Robe da chiodi

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Rembrandt, la connection polacca

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Ne ha fatta di strada questo Cavaliere polacco, tra paesi e continenti, ma anche tanta strada nell’immaginario delle persone che ne sono rimaste stregate. Il Cavaliere polacco è un capolavoro di Rembrandt, dipinto intorno 1655, poco prima che la vita del grande artista venisse travolta dalla bancarotta. Dal dicembre 1935, cioè dal giorno della sua apertura al pubblico, il quadro è esposto alla Frick Collection di New York. La stessa Frick ha da poco pubblicato un libro, che è un piccolo e agile gioiello, affidato alla scrittura lucida e tenace di Xavier F. Salomon, curatore capo della collezione stessa. È un’iniziativa editoriale molto interessante (questo è il quarto volume della serie): al testo di Salomon, viene premessa una graphic novel di Maira Kalman che introduce il lettore a Rembrandt e al mistero delle sue connessioni polacche. Un modo intelligente di narrare, secondo due chiavi complementari, un capolavoro delle raccolte, aprendosi non banalmente a linguaggi contemporanei (“Rembrandt’s Polish Rider”, The Frick Collection, 82 pagine, 19,95 dollari).

I primi passi del Cavaliere sono nel buio: il quadro infatti emerge dal nulla circa 136 anni dopo che era stato dipinto. Nell’agosto 1791 Michal Kazimirz Oginski, politico e generale polacco, ma anche collezionista, annuncia dall’Aja al re di Polonia, Stanislaw August, di avere tra le mani un quadro speciale di Rembrandt. Il re, salito al trono nel 1764, era molto sensibile all’arte: era stato lui a chiamare a Varsavia Bernardo Bellotto nel 1767, per l’ultima lunga stagione della sua vita artistica (morì in Polonia nel 1780).  Il re amava in particolare i quadri con i cavalli, quindi questo insolito Rembrandt andava a pennello. Oginski, evidentemente eccitato per il colpo, si rivolge al re con un messaggio quasi sbarazzino: «Questo cavallo durante il soggiorno ha mangiato con me per 420 fiorini. La giustizia e la generosità di sua Maestà mi permette di sperare che gli alberi di arancio fioriranno nella stessa proporzione». In altre parole, Oginski aveva già comperato il quadro, certo dell’interesse del re, e avanzava la sua richiesta: avere le piante di arancio delle serre reali del palazzo di Lazienki, per la propria nuova casa di Helenow, alle porte di Varsavia. Insomma, un Rembrandt per degli aranci.  

Il quadro entra negli inventari reali con il titolo un po’ diminutivo di “Cosacco e cavallo”.  Il re non fa tempo a goderselo, visto che nel 1795 la Polonia viene cancellata e spartita tra Russia, Prussia e Austria, lui è costretto a dimettersi e a rifugiarsi a Grodno, vicino a San Pietroburgo, dove sarebbe morto nel 1798. Le 13 casse di quadri che dovevano raggiungerlo, in realtà non partirono mai dal palazzo di Lazienki. 

Nel 1811 le raccolte reali sono messe in vendita; gran parte delle opere vengono rilevate dallo Zar Alessandro I, ma sul Rembrandt mette gli occhi, una giovane e dinamica nobildonna polacca, Waleria Stroynowska. Comincia così un nuovo viaggio del Cavaliere. È un viaggio in cui cambia anche di identità, perché la brillante Stroynowska, su suggerimento del marito, Jan Tarnowski, vi riconosce la divisa di un suo antenato che aveva combattuto nella Guerra dei Trent’anni sotto il comando Josef Lisowski. Per questo, un po’ arbitrariamente, il cavaliere da cosacco viene ribattezzato “Lisowczyk”. Stroynowska non si limita a questo, visto che nel giro di qualche anno il quadro approda nella sua collezione, attraverso una girandola di passaggi che Salomon ricostruisce con accuratezza. Del resto la nobildonna e suo marito potevano contare su un ottimo pedigree: nel 1806 avevano commissionato ad Antonio Canova una variante del “Perseo con la testa di Medusa”, oggi al Metropolitan di New York. Il Cavaliere di Rembrandt si aggiunse così alla collezione, custodita nel castello neo medievale che la coppia si era fatto costruire a Dzikow, nel sudest della Polonia.

