Robe da chiodi

The 10 Most important artists of today

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È la classifica che Blake Gopnik ha stilato su Newsweek, a bilancio delle visite a Venezia e Art Basel. Chi sono i 10? Eccoli: Gillian Wearing (inglese), Christian Marclay (lo svizzero americano che con The Clock ha vinto il Leone d’oro), Marjetica Potre (slovena, “she builds better worlds”), Artur Zmijewski (polacco), Tacita Dean (inglese), Sophie Calle (francese), Francis Alÿs (belga), Jeff Wall (canadese). Infine i due che non possono non esserci, Jeff Koons e Damien Hirst (ma visto che l’ordine non è alfabetico, mi sembra un recupero in extremis di due in calo di posizioni). Riflessioni? Su dieci nessuno dipinge (tranne episodicamente Alÿs e Hirst). Le donne sono ormai quasi al 50%. Su 10 tre non li conoscevo (anche se nessuno è sotto i 40 anni). Non voglio entrare nel merito, ma una delle scelte mi sembra assolutamente esagerata: Sophie Calle, le cui proposte mi sono sempre sembrate scontatissime. Tra quelli che non conoscevo, uno mi sembra molto interssante, Francis Alÿs. Ho visto qualche video sul suo sito. In uno di questi, molto poetico ha messo in scena una Moderna processione. Un gruppo di immigrati con accompagnamento di banda porta dal Moma di Manhattan a quello nei Queens le copie di una statua di Giacometti, la bicicletta di Duchamp e le Demoiselles d’Avignon di Picasso. Una sguardo ironico ma anche affettuoso. Un pensiero per opere che per un artista sono come immagini sacre.

Osservazione sulle parole. Giustamente si parla dei più “importanti” e non dei più “grandi”. Oggi attrae di più la categoria dell’importanza rispetto a quella della grandezza. Del resto sono classifiche che valgono per l’oggi e non hanno nessuna pretesa per il domani. Qui sta il loro bello e anche la loro effervescenza. Meteore pià che stelle.

Written by gfrangi

Giugno 27th, 2011 at 9:21 pm

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Perché la storia dell’arte aiuta a vivere

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“La storia dell’arte aiuta a vivere”. Bello il titolo del Sole 24 ore di domenica scorsa (tornato finalmente in formato grande, dopo l’insulsa riduzione operata da Gianni Riotta). Il riferimento è al discorso che il ministro della cultura francese Frédéric Mitterrand ha tenuto in occasione del Festival de l’histoire de l’art che si è tenuto a fine maggio a Fontainebleau. In che senso la storia dell’arte aiuta a vivere? Mitterrand la spiega così: «Nell’epoca dell’infinita riproducibilità dell’immagine, la storia dell’arte può contribuire a dare coerenza, può essere uno strumento per rendere più intellegibile il nostro tempo. In altre parole questa manifestazione si pone l’ambizione di “riconciliare sensato e sensibile”… “Sapere conciliare l’emozione e l’intelligibile, il visibile e il nascosto, la percezione e la riflessione”». I virgolettati sono di André Chastel. Che diceva anche: «La storia dell’arte deve favorire una conoscenza, una presa di coscienza che cambi le prospettive – spesso ingenue – del presente».
(Pensavo, nel suo agire la storia dell’arte porta tre fattori che nel loro combinarsi dovrebbero garantire pensieri “sani”. Primo fattore, la storia, cioè si sta ai fatti. Poi “l’arte”, cioè quel di più che neppure la somma dei fatti non può spiegare. E infine il costituirsi in “immagini”: il linguaggio espressivo più semplice, più veloce e più immediato; quello con minor spazi di ambiguità, in quanto “visibile” per statuto: il che dovrebbe dovrebbe tenere il ragionare sempre incardinato all’osservare).
Qui potete leggere la versione completa del discorso di Mitterrand.
Qui invece la presentazione che ne ha fatta Salvatore Settis, sul Sole.

