Robe da chiodi

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Tre mostre che, fossi in voi, non perderei

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veronese

Domenica chiude Veronese, peccato lasciarselo scappare. Non entro nei dettagli della mostra, che mi sembra tutta giusta forse fuorché il titolo che non mi convinc (L’illusione della realtà: non mi sembra Veronese un maestro dell’illusione. Semmai rende reale anche ciò che può sembrare illusorio…). Comunque sia, accade alla mostra un effetto che mi è capitato raramente di sperimentare: appena si entra e la porta d’ingresso scatta alle nostre spalle, la sensazione è davvero di entrare in un mondo a parte, in un regno del benessere. L’allestimento di Alba Di Lieto e Nicola Brunelli luminoso, ben scandito, con punti di fuga che aprono le sale (nella foto), aiuta questo effetto. Ma Veronese non è solo a Verona. A Vicenza, nel Palladio Museum, c’è la bellissima appendice, con le due allegorie ritrovate da Cristina Moro alla villa San Remigio a Verbania Pallanza. Le due allegorie dopo secoli sono state riunite alle altre due conservate a Los Angeles. Un quartetto impreziosito da un tocco di classe: i due paesaggi cezanniani dell’ultimo Boccioni, dipinti proprio nella Villa sul Lago Maggiore. Anche a Vicenza si chiude domenica-

Sabato invece apre al Mart la mostra sulla Grande Guerra. Il titolo è da una poesia di Brecht (“La prossima guerra non sarà la prima”), e la mostra si annuncia come una mostra che non si è mai vista. Da un’intervista realizzata per Vita a Cristiana Collu: «Non è scontata e non poteva esserlo. Avremmo tradito la nostra funzione. Chiediamo alla storia una precisione rispetto a come sono andate le cose, ma poi resta aperta la questione del senso di quello che è accaduto, della verità che a volte può essere crudele, con il rischio di “pornografia delle immagini” che ogni racconto della guerra inevitabilmente porta con sé. Bisognava saper trasmettere un’empatia senza cedere al sentimentalismo. Ci voleva un’empatia consapevole, e per fortuna la poesia ci è venuta in soccorso». Sono curisossimo di vedere l’effetto che fa.

Per merito di Fulvio Irace (recensione sul Sole di domenica 21 settembre) ho scoperto la piccola mostra di Lina Bo Bardi alla Triennale di Milano. Andate a vederla, per scoprire un personaggio così dentro lo spirito del nostro tempo, senza protagonismi, ma con una vocazione ad un’architettura alla portata di chi la vive. Senza timori di essere povera o brutalista. Anche la mostra accompagna il suo stile, con filmati in cui le architetture vengono raccontate per come sono vissute: in particolare il filmato sul SESC Pompéia, il centro culturale realizzato a San Paolo nelle strutture di una vecchia industria.

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Settembre 30th, 2014 at 11:36 am

Il Cristo rotante di Antonello

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Questo pensiero sul Salvator Mundi di Antonello l’ho scritto per la rubrica Riquadri che tengo sul bel sito Piccole note. La ripropongo anche qui, un po’ a bilancio di una mostra che non dimenticherò facilmente.

Le mani del Salvator Mundi di Antonello. Si scorge il pentimento con la rotazione delle dita.

Le mani del Salvator Mundi di Antonello. Si scorge il pentimento con la rotazione delle dita.