Paradossalmente di questo quadro che aveva tanto colpito l’immaginario (e l’interesse) del collezionismo polacco, ad Amsterdam e nel resto d’Europa si sapeva poco o nulla. Il muro sarebbe caduto per una coincidenza rocambolesca, nel 1897. Abraham Bredius, collezionista e curatore olandese, era in missione tra Polonia e Russia in vista di una grande mostra dedicata a Rembrandt, programmata ad Amsterdam per l’anno successivo. Dalle finestre della hall dell’hotel di Cracovia dove alloggiava, Bredius era rimasto incuriosito dal passaggio di una fastosa carrozza nuziale. Aveva chiesto informazioni, venendo a sapere che si trattava di Zdzislaw Tarnowski, nipote ed erede della brillantissima Waleria. Aveva anche saputo che tra tante ricchezze lo sposo possedeva un meraviglioso quadro di Rembrandt. Bredius riuscì a ottenere il permesso di visitare il castello di Dzikow nel pieno dei preparativi per la festa nuziale, prevista per il 5 agosto. «Uno solo guardo, un’occhiata ravvicinata di qualche secondo sono bastati per convincermi che qui, nascosto in questo luogo isolato, stava appeso uno dei capolavori di Rembrandt da quasi 100 anni!», aveva scritto sul “De nederlandische spectator” per annunciare la scoperta. 

Convincere Tarnowski al prestito non fu impresa semplice, ma alla fine il Rembrandt arrivò ad Amsterdam con un titolo onnicomprensivo: “Ritratto di un cavaliere polacco, con l’uniforme del Reggimento Lysowsky, in un paesaggio”. Per il New York Times era la vera sorpresa della mostra, un quadro che sembrava uscito da un racconto di Gogol. 

Tarnosky che aveva fatto tanta fatica a privarsi temporaneamente del quadro nel 1898, nel 1910 un po’ a sorpresa lo metteva in vendita. La trattativa era stata affidata alla galleria londinese Carfax & Co. È qui che Roger Fry intercetta la notizia, avvertendo immediatamente per telegramma Henry Clay Frick. Il prezzo fissato è di 60mila sterline. Frick dà l’ok, ma sorge un altro imprevisto: Tarnosky vuole che l’affare si concluda nel suo castello di Dzikow. Così Fry suo malgrado deve sobbarcarsi la pesante trasferta. Tra le condizioni poste c’è anche quello di avere una copia del quadro da mettere sullo stesso muro (e addirittura nella stessa cornice che Fry aveva giudicato orribile e lasciato sul posto: cornice e quadro bruceranno in un disastroso incendio nel 1927).  La copia viene fatta a Londra, dove il Rembrandt fa dunque un’ultima tappa prima di attraversare l’Atlantico. Il 21 luglio Frick lo riceve nella sua residenza estiva di Eagle Rock. Il telegramma che manda a Fry è di una sola parola: “Enchanted”. È un quadro che il collezionista sente immediatamente suo: al biografo confida che il paesaggio gli ricorda quello dei dintorni di Pittsburg, mentre nel volto efebico del giovane cavaliere ha addirittura scorto i tratti di sua figlia Ellen Clay. Il camaleontico capolavoro di Rembrandt aveva messo a segno la sua ultima trasformazione.

Resta da capire cosa ci facesse un cavaliere polacco nell’Amsterdam del 1655 e perché Rembrandt avesse dipinto un soggetto per lui così atipico. Nella sua ricerca Salomon raccoglie indizi che confermano più di una connessione tra l’artista e la Polonia: la sorella di Saskia, sua prima moglie, aveva sposato un teologo polacco; Hendrick van Uylenburgh, presso cui Rembrandt aveva vissuto appena arrivato ad Amsterdam, aveva padre e fratello impegnati come ebanisti e pittori a Cracovia e Danzica. I costumi della cavalleria polacca in quegli anni avevano acceso la fantasia e la curiosità in Europa, in particolare dopo le aperture delle due ambasciate a Roma e Parigi. Lo stesso inventario dei beni redatto dopo la bancarotta, rivela di quale armamentario di costumi e oggetti esotici Rembrandt si fosse dotato.

Resta il fatto che questo capolavoro si porta dentro qualcosa di irriducibilmente misterioso. Il suo viaggio è un viaggio in terre ignote e fuori dal tempo. Noi lo ammiriamo ma, come ha scritto Kenneth Clark, «non ci è possibile accompagnarlo».

Written by gfrangi

Febbraio 17th, 2021 at 1:56 pm

Quando la pittura “deve” parlare (come guardare la Presentazione al tempio)

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Questo articolo è stato scritto per Il Sussidiario del 2 febbraio, giorno in cui si festeggia la Presentazione al Tempio di Gesù.