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Giugno 23rd, 2011 at 9:09 pm

Una pietra sopra Pollock

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Una mail dalla mia sorella americana, in visita a East Hampton, dove è custodita a museo la casa di Jackson Pollock e di sua moglie Lee Krasner. Ma c’è anche la tomba di Jackson (qui potete vistarla online)
«Al museo c’e’ il racconto di De Kooning che ricorda che quando hanno messo la pietra, era talmente grande che avevano paura che facesse esplodere la bara e schizzare fuori il corpo, e a quell’idea Pollock da dove era avrebbe riso…»
Una scena decisamente pollockiana…

Sarebbe interessante scoprire come le tombe rispecchino le anime degli artisti. Ho in mente ad esempio quella di Matisse al cimitero di Cimiez a Nizza. Come se si fosse portato il suo balcone dell’hotel Regina anche dentro la tomba…

Nuova mail dall’America mi segnala questa frase di Pollock: «La moglie di Rodman Maia ha ricordato che mentre erano nello studio di Pollock Rodman uscì lasciando Maia e Jackson da soli in studio. Pollock iniziò a piangere in modo incontrollabile. Indicando idipinti appoggiati al muro dello studio, lui le disse: “Pensi che avrei dipinto questa merda se sapessi come disegnare una mano?”».

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Giugno 21st, 2011 at 11:32 am

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Kiefer, tre settimane in convento

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Scorrendo il catalogo (bello) della mostra di Kiefer ai Magazzini del Sale a Venezia ho scoperto che l’artista tedesco aveva preso la decisione di dedicarsi all’arte dopo un ritiro di tre settimane al convento domenicano di La Tourette, progettato da Le Corbusier. Era il 1966: visse quel periodo in una cella come ospite dei monaci. Voleva semplicemente «riflettere in tutta tranquillità sulle grandi questioni». Allora Kiefer era uno studente di legge e di lingue romanze. Non passò molto tempo da quel soggiorno perché decidesse di dedicare le proprie energie all’arte.
Non mi stupisce che una decisione così sia maturata in un luogo denso di una potenza monumentale impressa dal genio di Le Corbusier. La Tourette per me resta una delle architetture più impressionanti del 900. Un quadrilatero che ha l’aspetto della fortezza, luogo di concentrazione rara. Un luogo quasi brutale, nel suo tagliar fuori il mondo. Ma anche nel suo imporsi al mondo. Mi è sembrato del tutto logico quindi che in un luogo così si potessero maturare decisioni come quella presa da Kiefer.

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Giugno 19th, 2011 at 9:58 pm

Il walzer dei quasi Caravaggio

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«D’altro canto, in un’epoca di pensiero debole come quella che stiamo attraversando, la sfiducia nelle capacità umane è all’ordine del giorno in ogni campo, e non ci si può troppo stupire che la storia dell’arte, in quanto disciplina umanistica, non sia stata risparmiata». Così scrive Cristina Terzaghi, una delle più autorevoli conoscitrici di Caravaggio in un articolo recente, Caravaggio 2010, pubblicato su Studiolo (n. 8), la rivista dell’Académie de France di Roma. L’articolo è un utile riepilogo ragionato delle tante novità emerse in occasione della sarabanda di libri e mostre per il centenario.
Quel pensiero calza alla perfezione anche per l’ultima novità di cui si è tanto parlato in questi giorni dopo al pubblicazione molto gridata sull’ultimo domenicale del Sole. Il quadro, per i pochi che ancora non lo sapessero, è un Sant’Agostino di provenienza Giustiniani, e inventariato come Caravaggio nel 1638. A seguire i documenti sembra che davvero che tutto torni: spostamenti tracciabili, antica etichetta sul retro che riporta a un erede Giustiniani. Addirittura, nota l’autrice della scoperta Silvia Danesi Squarzina, il calamaio è dello stesso tipo di quello che appare nella Vocazione di Matteo. C’è solo un documento che non convince molto, ma a quanto pare non sembra così importante: il quadro. Così almeno hanno detto senza mezzi termini due studiosi su posizioni culturali opposte come Vittorio Sgarbi e Tomaso Montanari (rispettivamente sul Giornale e sul Fatto).

Sulla questione non ho voce in capitolo: ammetto di aver rinunciato a fare lo storico d’arte quando ho capito di non avere “occhio”: ho scelto altre strade di cui sono contento, tenendo la storia dell’arte come attività libera e molto liberante. Tuttavia anche il mio occhio balbettante, davanti a quel Sant’Agostino s’è bloccato. Specie quando è stata proposta l’idea che dovesse essere il pendant di un altro Caravaggio Giustiniani, il San Gerolamo oggi a Montserrat. D’istinto mi è apparso chiaro che quelle due immagini non potessero essere state pensate dallo stesso cervello: il San Gerolamo («quintessenzialmene caravaggesco», lo definisce Montanari) ha un’essenzialità e una drasticità che manca in modo assoluto nel Sant’Agostino, un po’ traballante e annacquato in una mess’in scena volonterosa ma affastellata. Due mondi che non hanno punti di contatto, aldilà di tutte le possibili affinità stilistiche. Questo dice il mio occhio “balbettante”.
Ma a parte questa osservazione istintiva ed estemporanea, resta il fatto che le opere sembrano non “parlare” più. Come scrive Cristina Terzaghi, «sembra serpeggiare una sorta di abdicazione della storia dell’arte alla “gaia” scienza».