Ora che si è chiusa la mostra su Antonello al Mart (la più bella del 2013, non solo a parer mio), è importante tornare su un quadro eccezionale che era esposto. È il Salvator Mundi, arrivato dalla National Gallery di Londra. È un quadro chiave, firmato e datato 1465, non solo della storia di Antonello, ma anche della storia della pittura e in un certo senso della “nostra” storia. Il quadro è piccolo, in obbedienza a quella committenza nuova (la “gens nova”: mercanti, borghesi…) che Antonello aveva intercettato e che richiedeva opere a funzione devozionale per ambienti privati. È un’opera che applica però un canone antico: il volto di Cristo benedicente, ha la ieraticità di un’icona. Ha uno sguardo fisso verso di noi, uno sguardo non consumato né consumabile dal tempo. Per quanto la forma del volto sia pienamente compiuta e non solo stilizzata come accade nelle icone, riesce a trasmetter quella dimensione che, nella forma umana, lascia trapelare un’impronta del divino. Il Salvator Mundi è in atteggiamento benedicente, un po’ come gli antichi Cristi Pantocratori delle absidi medievali. Le due mani spuntano da quel piccolo davanzale in primo piano, che ci dà una sensazione di un “da sotto in su”, in contrasto con la frontalità chiara del volto. Ma è proprio questa semplice correzione nella costruzione del quadro, che innesca una sorta di accensione. In più c’è da osservare un particolare chiave: Antonello corregge in corsa la mano benedicente, che in una prima versione era messa più di traverso e che invece nella versione definitiva ruota in posizione frontale, imponendosi così di realizzare uno scorcio della massima difficoltà. Ma questa rotazione è come una leva che spacca e apre lo spazio. Alle due dimensioni della tavola ne aggiunge una terza, che è quella che non va verso il fondo, ma viene verso dove noi siamo.
Antonello mettendo in campo le innovazioni della nuova pittura italiana capace di aprire profondità e volumi, ne fa uno strumento per creare una contiguità tra lo spazio dove Cristo è e quello dove noi siamo. Dieci anni dopo avrebbe fatto la stessa cosa con la mano allungata della sua meravigliosa Annunciata. Ma qui c’è lo stupore della prima volta. E anche la sensazione di un’audacia messa in campo. È questo che dà un’elettricità e una vibrazione così contemporanea, a questa icona così disciplinatamente antica. (Non è un caso che Romeo Castellucci l’avesse scelta, riprodotta su scala enorme, come sfondo del spettacolo tanto stupidamente discusso ma tanto vero, Sul concetto di volto del figlio di Dio).

Dove porti la strada avviata con la rotazione delle dita benedicenti, lo si vede nel Cristo alla colonna del Louvre, pure presente in mostra. Lì la rotazione è di tutti i volumi; è una torsione che non provoca nessuna distorsione delle forme, e che racconta uno stato vertiginoso del dolore che non si esprime con lacerazioni ma con una spasmodica compostezza compositiva.

Written by gfrangi

Gennaio 14th, 2014 at 10:10 pm

A proposito della Magnifica Ossessione

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Giovanni Anselmo, Entrare nell'opera, 1971

Giovanni Anselmo, Entrare nell’opera, 1971

Dopo Antonello, visita alla Magnifica Ossessione, ultimo piano, allestimento congegnato dalla Cristiana Collu, direttrice del Mart, per familiarizzare con il grande patrimonio della collezione (un km di cammino nelle sale, 2750 oggetti esposti recita il sito.) Consiglio a tutti la visita, prima che l’allestimento venga smantellato (16 febbraio): è una vera lezione di come si possa scuotere un museo senza prevaricarlo. Le sale sono organizzate ad accorpamenti, che sono tematici o anche più sofisticati. Non ci sono didascalie (una guida serve per orientamento), non ci sono gerarchie. Ma fa impressione come questi accorpamenti risuscitino l’energia di tante opere che in allestimenti tradizionali percepivi un po’ inerti, un po’ addormentate. Per rendere l’idea: la sala dedicata agli artisti di sinistra è concepita con due pareti dove si fronteggiano da una parte i “guttusiani” e dall’altra gli astrattisti alla Vedova. Tutti disposti a massa, come si trattasse davvero di due fronti che si sfidano a ranghi compatti. L’impressione visiva vale più di una lezione di storia. La grande sala affollata dall’architettura degli Anni 30, con modellini, disegni e foto di architettura parla da sola di una stagione quanto mai forte del nostro paese. Ci si lustra gli occhi a vedere quante meraviglie, pensate in modo molto funzionale, abbianmo costellato quel decennio. Un’appendice è la sala per la villa di Curzo Malaparte a Capri. Sullo schermo scorrono le immagini del film di Godard con la Bardot (Le Mepris, 1963) girato nella villa. Di fronte le foto di Basilico; la grande parete centrale invece è tappezzata dalle immagini di Mimmo Jodice su Capri. Non si uscirebbe mai da quell’acqua…
Si chiude con un quadro stupendo di Giovanni Anselmo, “Entrare nell’opera”: un autoscatto del 1971, di 3metri per 5: mi sembra la metafora della Magnifica Ossessione.