Per capire cosa significa essere un grande artista basterebbe osservare come sono state immaginate tante raffigurazioni della Presentazione al Tempio di Gesù . La dinamica dei fatti è elementare e non fornisce spunti spettacolari. È quasi una situazione da routine. L’immaginazione di un artista può tutt’al più fantasticare sulle architetture del grande tempio, può aggiungere dettagli nel descrivere i doni che Giuseppe porta con sé. In realtà in quell’episodio dalla dinamica così normale gli artisti si trovano a dover affrontare un qualcosa che esce dalla routine: ed è la figura dell’anziano Simeone. I quadri sono per antonomasia muti, non hanno parole, invece quell’episodio vive e fa sussultare ogni volta che lo si rilegge, proprio per delle parole che Simeone pronuncia: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo / vada in pace secondo la tua parola; / perché i miei occhi han visto la tua salvezza / preparata da te davanti a tutti i popoli, / luce per illuminare le genti / e gloria del tuo popolo Israele».

Duccio, predella della Maestà di Siena


In sostanza il cuore della scena è un cuore verbale, e così all’artista tocca render quel cuore, lavorando solo sulla figura e facendola “parlare”. Guardiamo, ad esempio, quale strategia usa Duccio nella predella della Maestà senese: Simeone, si china e curva la sua vecchia schiena verso Gesù, che Maria ha messo tra le sue braccia. Già questo incurvarsi è un’immagine che parla, che racconta di un’attrazione carica di dolcezza. Ma Duccio aggiunge dell’altro: Simeone ha le mani coperte dal mantello in segno di rispetto e tiene una distanza devota dal Bambino. Gli occhi sono quelli logorati dall’uso di un sapiente anziano: ma lo sguardo è quello di chi consiste tutto in ciò che vede.

Giotto, Cappella Scrovegni


Giotto per natura è diverso. È un artista di corpi solidi e ben piantati per terra. Il suo Simeone alla cappella degli Scrovegni sta infatti saldo e a schiena dritta, nonostante l’età. Per questo Giotto gioca tutta la partita sullo sguardo, che è sottile, profondo, totale e che si incrocia con quello già pieno di consapevolezza del Bambino: una corrispondenza che davvero “parla” di una salvezza vista, incontrata, toccata.

Mantegna, GemäldeGalerie, Berlino


«Lo prese tra le braccia», racconta il Vangelo di Luca: a volte gli artisti si concentrano sull’attimo che precede o su quello che segue. Mantegna, l’austero e “terribile” Mantegna, dispone le figure dentro una scatola spaziale. Simeone è di profilo e sta allungando le mani per prendere il Bambino in fasce: è ancora nella situazione di un attimo prima, cioé di colui che «aspettava il conforto d’Israele», come sempre scrive Luca introducendo l’episodio.

Bergognone, Chiesa dell’Incoronata, Lodi


All’opposto di Mantegna c’è il grande e commosso Bergognone, lombardo capaci di straordinarie intensità affettive. Lui si sofferma invece sull’atto finale, la riconsegna del Bambino a Maria: il suo volto, nella sobrietà della vecchiezza, “parla” di una felicità che si è compiuta. È il momento del “Dimitte nobis Domine”.

Rembrandt, Nationalmuseum, Stoccolma


Bisognerebbe poi raccontare dell’immenso Rembrandt, che dipinse la Presentazione in più varianti, sempre con una libertà interpretativa assolutamente moderna. Nella più folgorante (quella conservata al Museo di Stoccolma) sulla scena restano solo Simeone e Anna. Lui sta seduto, sprofondato in una vecchiezza quasi terminale: eppure, anche in quella condizione di sfinimento fisico, c’è spazio per uno stupore totale. È un quadro meraviglioso dell’ultimo Rembrandt, il quale, dipingendolo, parla a sé e per sé. Un quadro implorazione, verrebbe da dire, in cui l’artista chiede con parlando con i suoi colori rabbuiati, che anche a lui accada come a Simeone. È quasi una preghiera da guardare. Un quadro, in fondo, dipinto anche per noi.

Written by gfrangi

Febbraio 8th, 2017 at 5:47 pm

Rembrandt, il Figliol prodigo e il tocco di mano

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Per Kenneth Clark è il più bel quadro mai dipinto («a picture which those who have seen the original in Leningrad may be forgiven for claiming as the greatest picture ever painted»). È il Figliol prodigo di Rembrandt, dipinto alla fine della sua vita (1668 circa) e custodito al museo dell’Ermitage. Certamente un capolavoro, che probabilmente Rembrandt lasciò incompiuto e che venne finito da qualche suo aiuto. Una tela di grandi dimensioni, 2,62 di altezza, di cui in genere si vede solo la parte cruciale che sta a sinistra, quella del padre che accoglie il figlio, e che è giustamente diventata l’immagine di riferimento per questo Giubileo della Misericordia. Il resto, pur occupando uno spazio notevole, sfuma un po’ nell’indistinto, compreso il dettaglio del fratello rimasto fedele che osserva la scena un po’ contratto, sulla destra.
Dopo essere stata in collezioni in Germania, l’opera venne acquistata nel 1766 da Caterina II di Russia e per questo oggi è tra i tesori dell’Ermitage.

