). Sono opere sulle quali non è ancora calato il mutismo così estenuato da  chiedersi se non sia anche un po’ compiaciuto della propria eleganza, che prevale nell’ultimo decennio…

Parmiggiani ha sempre avuto in Giorgio Morandi il suo artista mito. E lo si capisce. Ma nel silenzio monacale, l’arte di Morandi non stacca mai il sibilo tenero e insistente del mistero. È come un baluginio che dà respisro e consistenza. In Parmiggiani il silenzio diventa invece un vuoto calcolato assordante (sopra il pianoforte c’è il calco di bronzo di un orecchio con conficcato un coltello…). Come se la spina fosse stata elegantemente staccata e non restasse che un’arte del tuto afona. Nella piccola chiesa di san Marcellino Parmiggiani ha portato 100mila libri che riempiono abside e presbiterio e s’interrompono di netto all’altezza della navata. Sopra ha posizionato un bellissimo gozzo ligure di 18 metri, trovato nelle acque di Santa Margherita ligure: la chiglia taglia il mare di carta, la prua si proietta in mezzo alla navata. Gli alberi e le vele sono ammainate come in prospettiva di un naufragio. Tutto suggestivo, tutto elegante. Tutto abbastanza compiaciuto. Naufuagio con spettatore, è il titolo: come se in realtà non ci riguardasse. L’arte di Parmiggiani si chiama infatti fuori dall’arena del mondo e della storia. E dalle sue dimensioni (il tempo, innanzitutto). È un rito propiziatorio e vagamente esoterico in vista di un day after senza più scorie. Un day after perfetto, impeccabile, curato nei minimi dettagli.

Written by gfrangi

Febbraio 9th, 2011 at 8:55 am