Imprevisti percorsi dell’informazione: è da Il Manifesto di domenica (inserto Alias) che sono venuto a sapere, attraverso un documentatissimo articolo, di questa Pietà recentemente acquisita dal Louvre. Un’acquisizione di grande importanza, perché il catalogo di questo artista arrivato dai Paesi Bassi alla corte di Borgogna nell’ultimo scorcio del 300, si conoscono solo altre tre opere, una delle quali è proprio al Louvre. Una pagina intera del quotidiano, con l’immagine che campeggia con la delicatezza delle sue linee e dei suoi colori: un colpo d’occhio davvero emozionante. La Pietà è di altissima poesia, con il corpo di Cristo nudo che s’allunga frontalmente senza dar nessuno scandalo per tutta la tavola. Le figure sembrano tutte disposte con l’ordine dei petali di un fiore. Scrive Claudio Gulli: «Si tratta di un’opera di una ricchezza rara: colori rari – sfoglie di lapislazzuli, miscele calde di lacca, minio e vermiglione, gli squilli del giallo di piombo-stagno – accendono il contrasto emotivo fra l’atterramento di Cristo e il doloroso contegno degli astanti». La tavola è arrivata al Louvre in modo rocambolesco (tant’è che sul sito del Museo non ne ho trovato ancora traccia): era infatti conservata nel presbiterio della parrocchia di Vic Le Comte paesino nel centro sud della Francia. Nessuno ne conosceva l’importanza, e il parroco decise di venderlo per far fronte a spese urgenti. Intercettato sul mercato da un privato, ora è arrivato al Louvre che lo ha pagato 7,8 milioni, alla condizione che 2,7 tornassero al comune che dell’opera si era visto improvvidamente privato. Dal 16 maggio è visibile alla Galerie Richelieu. «Un dipinto che sarebbe piaciuto a Luciano Bellosi», ha detto Dominique Thiébaut, la conservatrice della collezione dei primitivi del museo parigino (che ha pubblicato per l’occasione anche un agile libretto su quest’opera). Una ragione in più per ammirarla.
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La Madonna di Brunelleschi, ultimo regalo di Luciano Bellosi
Questa Madonna con il bambino, presentata all’interno della mostra aperta in queste settimane al Quirinale (sino al 19 giugno), è un po’ l’ultimo regalo lasciatoci da Luciano Bellosi. Come spiega Laura Speranza nella scheda, c’è l’avvallo di Bellosi nel riconoscere in questa Madonna, conservata nel Vescovado di Fiesole, il prototipo di una lunga serie di Madonne realizzate a Firenze nel primo scorcio del 400. E c’è anche l’avvallo di Bellosi nell’attribuire a Brunelleschi, che lui aveva studiato in quanto scultore, la paternità di questa terracotta policroma. Sarebbe opera da far risalire agli anni o ai mesi immediatamente successivi alla predella per il concorso (perso) per la porta nord del Battistero di Firenze. Laura Speranza sottolinea alcuni particolari che servono ad inquadrare l’opera: materiali preziosissimi (l’oro del manto, l’azzurrite della veste, la lacca rossa, i bolli d’oro punzonati della veste del Bambino) che lasciano presumere una committenza molto alta. Con ogni probabilità si stratta di Giovanni di Bicci, il padre di Cosimo il Vecchio, capostipite dei Medici e committente della Sagrestia Vecchia a Brunelleschi (c’è un motivo inconografico che richiama l’arte del Cambio di cui Giovanni era stato più volte priore.
Ma quello che colpisce di questa scultura è quello straordinario fiorir di forme reali dentro il guscio del gotico. Basti osservare l’intreccio tra le mani di Maria e la gambe del bambino; un intreccio in cui però non c’è più spazio per gli eleganti stereotipi del gotico perché tutto sembra prender “carne” e calore di vita. È un particolare che colpisce per come tiene insieme perfezione e tenerezza umana, con il pollice di Maria che affinda nella coscia del Bambino e il Bambino stesso che rovescia la pianta dle piedino rivolgendolo allo spettatore. È un intreccio che parla da solo, sintesi “muta” dell’essenza del sentimento materno.