Il cuore del quadro è nel dettaglio delle mani del padre che s’appoggiano sulla schiena del figlio in un gesto di accoglienza senza riserve. È stato notato come le due mani non siano uguali, e che quella a sinistra abbia caratteristiche più femminili di quella di destra, con dita più affusolate e proporzioni più piccole. Resta misteriosa questa scelta di Rembrandt, anche se è suggestivo pensare al fatto che una dimensione pienamente paterna includa anche un connotato materno. Le mani comunque sembrano fondersi quasi con il corpo del figlio; il vecchio padre che rivela tutta la fatica di questo gesto, è semi cieco e quindi il “toccare” per lui è anche un vedere: altro elemento che spiega l’intensità del suo gesto.
Altro dettaglio di profonda intensità è quello della postura del figlio. È inginocchiato, come in una sorta di resa davanti al perdono del padre. Rembrandt ne dipinge il volto in una semi ombra, che rende indistinti i suoi connotati. Il figlio è risucchiato con tutto il suo essere dalla figura del padre, al punto che la testa sembra letteralmente affondare nel grembo del genitore. È un vero ritorno “a casa”, non semplicemente tra le mura di casa, quello che Rembrandt racconta in questo quadro. La misericordia in questo modo svela la sua consistenza fisica. Non un’idea, un sentimento, una intenzione, ma una forza che investe la carne, che la pervade. Che la tocca.
Ma non finisce qui il percorso di questo quadro. Perché Rembrandt opera una sorta di transfer che ci coinvolge. Non dipinge solo un quadro, dipinge un’esperienza tattile. Il toccare del padre non è solo visivamente rappresentato in modo magistrale: quel toccare è esito di un toccare reale. Toccare il colore, metter le mani sulla materia dipinta. Sentite cosa scrive Svetlana Albers, ne L’officina di Rembrandt: «Nei dipinti dell’età matura Rembrandt tratta il colore per attirare il nostro senso del tatto mediante il senso della vista. Lo depone sulla tela con il pennello e ne lavora lo spessore con la spatola e le dita, al punto che sembra di poterci appoggiare la mano». Proprio come il padre sulla schiena del figlio.

Potete esplorare il quadro sin nei minimi dettagli su Googleart project. Un’esperienza che merita

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Written by gfrangi

Maggio 1st, 2016 at 9:02 pm

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Dialogare su Caravaggio alla scuola alberghiera

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Emmaus

Appunti da un incontro con un gruppo di professori e studenti dell’Alberghiero di Cernobbio. A tema, l’ospitalità nell’arte. Tema a rischio di accademia a buon mercato. Per evitare di finire nelle banalità sono partito dall’invito ad un’osservazione assolutamente banale: una sfilata di una quindicina di tavoli in rappresentazione dell’Ultima Cena, porta alla non scontata notazione che la geometria prevede la disposizione frontale, che quindi evita la disposizione chiusa, propria di un tavolo al completo. Partendo dal tavolo elegantissimo a mezza luna dell’Ultima Cena di Sant’Angelo in Formis, procede sempre con lo schema del fronte aperto che quindi permette, tra le altre cose, la condivisione di ciò che è sulla tavola. Il senso di ospitalità è dato quindi da questo fronte aperto.
Ma il momento più persuasivo è arrivato sulla Cena di Emmaus di Caravaggio, in particolare quella di Londra. Qui se guardiamo il quadro notiamo alcune dispositivi compositivi. Primo, apertura del fronte del tavolo in direzione nostra; secondo, eliminazione di un qualsiasi spazio di tolleranza tra i protagonisti e il nostro: le figure arrivano sino al bordo della tela; terzo, l’uso della natura morte sul tavolo come ulteriore elemento di collegamento tra lo spazio virtuale della tela e il nostro: il cesto di frutta che si sporge oltre il bordo del tavolo entra nel nostro di spazio. La composizione insomma tutta spinta verso di noi per evitare ogni minima senza sensazione di separazione. Poi c’è ovviamente da notare la disposizione del cibo sul tavolo, che è un esercizio di gusto nella semplicità. Ma sopratutto è l’evidenziazione che tutto è buono, che non c’è particolare della vita che non merito un primo piano.
Tutto questo per dire che la pittura italiana è sempre un invito a cena, quindi costituzionalmente ospitale. L’Emmaus di Caravaggio è emblema di questa generosità costitutiva dell’arte italiana, che aveva avuto una sua trionfale affermazione nelle cene di Veronese.
Il confronto con l’Emmaus di Rembrandt rende l’idea: la scena in questo caso è spinta in fondo, in uno spazio altro, come evidenzia la tenda che pur essendo aperta, sancisce una cesura. Ovviamente nulla si scorge di quello che c’è sul tavolo.