Written by gfrangi

Dicembre 15th, 2013 at 10:19 am

Visita ad Antonello. Quando una mostra centra l’obiettivo

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Antonello-da-Messina-veduta-della-mostra-allestita-al-MART-Rovereto-ottobre-2013-1
Settimana scorsa visita con Associazione Testori al Mart per la mostra di Antonello. Alcuni spunti (scusate se insito su questo tema, ma è una di quelle occasioni – così rare – che aiutano a riflettere)
1. Ho trovato molto intelligente l’allestimento (firmato da Giovanni Maria Filindeu; qui lo vedete sullo sfondo dell’intervista a Ferdinando Bologna), perché inserirsi in un contesto abitato per “statuto” dal 900 e dal contemporaneo non era facile. La scelta del bianco, insieme a quell’addomesticamento dello spazio realizzato con quelle modanature gotiche a comporre degli arcosoli che proteggono le opere, funziona. Funziona benissimo la luce piena, che invade tutto il percorso, e che esalta una delle caratteristiche genetiche della pittura di Antonello, che è proprio quella luce che costruisce i solidi. È una mostra in cui ci si sente bene, e da cui si fa francamente fatica ad uscire. La visita bis serale, a sale ormai vuote, prima di ripartire per Milano, è una delle cose che ricorderò a lungo.
2. Nell’allestimento ho trovato azzeccato l’incardinamento del primo spazio attorno alla grande tavola con il Sant’Antonio di Giovanni da Capestrano. Non è un capolavoro, ma nella sua ampiezza rende bene quel che stava accadendo nel profondo della pittura italiana in quello scorcio di 400. È il sommovimento pierfrancescano che pervade tutto, anche lo spazio di questo maestro aquilano operativo a Napoli negli anni dell’apprendistato di Antonello. Il fondo oro del colosso sfondato alla base dalla pacifica ma fatale invasione del piedistallo di marmo che crea uno spazio nuovo, è la cifra del nuovo.
3. La circolarità dell’allestimento dice anche di questi continui ritorni di Antonello a ripescare idee dal suo passato. Il risultato della circolarità è che quando si arriva alla Annunciata di Palermo, capolavoro assoluto esposto giustamente senza enfasi (parla da sé), ci si trova alle spalle quello straordinario gioiello che è l’Annunciata di Como, da cui si era partiti. E mettendosi ad un certo angolo, l’occhio le prende tutt’e due. Come dire, tutto si tiene…
4. Ultima considerazione. La mostra è filologica sino all’ossessione, ma ha un respiro molto contemporaneo. Vuol dire che l’obiettivo è stato centrato.

Written by gfrangi

Dicembre 15th, 2013 at 9:58 am

Ferdinando Bologna, lezione su Antonello

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Antonello, le mani del Cristo benedicente, Londra, National Gallery