Written by gfrangi

Giugno 15th, 2011 at 9:05 pm

Arte contemporanea in Vaticano. A rischio di banalità…

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Oggi Il Corriere annuncia a tutta pagina, in apertura di cultura, la prossima mostra che si aprirà in Vaticano e che rappresenta un primo passo concreto dopo l’incontro tra il Papa e gli artisti avvenuto lo scorso anno. La regia è ovviamente del cardinal Ravasi, la sede espositiva l’aula Paolo VI; larga e “alta“ la lista degli artisti invitati, gran parte dei quali hanno già garantito l’invio dell’opera richiesta sul tema «Splendore della vita, bellezza della carità». Per giudicare bisogna vedere (per ora si vede solo l’opera che l’immancabile Paladino ha già preparato e che il Corriere pubblica… dèja vu). Mi fa riflettere però un passaggio dell’articolo di Vincenzo Trione: «Talvolta, pittori, scultori e fotografi – da Nitsch a Hirst, da Serrano a Cattelan – si sono limitati solo a proporre sterili esercizi blasfemi, tesi a profanare e airridiere il sacro». A parte che sui nomi avrei qualcosa da discutere (Nitsch non mi sembra per niente irridente, ad esempio), è la questione della blasemia che mi lascia davvero interdetto. Non vorrei che si etichettasse come tale ogni tentativo di uscire dalla banalità, dal generico spirtualismo, di stringere i nodi drammatici del vivere. Magari prendendosi dei rischi, magari stando borderline rispetto al buon gusto o all’accettabilità delle proprie opere. La cosa che più manca a quasi tutti i tentativi di approcciare l’arte religiosa oggi è la carne. È arte che si posiziona su una soglia nobile e condivisa e di indagine e riflessione spirituale, guardandosi dall’affondare nella questione che invece il cristianesimo ha portato dentro l’arte: il fattore della “fisicità di Dio”. Io penso che da questo punto di vista Bacon con il suo Trittico del 45 resti un paradigma vero. Un punto in cui l’irriducibilità della presenza di Cristo si palesa come scandalo. Nitsch, con tutti i limiti e le sue fissazioni, è su quella strada: e mi colpisce la sua insistenza certamente ossessiva. Anche Hirst a volte è riuscito a toccare quelle corde.
Recentemente, rileggendo il libro dei dialoghi tra Jean Guitton e Paolo VI mi sono trovato davanti a questo pensiero del grande Montini: «Questo mi ricorda una cosa: quando collaboravo (con Maurice Zundel) a una rivista, avevamo rovesciato la frase di san Giovanni: “e la carne” dicevamo con l’audacia dei giovani “si è fatta parola”. Et Caro Verbum facta est. Non tutti i teologi ci avevano capiti, e riconosco che loro critiche erano giuste, ma bisognava capire che noi volevamo solo dare una definizione dell’arte e in particolare dell’arte cristiana. La materia è divenuta parola, una parola di Dio». La questione credo sia proprio questa: che la carne si faccia (di nuovo) verbo (ricordo che Paolo VI aveva accettato un Bacon per i Musei Vaticani).