Post scriptum: questo esercizio dimostra quanto sia importante abituarsi a guardare. Guardare i meccanismi che fanno essere un quadro, non darli per scontati, per tenerli in testa e appropriarsene. La pittura italiana non è mai un mondo a parte. Quello dentro i grandi quadri è un mondo sempre utile alla vita. Costruisce lo sguardo, il gusto, il tatto, la propensione a condividere. Metabolizzare la cena di Emmaus di Caravaggio sviluppa una serie di competenze che toccano un’infinità di ambiti della vita.

Written by gfrangi

Marzo 14th, 2015 at 10:27 pm

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Van Gogh, liberi sguardi sui grandi del passato

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È uscito un libro dalle dimensioni e dall’aspetto un po’ biblici. È la raccolta di 265 lettere di Van Gogh (sul totale di 903), traduzione italiana del volume ricavato dal gigantesco lavoro fatto per il Van Gogh Letters Projects (bisogna andare sul sito per rendersi conto di cosa si tratti: tutte le lettere pubblicate e linkate a tutti i riferimenti che Van Gogh fa al loro interno). Bello il titolo dato a questa edizione, Scrivere la vita. Il volume ha oltre mille pagine, con indice dei nomi molto ben fatto e quindi molto utile (Donzelli, 55 euro). Le lettere di Van Gogh sono un documento meraviglioso ma assolutamente asistematico. Così la tentazione è sempre quello di saltare da una pagina all’altra, segnandosi alcune frasi che non possono essere dimenticate, tale la suggestione che evocano. Ho fatto anch’io così. Ma aiutandomi con l’utilissimo indice dei nomi sono andato a cercare le pagine in cui VG parla di altri pittori.
(tralascio Millet, di cui si sa bene cosa VG pensasse: ricorre in ben 75 lettere).

A proposito di Delacroix (in indice 39 occorrenze)
«Delacroix, ah, lui – “ho trovato la pittura – ha detto – quando non mi erano rimasti più denti né fiato”. E quanti hanno visto questo illustre artista dipingere hanno detto: quando Delacroix dipinge è come il leone che divora un pezzo di carne. Scopava poco e aveva solo avventurelle per non sottrarre il tempo consacrato alla sua opera»

«Ah il bel quadro di E. DELACROIX – la barca di Cristo sul mare di Genesaret -; lui con l’aureola giallo limone chiaro – che dorme luminoso – nella drammatica chiaza viola, blu scuro, rosso sangue del gruppo dei discepoli attoniti. Su quel terrifico mare di smeraldo che monta, monta fino alla parte più alta del quadro».

«Non mi sorprenderebbe affatto che gli impressionisti trovassero da ridire sul mio modo di dipingere, che è stato fecondato più dalle idee di Delacroix che dalle loro».

«Così morì quasi sorridendo Eugéne Delacroix, pittore di grande razza- che aveva un sole nella testa e nel cuore una tempesta – che passò dai guerrieri ai santi – dai santi agli innamorati – dagli amanti alle tigri – dalle tigri ai fiori».

A proposito di Rembrandt (in indice 45 occorrenze)
«… cò che tra i pittori solo Rembrandt ha, o quasi solo lui, quella tenerezza dello sguardo degli esseri umani che vediamo sia nei Pellegrini di Emmaus, sia nella Fidanzata ebrea, sia in quella strana figura d’angelo come in quel quadro che tu hai avuto la fortuna di vedere – quella tenerezza afflitta, quel barlume di infinito sovrumano che allora appare così naturale, lo si incontra in numerosi passi di Shakespeare».

A proposito di Rubens (3 occorrenze)
«Niente mi colpisce meno di Rubens quando esprime il dolore umano. Comincio col dire, per spiegare cosa intendo – che perfino i volti della sue Maddelene piangenti o Mater dolorose mi fanno sempre pensare semplicemente alle lacrime di una ragazza che si sia presa magari una malattia venerea… Rubens è sorprendente nel dipingere donne comuni, belle. Ma nell’espressione non è drammatico».