Antonello, le mani del Cristo benedicente, Londra, National Gallery

È una lettura preziosa e imperdibile la lunga intervista a Ferdinando Bologna, che sostituisce il saggio di catalogo per la mostra di Antonello a Rovereto (Electa, a 30 euro se comperato online). È il co-curatore, Federico De Melis, a firmarla, costruendo un dialogo serrato, a tratti anche accanito, il cui metodo è quello di non lasciare mai nulla nel vago. È un’intervista molto ben costruita, che per quanto ardua nella fitta rete di rimandi e di riferimenti, procede con grande chiarezza, rimontando la vita di Antonello sull’asse della cronologia. Ma soprattutto è un’intervista che ponendo tutte le questioni chiave relative alla figura del grande artista siciliano, diventa occasione per Ferdinando Bologna di fare uno straordinario esercizio critico ma anche intellettuale, dimostrando passo passo la tenuta e la coerenza della propria lettura di Antonello. Che poi diventa una lettura (molto affascinante) di come funzionavano il meccanismi del fare arte nell’Italia di quegli straordinari decenni. Dice Bologna: «Non abbiamo ancora un quadro dettagliato e storicamente attendibile di come gli artisti si spostassero nel Quattrocento: è sicuro però che facevano viaggi di lavoro più spesso di quanto possiamo immaginare e durante questi viaggi si informavano sui fatti figurativi all’ordine del giorno. Un pittore sveglio e prensile come Antonello non si lasciava certo sfuggire, al contrario cercava con vivissima voglia, le occasioni di arricchimento e il Piero della Francesca ultima maniera, è impensabile che non andasse a cercarselo, e, per così dire a stanarlo» (il riferimento è in particolare alla pala di Brera, originariamente ad Urbino, vista verosimilimente da Antonello nel viaggio verso Venezia).
Con Antonello, dice Bologna, «ci troviamo di fronte a un maestro dall’orizzonte intellettuale molto complesso. Egli rappresenta una sfida dal punto di vista metodologico, perché mentre avanza riconsidera e rielabora le fasi precedenti, e mentre sembra attardarsi anticipa motivi che secondo schema dovrebbero intervenire in un secondo momento».
Naturalmente al cuore di questo percorso c’è la questione del rapporto con Piero della Francesca; rapporto che non si può poggiare su elementi documentari, ma che trova evidenze decisive nella lettura «sintattica e strutturale dei testi figurativi» (contro le recenti letture impressionistiche). È una lettura che arriva rintracciare e riconnettere in modo coerente tutti gli input che avevano fatto di Antonello l’artista più “connesso” del suo tempo.
Il catalogo presenta anche un’altra soluzione molto innovativa: il percorso della fortuna di Antonello, curato da Simone Facchinetti, realizzata con brevi testi e attraverso comprensibilissime immagini di confronto. Unz soluzione che speriamo faccia scuola…
PS: sarà proprio Simone Facchinetti a guidare la visita organizzata alla mostra da Associazione Testori per il prossimo 7 dicembre. Qui i particolari.

Written by gfrangi

Novembre 18th, 2013 at 11:43 am

Antonello contro Antonello

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Antonello, Annunciazione, Siracusa, Palazzo Bellomo

Antonello, Annunciazione, Siracusa, Palazzo Bellomo

(versione integrale della presentazione della mostra di Antonello al Mart scritto per Panorama)

Antonello contro Antonello. A distanza di appena sette anni, una delle star del nostro 1400 torna protagonista di una grande mostra. Una prossimità cronologica che certo incuriosisce, visto che per rintracciare un’altra rassegna dedicata al genio messinese bisogna risalire al 1953, anno della leggendaria esposizione allestita a Messina da Carlo Scarpa. Ma la mostra di Roma 2006 e questa che si apre il 5 ottobre al Mart di Rovereto non sono soltanto molto diverse per impostazione. È profondamente diverso, soprattutto, l’Antonello che ne esce.
Basta mettere a paragone gli elenchi delle opere esposte per rendersene conto. A Roma Antonello era presenza assolutamente egemone, al Mart invece Antonello dialoga con tante figure rappresentative dei suoi anni, compresi grandi come Van Eyck, Jean Fouquet. A Roma era prevalsa l’idea dell’artista che nasce da se stesso, genio e quindi un po’ feticcio; la nuova mostra invece rilancia l’immagine di un artista nato dentro un crogiuolo straordinario di relazioni, che vanno dalla pittura fiamminga, passando per gli influssi valenciani e borgognoni sino all’incontro con la rivoluzionaria visione introdotta da Piero della Francesca. È l’Antonello nato dalle intuizioni e dagli studi del più grande storico dell’arte del 900, Roberto Longhi: cioè l’artista che meglio sintetizza la civiltà della circolazione mediterranea.
In occasione della mostra di Roma questa interpretazione longhiana era stata accantonata, suscitando perplessità e anche qualche stroncatura furiosa; al Mart invece la si rilancia, supportata da nuovi studi. Non a caso come curatore è arrivato Ferdinando Bologna, grande storico dell’arte, che era stato collaboratore di Longhi e che ha accettato la sfida con entusiasmo ed energia, a dispetto dei suoi 88 anni. Insieme a lui, a firmare la mostra, c’è un altro studioso di cultura longhiana, ma di un paio di generazioni più giovane, Federico De Melis. In catalogo (Electa), anziché il consueto saggio, ci sarà una sua lunga intervista a Ferdinando Bologna. Il titolo è molto indicativo: “Antonello e gli altri”
«Antonello è un pittore congiunturale», sottolinea De Melis. «Per questo il percorso della mostra si annuncia multistrato, ricco di incroci, con tante opere che vogliono documentare puntualmente tutti gli scambi da cui Antonello ha tratto linfa per dar vita alla sua meravigliosa poetica». Si approfondiscono i contatti determinanti degli inizi palermitani, città di cultura internazionale, come dimostra lo straordinario Trionfo della Morte oggi a Palazzo Abatellis; si scoprono le correlazioni con un grande artista mediterraneo come il Maestro di San Giovanni da Capestrano, presente in mostra con uno straordinario Sant’Antonio. Non manca naturalmente un riferimento a Piero, vera pietra angolare della visione longhiana, evocato da un Ritratto di Alfonso d’Aragona (dal Musée Jacquemart-André di Parigi), probabile replica di un originale perduto del genio di Borgo Sansepolcro: proprio a Napoli, secondo Fedrinando Bologna, potrebbe esserci stato l’incontro tra lui e Antonello.