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Giugno 9th, 2011 at 8:56 am

La Madonna di Brunelleschi, ultimo regalo di Luciano Bellosi

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Questa Madonna con il bambino, presentata all’interno della mostra aperta in queste settimane al Quirinale (sino al 19 giugno), è un po’ l’ultimo regalo lasciatoci da Luciano Bellosi. Come spiega Laura Speranza nella scheda, c’è l’avvallo di Bellosi nel riconoscere in questa Madonna, conservata nel Vescovado di Fiesole, il prototipo di una lunga serie di Madonne realizzate a Firenze nel primo scorcio del 400. E c’è anche l’avvallo di Bellosi nell’attribuire a Brunelleschi, che lui aveva studiato in quanto scultore, la paternità di questa terracotta policroma. Sarebbe opera da far risalire agli anni o ai mesi immediatamente successivi alla predella per il concorso (perso) per la porta nord del Battistero di Firenze. Laura Speranza sottolinea alcuni particolari che servono ad inquadrare l’opera: materiali preziosissimi (l’oro del manto, l’azzurrite della veste, la lacca rossa, i bolli d’oro punzonati della veste del Bambino) che lasciano presumere una committenza molto alta. Con ogni probabilità si stratta di Giovanni di Bicci, il padre di Cosimo il Vecchio, capostipite dei Medici e committente della Sagrestia Vecchia a Brunelleschi (c’è un motivo inconografico che richiama l’arte del Cambio di cui Giovanni era stato più volte priore.
Ma quello che colpisce di questa scultura è quello straordinario fiorir di forme reali dentro il guscio del gotico. Basti osservare l’intreccio tra le mani di Maria e la gambe del bambino; un intreccio in cui però non c’è più spazio per gli eleganti stereotipi del gotico perché tutto sembra prender “carne” e calore di vita. È un particolare che colpisce per come tiene insieme perfezione e tenerezza umana, con il pollice di Maria che affinda nella coscia del Bambino e il Bambino stesso che rovescia la pianta dle piedino rivolgendolo allo spettatore. È un intreccio che parla da solo, sintesi “muta” dell’essenza del sentimento materno.
Sottolineo poi, nella parte più gotica della scultura (la base) quella bellissima scritta, MATER DEI MEMENTO MEI. Madre di Dio ricordati di me.

Written by gfrangi

Giugno 4th, 2011 at 9:06 pm

Se Tintoretto fa breccia alla Biennale

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«Così Tintoretto illumina il nulla contemporaneo». È questo il titolo di Repubblica per la corrispondenza pubblicata oggi di Leonetta Bentivoglio dalla Biennale di Venezia. Che succede? Per chi ancora non lo sapesse, la curatrice della Biennale 2011, Bice Curiger, avendo scelto come tema la luce (ILLUMInazioni è il titolo), ha pensato giustamente di proporre un link con uno dei grandi maestri della pittura veneziana come Tintoretto. La luce è un elemento chiave dell’arte veneziana e di Tintoretto in particolare e quindi l’intuizione della Curiger sembra davvero azzeccata. Ai Giardini sono arrivate tre grandi tele, Il trafugamento del corpo di San Marco e la Creazione degli animali dall’Accademia e l’Ultima Cena arrivata da San Giorgio Maggiore (nell’immagine sopra, un particolare). Sono quadri che tolti dal loro contesto esplodono in tutta la loro potenza incendiaria. Jonathan Jones, il titolare del popolarissimo blog d’arte sul Guardian, parla di “una qualità sovversiva” e dei “drammatici effetti spaziali” della sua pittura. E poi evidenzia il paradosso di come un pittore “pio e pienamente omogeneo al controriformismo” oggi sia in grado di comunicare tanta energia e di suggestionare con quei suoi lampi di luce la mente di visitatori e artisti ormai impermeabili aogni provcazione.
Tintoretto alla Biennale quindi rimescola un po’ le carte. Dimostra che passato e presente possono assolutamente dialogare. Che la contaminazione può produrre effetti inaspettati. Certo, c’è da mettere in conto un po’ di spiazzamento. Perché come grida quel titolo di Repubblica può essere che le tele di Tintoretto con la loro febbre annientino ciò che sta attorno. Ma questo è un rischio che è salutare correre. Se Tintoretto è uscito dal guscio, è bene che anche l’arte contemporanea accetti di fare altrettanto e accetti il confronto. O no?

