«Qui la grafia prodigiosa del Bellotto, quasi un alfabeto Morse di linee, punti, tratteggi d’ogni specie e colore, svela il segreto sintattico di un trapasso all’“ottico” al “narrativo” che è quasi da leggere come certi brani del famoso Ottocento russo… La stessa precisione stregata».
Uso questa illuminante frase di Roberto Longhi (da un articolo scritto per l’Europeo nel 1965) per cercare di approcciare la grandezza di Bernardo Bellotto. L’occasione è stata la mostra alle Gallerie d’Italia chiusa domenica (con record di visitatori e coda infinita per gli ultimi giorni). Una mostra scoperta all’ultimo momento che è stata una rivelazione. Bellotto ha qualcosa che non ti aspetti, che va oltre non solo l’idea che ti eri fatto ma soprattutto oltre il posto in cui per comodità lo si colloca. Bellotto innanzitutto rompe la misura del vedutismo, perché la marcia che innesca con la serie di paesaggi di Dresda e Varsavia lo porta fuori misura. Il paesaggio, pur nella sua pacata naturalezza, prende una dimensione di vastità. S’allarga, sino ad assumere una dimensione che viene da definire monumentale. Ma dentro quel dilatarsi resta infallibile nella precisione del dettaglio: è l’ottico che si distende nel narrativo. Cioè in una grandiosità di respiro. Colpisce la predilezione per i fiumi, che assicurano prospettive in cui il paesaggio si apre e si allarga.
C’è poi il segreto tecnico della pittura di Bellotto: il paesaggio non è mai preso da un punto di vista, ma da una sequenza di punti di vista. Quindi non va mai a stringersi verso un punto focale. Per questo ci passa davanti allo sguardo in una sequenza di visioni che sono una parallela all’altra. È un paesaggio che scorre e che ci trova in ogni punto in una posizione di frontalità. Il nostro occhio è sempre in asse. Viene da fare il parallelo con le grandi di foto di Andreas Gurky che sembrano scattate con un obbiettivo il cui fuoco è identico in ogni parte dell’immagine: immagini senza un centro, perché tutto è centro.
All’interno di queste visioni, salite di scala in modo imprevisto, Bellotto si muove con una padronanza e una libertà impeccabili. C’è infatti un’esattezza nella sua pittura, che è esattezza non fredda o mentale, ma sempre vissuta e impastata di atmosfericità. Soprattutto è un’esattezza che non perde mai di vista l’insieme. Ogni dettaglio a suo modo è al centro, ma non si richiude mai su di sé. È un microcosmo sempre in collegamento con il macrocosmo che lo circonda.
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Bellotto rompe la misura. Il paesaggio come vastità
Piccoli quiz torinesi
1. Come scegliere tre quadri di Matisse, avendo la possibilità di comperarli? Gianni Agnelli fece attenzione alla tovaglia: rossa a righe, che ricorre in tre quadri tutti anni 20. Una specie di geometria della felicità.
2. Ma si può scegliere anche un Matisse al quadrato. Cioè Matisse che in un quadro dipinge un altro suo lavoro leggero. Una carta blu graffiata di bianco, appesa al muro di una stanza in cui ci sono quattro cose, ma pare che non manchi niente.
3. Ma nella collezione Agnelli domina Canaletto. Mi sono divertito a notare come nella serie (bellissima) di vedute del 1726 ci sia una costante su cui l’occhio sorvola ma che in realtà fa da perno del quadro, quasi da vero punto di fuga: è il lampeggiare di un piccolo groviglio di nubi bianche nel centro di un cielo di solito cupo. Nubi di avvertimento a quelli che stan sotto. Signori belli, la rovina è imminente…
4. Infine, cambiando museo, che ne dite di questo particolare del ritratto di Antonello custodito a Palazzo Madama? Tutto è di una plasticità metafisica, ma il rigore mentale della costruzione approda in motivi di pura astrazione. Come suggerisce Angela, che ne avrebbe detto Fontana?
Post scriptum: certo che neanche Dante avrebbe potuto immaginare contrappasso più perfido per l’avvocato Agnelli. Per arrivare alla sua Pinacoteca che svetta nel cielo sopra il Lingotto (Renzo Piano ha fatto di meglio…) si deve passare per un mezzo chilometro di paccottiglia di un centro commerciale di serie B. Alla fine della traversata, tra un negozio di scarpe e uno di telefonini, c’è ls porta che fa salire a quel che resta del regno…