Written by gfrangi

Settembre 26th, 2013 at 10:09 pm

Gina Pane, parole sante

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Gina Pane, La chair ressuscité, 1988

C’è una mostra che davvero non vorrei perdere ed è quella di Gina Pane al Mart di Rovereto: mi interessa lei e mi interessa questa mostra che due recensioni ben fatte (Riccardo Venturi su Alias e Giancarlo Papi su Avvenire) confermano essere un’ottima mostra.
Ma Gina Pane mi interessa perché è la riprova della gratuità dell’arte. Mi riferisco a quella serie di opere finali, che io ho solo visto riprodotte e raccontate, in cui chiusa la stagione della body art Pane si sposta dal proprio corpo al corpo dei santi. È un passaggio tanto intenso quanto imprevisto che illumina di senso anche la sua stagione precedente e che dimostra come sul rapporto tra arte e fede forse è meglio lasciar perdere teorie e discorsi e osservare umilmente l’imprevisto di certe esperienze.
Quella di Gina Pane, ad esempio, è davvero tanto semplice quanto sorprendente. Mi è capitata tra le mani una lettera scritta da un amico acuto (Camillo Ravasi) qualche anno fa in cui mi allegava una pagina della rivista Il contemporaneo con un ritratto dell’artista realizzato attraverso le sue parole. Vi riporto alcuni passaggi, che non hanno bisogno di nessuno commento.

Cos’è il corpo per Gina Pane?
«È il nucleo irriducibile dell’essere umano, la sua parte più fragile. È sempre stata tale, sotto tutti i sistemi sociali, in qualsiasi momento della storia. È la ferita è la memoria del corpo; essa memorizza la sua fragilità, il suo dolore, dunque la sua esistenza “reale”. È una difesa contro l’oggetto e contro la protesi mentale».

Perché l’attenzione al corpo dei santi?
«Ciò che mi interessa nel corpo del Santo è la sua capacità di svuotarsi, per poi riempirsi, il suo “non funzionamento” rispetto a una realtà di consumo. È il rapporto tra la fragilità di quella carne – il santo è là, ed è un corpo, un uomo – e la forza immateriale che lo abita. Soprattutto mi interessa il cammino, la strada da compiere per arrivare a questo. Mi interessa capire come San Francesco ha potuto essere quello che è stato. Non mi interessa certo fare dell’agiografia. Io colloco questo lavoro dei santi nella società attuale, nella nostra vita di ogni giorno».