A proposito di Degas (11 occorrenze)

«Degas vive come un piccolo notabile e non ama le donne, ben sapendo che se le amasse e scopasse troppo si ammalerebbe mentalmente e diverrebbe incapace di dipingere. La pittura di Degas è virile, impersonale appunto eprché lui ha accettao di essere un piccolo notaio, aborrendo la vita sergolata. Osserva gli animali umani più forti di lui infoiarsi e scopare e li dipinge bene appunto perché non ha tutte le quelle pretese di infoiarsi».

A proposito di Giotto
«Io e Gauguin abbiamo visto un suo piccolo pannello a Montpellier. La morte di qualche santa. In quel dipinto le espressioni di dolore e di estasi erano talmente umane che, pur essendo nel XIX secolo, ti senti li dentro – e ti pare di essere stato là tanto ne condividi le emozioni».

Written by gfrangi

Febbraio 1st, 2014 at 1:55 pm

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Appunti di viaggio, Norimberga – Copenhagen. Da Dürer a Matisse

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Viaggio Germania- Copenhagen, primi appunti.
Martedì, Norimberga. Mostra sul Giovane Dürer. Molto bella, completa: si vede che è una mostra preparata con un percorso di avvicinamento importante, testimoniato dal catalogo. Peccato l’allestimento, a tratti imbarazzante di bruttezza. Del resto la sede del museo è davvero orribile dal punto di vista architettonico. Emerge l’immagine di un grande preso da una creatività febbrile e organizzato secondo un modello imprenditoriale che va ben oltre il suo tempo. Meravigliosi i paesaggi del primo viaggio italiano. Meravigliosi i disegni. Assrbe Venezia, ma resta sempre dentro un orizzonte di sperimentalismo e di irrequietezza (e nei quadri sacri anche di franosità) che ha il sapore di eterno gotico.

Mercoledì- giovedì, Kassel Documenta e Gemäldegalerie.
Documenta è una Biennale più ordinata e più ragionata. Ogni artista ha spazi ben definiti, senza terreni comuni come avviene a Venezia. Del resto capita ogni 5 anni e c’è tempo per metterla a punto… Impressionante la quantità di persone in ogni sede (sono una decina per tutta la città). Non c’è titolo ma c’è come una domanda sottostante: che ci sta a fare l’arista oggi nel mondo? Che responsabilità ha rispetto alla storia? Domina ovviamente un certo ben pensare in chiave ecologista, ma ci sono tante sorprese, con ripescaggi anche di tanti “geni degli anonimi”. In generale un’esperienza affascinante. Da metabolizzare con calma, anche con l’aiuto della Guida, molto ben fatta, graficamente di una razionalità tutta tedesca.
Quasi deserto invece alla Gemäldegalerie, nello spettrale Schloss che domina la città. Eppure la sala di Rembrandt è degna dei più grandi musei del mondo (con il capolavoro di vecchiaia di Giacobbe che benedice i figli di Giuseppe). Ma anche un Rubens stupendo, con il Figliol prodigo convocato tra i grandi santi ad adorare la Madonna con il Bambino. E poi la sorpresa della Crocifissione di Altdorfer.

Venerdì. Amburgo. Città stupenda, poco tedesca nel suo caos (terrificante il traffico). Una Rotterdam in grande scala. Il museo invece è un po’ depresso, grande e ordinato, ma con poche punte. Bella la sala di Beckman, un grande Kirchner nel salone degli espressionisti, un Max Ernst giallo e rosso che sembra anticipare Rotkho. Poi bellissimi Courbet, e il solito folgorante Rembrandt: questo è un quadro giovanile, Gesù presentato al tempio, com un Simeone che lo tiene disinvoltamente tra le braccia mentre dialoga fitto con Maria.

Sabato, Copenhagen. Città giovane, tutta sottosopra per grandi lavori in corso, in certe zone mangiata dai turisti. Non allo Staten Museum, uno dei più bei musei che mi sia capitato di vedere. Allestimenti eleganti, pausati; una disposizione che cerca di calamitare un pubblico non specialista. Ma soprattutto un gigantesco Mantegna (Cristo sul sepolcro con due Angeli): una capolavoro da vertigini. Sue grandi ritratti di Tiziano, uno non fa meno di El Greco (ritratto di Palladio, 1570). E un abate premostratense di Rubens, in preghiera su uno sfolgorante sfondo rosso. Meravigliosa la sala Matisse, con i due capolavori del 1906 che si fronteggiano: il ritratto della moglie (con il “raggio” verde sul naso, un gioiello di sapore post bizantino) e l’autoritratto in t-shirt: immagine di un uomo che si appresta a scaraventarsi con tutta la sua energia positiva sul secolo che si apre. Un’immagine chiave per capire in modo non scontato il 900.
Al piano terra, la mostra su Matisse seriale proveniente dal Pompidou. Una delle più emozionanti viste negli ultimi anni. Ne riparlerò.