Sottolineo poi, nella parte più gotica della scultura (la base) quella bellissima scritta, MATER DEI MEMENTO MEI. Madre di Dio ricordati di me.
Agosti: “Cosa ho imparato da Bellosi”
È uscito su Alias il ritratto di Bellosi firmato da Giovanni Agosti. Ne esce un profilo che dà tutto lo spessore, anche drammatico del personaggio, a dimostrazione che la calma finale della scrittura critica è sempre esito di un cammino a volte anche doloroso, di fratture intellettuali ed esistenziali. In un certo senso mi viene ancor di più da ammirare questa calma finale che cogliamo sulle sue pagine, come frutto anche di una grazia speciale. Quasi un premio. Scrive Agosti: «A quella prosa calma e come sedata, a quella riduzione dei problemi al nocciolo essenziale, lasciando perdere ogni forma di complicazione, ogni elemento di disturbo, a costo di risultare uno zuccone, Luciano non arrivava per dono divino, ma superando a fatica i propri tormenti, il proprio inguaribile senso di colpa, facendo i conti con l’insorgenza quotidiana dei fantasmi».
Una prima frattura “felice” Agosti la richiama nella scelta della tesi: Bellosi scartò quella proposta da Longhi su Alessandro Allori, per scegliere invece altra epoca (in senso storico, ma anche psicologico, direi): «…il crepuscolo del manierismo fiorentino, quando la città è ritornata provincia per restarci definitivamente, nonostante la corte medicea, cioè il tempo di Alessandro Allori, non era nelle corde di Luciano: e aveva trovato la forza di rifiutare la proposta di Longhi per dedicarsi invece a una tesi, discussa nel 1963, su Lorenzo Monaco… per cominciare così un periplo che l’avrebbe portato in un arco di tempo assai breve a diventare il maggiore interprete della fine del Gotico in Toscana».
Capisco che discende da Bellosi anche questa intuizione su un nuovo modo di fare mostre. Una novità di conceezione che fa capolino con la mostra Pittura di luce a Casa Buonarroti, nel 1990. «L’esposizione – una delle ultime battute del mecenatismo Olivetti – permette di riproporre la lunga fedeltà di Luciano a un aspetto (un aspetto soltanto, sia chiaro) del modo di procedere di Longhi ma stavolta si incrocia con altre sensibilità, di altre generazioni, e quello che rischiava di essere retrospettivo diventa, malgré soi, un avamposto di metodo. Luciano capisce, e ci prova gusto, di essere molto bravo a sapere fare le mostre: a scegliere le opere, a farle dialogare, a cercare attraverso la chiarezza degli accostamenti il senso della storia».
Giovanni Agosti e Luciano Bellosi (secondo e terzo da sinistra seduti), a Bagolino, davanti agli affreschi dei De Cemno. L’immagine è tratta da un fotogramma di un breve, bellissimo filmato di Alessandro Uccelli.
E i vivi parean vivi. Ricordo di Luciano Bellosi
Non ho mai avuto la fortuna di conoscere Luciano Bellosi, morto martedì, se non in occasioni di alcune telefonate, una in particolare per un’intervista che gli feci prima della grande mostra su Duccio a Siena nel 2003. L’ho conosciuto molto di più attraverso le sue pagine, che mi sono sempre sembrate all’insegna di una limpidezza di pensiero e di un grande senso civile rispetto alle cose che di volta in volta studiava. Ne ritrovo lo spirito in queste parole che mi disse a sintesi del suo pensiero su Duccio: «Per me la bellezza di Duccio si fonda sulla serietà e sulla convinzione. Ha visto con i suoi occhi la potenza della rivoluzione giottesca, l’ha assimilata a modo suo senza riserve mentali, ma ha avuto la forza di restare se stesso. Ha proiettato nell’intensità dei colori, come in quei rossi vinati e scuri, il proprio stupore per il reale. Ma non ha mai smarrito il senso dell’equilibrio. La profondità di accenti non è mai andata a discapito della raffinatezza».