Che cos’è l’avanguardia?
«Giotto e Cristo»

Written by gfrangi

Maggio 16th, 2012 at 10:16 pm

La perfezione s’addice a Modigliani

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Davvero straordinaria la mostra delle sculture di Modigliani vista al Mart di Rovereto, curata da Flavio Fergonzi. Bellissimo l’allestimento (le sculture di Modigliani, tutte dentro teche, al centro del percorso; sui lati quelle degli artisti di quegli anni generosi di Parigi, tra il 10 e il 20 e tutte le sculture primitive o antiche che avevano innescato tanta generosità di nuove forme). Ad un certo punto dopo il primo corridoio, il percorso svolta verso destra e ci si trova davanti a questa immagine stupefacente che vedete qui sopra. Il capolavoro, oggi conservato alla Tate di Londra, appare di profilo:  donna-pellicano, mi viene voglia di chiamarla. Una sagoma bislunga, plasmata in un calcare caldo che traspira. Il mento sembra farsi grembo. È impressionante come questa verticalità quasi esasperata sappia farsi larghezza. Il che riporta la forma dentro un equilibrio sacrale e sensuale insieme. Poi se ci si gira attorno, la testa provoca uno choc visivo. Diventa sottile e affilata come un coltello; una prua che sbuca da un tempo senza tempo; qualcosa di un’eleganza implacabile. L’asse costituito dalla linea del naso perfettamente retta, lunga come da qui a un infinito, crea un soprassalto rispetto al tracciato così sovranamente morbido del profilo. Cambia anche lo sguardo: eretto e fermo come quello di una dea, nella prospettiva di profilo. Dilatato e un pizzico pettegolo nella visione frontale.
Grandissima scultura, davvero. Unica pecca, il modo in cui è stata fotografata nel catalogo, con una luce sparata da sotto in su, che ne snatura la calma ed brucia con un bianco esasperato il caldo colore del calcare.

Qui sotto, uno dei passaggi più belli della mostra, la Testa di Modigliani (da Washington) dialoga con la sua “antenata”, la Battista Sforza di Laurana. Sull sofndo un kouros dall’Archeologico di Firenze.

Written by gfrangi

Febbraio 27th, 2011 at 4:56 pm

Impressionisti verticali

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Una piccola trasferta di impressionisti al Mart di Rovereto. Sono quelli del Museo di Gerusalemme. Tutto già visto? No, niente è stato visto abbastanza, neanche i fluviali impressionisti di questi anni. Bella la sala di Renoir, che si conferma un Rubens un po’ stranito e imbambolato (in effetti non ha più attorno a sé re, regine e papi, ma borghesi ben pasciuti e senza ambizione).
Ma il clou sta nel fil rouge che lega i due quadri più forti arrivati per questa trasferta. Lo Stagno con ninfee di Monet (1907) e la Casa di campagna vicino al fiume di Cézanne (1890 ca). Hanno una struttura comune, tripartita. Il cuore è al centro, nell’uno e nell’altro. È la zona dove si condensa la luce. È, per così dire, il luogo dell’evento. Una fascia stretta tra due masse. È impressionismo in verticale (che smentisce l’idea di una pittura costituzionalmente riposata e orizzontale: non si è mai visto abbastanza). Ma il verticalismo di Monet è verticalismo che sprofonda, che si cala nel magma visivo del mondo. Che se ne lascia risucchiare, senza mai perder di lucidità. Quello di Cézanne invece va in direzione opposta, si alza, punta verso il cielo come una cattedrale. Monet man mano che scende si sfalda (scriveva Francesco Arcangeli: «è una specie di campo mirabile di confusione, non è solo una confusione naturale, è una confusione di “risonanza”»). Cézanne man mano che sale si consolida. Si fa più lucido, anzi più logico. Il tema della verticalità lo svela lui stesso in una lettera a Bernard del 1904: «Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè una sezione della natura, o, se lei preferisce, dello Spettacolo che il Pater Onnipotens Aeterne Deus dispiega davanti ai nostri occhi. Le linee perpendicolari all’orizzonte invece danno profondità. Ora, la natura, per noi uomini, è più in profondità che in superificie…». Più in profondità…

Ovviamente questa è una controprova di grandezza. Monet e Cézanne sono i due più grandi del gruppo. O meglio quelli che hanno un’ansia che li porta sempre oltre.

La mostra è visitabile al Mart sino al 6 gennaio.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 1st, 2008 at 11:14 pm

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