Written by gfrangi

Agosto 12th, 2012 at 5:01 am

Il quadro preferito del mio amico Emanuele

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Il mio amico Emanuele Banterle, che oggi è stato accolto nelle braccia del Signore, aveva un artista preferito. L’ho scoperto un po’ per caso lo scorso agosto, quando in occasione del suo compleanno gli avevamo ragalato il catalogo della stupenda nostra parigina (ora a Filadelfia) dei Gesù di Rembrandt. Oggi così posso dire che quelle immagini, in particolare quella stupenda che è stata scelta per la copertina, mi sono diventate ancora più care. Il Gesù di Rembrandt è un Gesù di struggente tenerezza, è un Gesù antieroico. Un Gesù da dietro le quinte: come doveva verosimilmente essere nelle tante pause private, tra un momento pubblico e l’altro. È un Gesù tutto per per lui, Emanuele, che lo guardava (ma allo stesso modo per me), come se fosse seduto dall’altra parte del tavolo, per parlare proprio del suo (mio) destino. Intorno non c’è il rombo della storia ma il silenzio di un istante senza clamori. Per questo è così affidabile e vero. E allora mi sembra di aver capito perché a Emanuele potesse piacere tanto: perché è un Gesù mite, che guarda lui e parlava a lui, nel momento in cui la vita lo stava sottoponendo alla prova più dura: sembra quasi sentirlo sussurrare qualcosa. Non prediche, ma parole da amico, a tu per tu. Era un Gesù che partecipava persino della sua tristezza, con quello sguardo abbassato e quell’ombra sul volto. Davvero guardare un Gesù così è come un sentirsi abbracciati.
Da tutto questo me ne viene un grande gratitudine per il fatto che ci siano stati geni, profondi e insieme semplici, come quello di Rembrandt. E una gratitudine al quadrato perché l’amico Emanuele mi ha aperto gli occhi davanti alla sua grandezza. Cui si aggiunge una gratitudine di fondo per il fatto di essere figli di una cultura che ha capito quanto le immagini possano essere di sostegno alla vita.

Written by gfrangi

Settembre 16th, 2011 at 4:15 pm

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Rembrandt e Serodine, Emmaus prima della cena

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È il momento in cui la liturgia ripropone una delle pagine che sempre più mi hanno intrigato del vangelo: quella dei discepoli di Emmaus. Nella mostra parigina su Rembrandt, ovviamente l’episodio tiene banco, oltre che con i quadro ben noti, anche con una serie di disegni, relativi non al momento cruciale dello “svelamento”, ma alla fase precedente, quella del cammino dei discepoli al fianco di Cristo verso Emmaus. È un’iconografia abbastanza rara sulla quale invece Rembrandt riflette con alcuni disegni, presenti in mostra. Immagino che anche Rembrandt sia rimasto colpito da quella circostanza strana dei due che non riconoscono la persona che pure era al centro dei loro pensieri. In un disegno conservato al Louvre i due discepoli camminando guardano in faccia il loro compagno di strada ed è uno sguardo tutt’altro che distratto. Neppure badano al terreno tanto sono presi. Eppure non riescono a riconoscerlo. In un altro, proveniente da Edimburgo, è Gristo a fare strada e a voltarsi indietro verso I due. Anche Giovanni Serodine, in una delle tele di Ascona, ha immaginato Emmaus prima della cena: lui coglie un momento di grande tenerezza, quello in cui uno dei due discepoli invita il loro compagno di strada a fermarsi con loro e lo prende per mano come per convincerlo. Anche in Serodine lo sguardo è di un’intensità straordinaria, vero epicentro del quadro. Eppure non lo riconosce… Immagino che cosa intrigante sia per un pittore raccontare questo sguardo che non riconosce. Come d’altra parte è ancora più intrigante il racconto di quel che segue con lo svelamento: lo stupore, il balzo dello sguardo e del cuore quando tutto si chiarisce. Michel de Certeau in un libretto pubblicato da poco in Italia dice che “sono troppo assorbiti da ciò che hanno perduto per vedere il dono che hanno davanti”. Osservazione acuta. “Questa ricchezza perduta li trattiene in sé stessi”, continua. Eppure non era mancata l’attrazione verso quel personaggio… Ma sono ultimamente chiusi in quello che era il loro pensiero riguardo a Cristo, mentre Cristo va sempre oltre ogni immaginazione. Nel quadro meraviglioso di Rembrandt del Jacquemart Andrè sembra che di discepoli ce ne sia uno solo. L’altro infatti lo si vede solo in un secondo momento, e solo per via del ciuffo che spunta: è infatti chinato nella zona buia, come prostrato davanti al Signore. Un gesto istintivo, assolutamente umano, di dedizione e di gratitudine. Quasi un annullarsi nella figura ritrovata.