Written by gfrangi

Giugno 1st, 2011 at 3:37 pm

Grossman e la Madonna democratica di Raffaello

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Nel libro dal titolo bellissimo, Il bene sia con voi!, pubblicato ora in Italia da Adelphi Vasilij Grossman racconta un episodio emozionante (i libro è del 1961). Nella primavera del 1955 il governo russo aveva deciso di esporre in pubblico al museo Puskin, prima di restituirle, le opere che erano state portate via da Dresda dopo la fine della guerra. I capolavori della pinacoteca tedesca infatti si erano salvati dalle bombe americane perché portati in caveau svizzero e da lì, dopo al fine della guerra, erano stati presi da una delle potenze vincitrici e portati nella capitale sovietica. Quel 30 maggio 1955 Grossman si era messo in fila con migliaia di altri moscoviti per ammirare quei capolavori, prima del ritorno alla Gemaldegalerie di Dresda. Ma viene catturato, oserei dire travolto, dall’impatto con la Madonna Sistina di Raffaello. Ha la sensazione di esser davanti all’opera davvero immortale, capace di colpire il suo cuore come nessun’altra; ma, aggiunge, capace di colpire il cuore di tutti «vecchiette in miseria, imperatori, studenti, miliardari d’Oltreoceano, papi, principi russi». Grossman va anche oltre: «Anzi, se anche l’uomo dovesse estinguersi, gli esseri che prenderanno il suo posto sulla terra – lupi, ratti, orsi o rondini che siano – verranno sulle loro zampe o con le loro ali ad ammirare la Madonna di Raffaello…» .
Come motiva Grossman questa sua folgorazione? Le pagine, travolte dall’emozione, vanno lette tutte.a Ma in questo immagnifico convergere del mondo creato davanti alla Madonna Sistina c’è il cuore della sua intuizione. «La bellezza della Madonna è saldamente legata alla vita terrena. È democratica, umana; è la bellezza di tante, tantissime persone – gialli con gli occhi a mandorl, gobbi con il naso lungo, neri con i capelli crespi e la labbra tumide. È universale. La Madonna è anima e specchio dell’uomo e chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela – profonda e indistruttibile – ovunque nasca e cresca la vita – nella cantine, nei solai, nei palazzi e nelle topaie».
Post scriptum: La Madonna Sistina è una di quelle immagini troppo viste sulle quali colpevolmente si sorvola. La pagina di Grossman costringe a un salutare “affondo”. E l’immagine stretta sul volto del Bambino e di Maria ha in effetti qualcosa di potentemente caritatevole e magnetico allo stesso tempo. Il loro sguardo sembra posarsi sul nostro tempo ma avere come orizzonte un punto, assolutamente struggente, che va oltre il tempo. Uno sguardo umano e calmo. Ma come non intercettarne anche un fremito di inquietudine, quasi fossimo alla febbrile vigilia del giorno finale? Notate quel vento solare che scuote l’aria…

Written by gfrangi

Maggio 29th, 2011 at 8:51 am

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Dieci sguardi che mi fanno innamorare di Milano

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Hanno chiesto a Giuliano Pisapia i dieci luoghi di Milano che ama di più. L’outing devo dire è deludente: un po’ scontato e troppo politicamente corrette nelle sue scelte. L’amico no name mi sfida a scoprire le mie carte. Lo faccio volentieri, consapevole di avere un debole: più che i luoghi amo le architetture che li plasmano. Più che luoghi sono punti di vista sulla città, omaggio a quegli architetti che hanno saputo esprimere un’idea così alta, moderna e civile di città. (e manca all’appello uno di questi luoghi, di cui conservo ancora il sapore e l’odore – per via della gomma bullonata: la banchina del Metro 1 alla stazione Duomo, con le linee perfette di Albini e l’helvetica di Bob Noorda. Un vero capolavoro di eleganza in dimensione quotidiana. Tutto saccheggiato. Ci resta solo la foto di Ugo Mulas).
1. Lo stadio di San Siro visto da via San Giusto, con in primo piano la stecca a somma perfetta di quadrati di Figini Pollini e dietro l’immenso vascone di tanti trionfi.
2. Il grattacielo Pirelli visto di spigolo
3. Il Duomo visto da dietro, nel punto in cui via Larga sfiora piazza Fontana.
4. L’uscita da Milano su viale Scarampo con i grandi trapezi di vetro di Gino Valle sulla sinistra. Un frammento metropolitano meraviglioso se avete la fortuna di passare di lì nel pieno di un tramonto.
5. Vialba, dove la strada curva tra il campo Bariviera Tadini e le case di Franco Albini.
6. Corso Italia nel punto in cui irrompe la prua bianca del palazzo di Luigi Moretti.
7. Il chiostro grande della Statale, stando nell’angolo, dove si vede la torre Velasca spuntar sopra i tetti del
Filarete.
8. Il sagrato della Madonna dei Poveri a Baggio.
9. Il porticato di Aldo Rossi al complesso Monte Amiata al Gallaratese.
10. La sala firmata BBPR del Castello, nello snodo che nasconde la Pietà Rondanini alla tomba di Gaston de Foix.
11. Mi permetto di sforare: piazza degli Affari, esaltata nelle sue line dall’innesto della mano di Cattelan.

Written by gfrangi

Maggio 27th, 2011 at 8:57 am

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