Written by gfrangi

Maggio 14th, 2011 at 6:46 pm

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Ancora Rembrandt. Quei quadri clandestini

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Torno su Rembrandt. Mi sono procurato il catalogo, bellissimo e anche a modico costo (39 euro); pubblicato da un editore italiano (Officina libraria, di Marco Jellinek e Paola Gallerani) e stampato benissimo a Firenze. Evviva. È un adeguato supporto a una mostra che più ci si scava più si svela interessante e sorprendente. Ad esempio non sapevo che questa importante serie di “ritratti” di Cristo siano satti sempre un po’ tenuti ai margini del catalogo di rembrandt. Per questo nelle monografie non capita mai di vederli. Eppure i documenti parlano chiaro. Sentite questo: nell’inventario fatto nel 1656 dopo che Rembrandt si era rivolto al tribunale per evitare il fallimento, risultano appesi in casa sua ben tre di questi “ritratti”. Il notaio è preciso anche nel dire in quali stanze si trovassero e nel riferirli proprio al maestro. Il terzo in particolare lo decrive così: «Een Cristus tronie nae’t leven». Cioè, «una testa di Cristo dal vivo». I curatori traducono «d’après nature». La cosa ha creato un po’ d’imbarazzo nei critici, che o hanno tralasciato quel “nae’t leven”, o l’hanno interpretato come “a grandezza natura”. Invece letteralmente il notaio intendeva dire che quella testa di Cristo era stata fatta con “un modello vivente”. Non è un Cristo immaginato quello di Rembrandt. È un Cristo vero, come se sentisse la necessità di renderlo per sé vicino e visibile nel momento in cui la Riforma ha fatto piazza pulita delle immagini, della devozione e soprattutto della presenza di Cristo sull’altare. E proprio perché obbedisce a una necessità personale, che è anche un Cristo semplice, umile nei suoi atteggiamenti, quasi clandestino. Un Cristo personale, visto che dalla scena pubblica come volto era stato bandito. Proprio per questo tanto intenso. Seymour Slive curatore della mostra parla di un Cristo che colpisce per «la sua umiltà, la sua docezza, la sua vulnerabilità». È la miglior sintesi possibile.

Written by gfrangi

Maggio 7th, 2011 at 8:34 am

Rembrandt, Cristo a tu per tu

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È presentata in modo magistrale la mostra sui volti di Cristo di Rembrandt al Louvre. L’home page del sito c’è un primo piano ravvicinato del Volto di Cristo arrivato da Filadelfia. Un’immagine di quelle che non si dimenticano, per una densità umana che è pari alla densità della materia pittorica di Rembrandt. Cristo ha la bocca socchiusa. Il suo sguardo è teso verso un punto – un qualcuno – che non conosciamo. Con chi sta parlando? E di cosa? Non sta facendo discorsi di quelli che è meglio appuntarsi per poi riversarli nel Vangelo… Sta parlando a tu per tu di una cosa che lo interessa, che gli sta a cuore. È lì per capire, più che per spiegare. Per ragionare più che per predicare.
Non sta usando nessuna delle leve ad effetto che pur avrebbe a disposizione. Il di più che porta è un di più di comprensione, di profondità umana.
È un Cristo quotidiano come pochi s’erano visti nella storia della pittura. E il montaggio della mostra parigina accentua proprio questo approccio rembrandtiano a Cristo: un Cristo che parla più a un “tu“ che a un “noi”. Così prolifera questo genere dei Volti di Cristo, che non sono tanto immagini di devozione, ma immagini di un compagno di strada. Una presenza contemporanea che si palesa nella quotidianità. Nell’ultima sezione (ho appreso la cosa dalla recensione di Le Monde), questi volti sono interrotti dal ritratto di un giovane ebreo. Come volessero farci pensare che l’interlocutore di Cristo potesse essere uno come lui. Non la folla che pur lo inteneriva, ma lui, un singolo, intercettato magari per caso, ma con il quale il discorso era andato molto a fondo…

Written by gfrangi

Maggio 2nd, 2011 at 12:58 pm

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