Mi aveva appassionato il suo procedere sempre così persuasivo e logico nel riconsegnare a Giotto le scene con le Storie di Isacco nella Basilica di Assisi, dove spiccava quella indimenticabile figura di Giacobbe, con l’occhio teso, quasi puntato a ipnotizzare il padre e a nascondere l’inganno.
Sempre a proposito di Giotto ero annotato queste sue parole, riferite al Crocifisso di Santa Maria Novella «per la prima volta in pittura, le forme e le posizioni di un vero corpo umano […], il dolore e la morte non si traducono più in una forma araldica».
E poi come non sentirsi grati a Bellosi per aver scelto per titolo alla sua raccolta di scritti sulla pittura del Due e Trecento E i vivi parean vivi, titolo ripreso dal versetto del 12 del Purgatorio, quando Dante passava davanti ai bassorilievi che rappresentavano le vicende dei superbi.
Unica vera amarezza, che un libro stupendo come La pecora di Giotto (Einaudi, 1985) sia vergognosamente fuori catalogo e assolutamente introvabile. Lo si può leggere qui in pdf.
Dario Fo, meglio che tu taccia
Ha fatto bene il vescovo di Assisi Domenico Sorrentino a impedire a Dario Fo di portare in scena davanti alla Basilica di Assisi il suo spettacolo in cui si prende la briga di demolire l’attribuzione a Giotto degli affreschi della Basilica Superiore, già sostenuta da Bruno Zanardi e da Federico Zeri. “Ofelè fa il to mestè”: Dario Fo è un grande guitto, ma la smetta di fare il crociato delle cause più inverosimili, solo per guadagnare in visibilità e passare da martire. Sugli affreschi di Assisi pochi hanno certezze: ma quelle poche certezze credibili portano tutte al nome di Giotto, come documentato dai libri recenti di due studiosi di primissimo piano, Luciano Bellosi e Serena Romano. Portano prove e ragionamenti serrati, che ora con la allegra fanfaronaggine che lo contraddistingue, Fo vorrebbe azzerare. A gloria sua e a danno di altri.
Ps: Serena Romano riferisce a Giotto persino i due capolavori delle Storie di Isacco, nel registro alto della navata. Due riquadri che rappresentano un vero “inizio” dell’arte in Italia. È lo scavo nella “forma mentis” dell’artista che porta la Romano alla certezza. Nelle due Storie di Isacco infatti si trovano, in forma di invenzione, tantissimi elementi che Giotto maturo farà “esplodere” negli affreschi di Padova, più di 10 anni dopo. Sono tanti e davvero affascinanti questi elementi di coincidenza profonda. Uno in particolare: quello del “gesto”. Giotto mette spesso un gesto, emotivamente potente, come perno delle sue composizioni. Nelle due Storie sono le mani, icasticamente isolate sul fondo rosso del tendaggio che chiude la stanza di Isacco. Ed è la stessa potenza semplice e densa che ritroviamo nella mano di Cristo, che si staglia sul blu del cielo nella scena dell’Ingesso a Gerusalemme a Padova; o è la stessa efficacia fragile e drammatica del braccio del bimbo, sollevato brutalmente nella Strage degli innocenti.
Sono vere scatole spaziali che contengono intuzioni geniali, come quella di Rebecca che si volge di spalle, come scappasse, vergognandosi dell’inganno perpetrato…
Buone letture/2
Su Repubblica recensione di Antonio Pinelli alla mostra di Mantegna al Louvre. Recensione estremamente chiara, da cui si deduce che questa è una mostra imperdibile, curata da Giovanni Agosti e Dominique Thiébaut, ma con il coinvolgimento di una grande squadra attorno. Tra l’altro, nella ricostruzione del percorso si scopre che una sezione è dedicata a un tema che ci sta caro: il rapporto tra Bellini e Mantegna. Ed è una sezione curata da Luciano Bellosi. «La sezione che segue, curata da Bellosi, è fra le più emozionanti e innovative, mostrandoci Andrea, che nel ’53 ha sposato la figlia di Jacopo Bellini, Nicolosia, procedere «in cordata» con il giovane cognato, Giovanni Bellini, in un sodalizio così stretto e reciprocamente proficuo da indurre Agosti ad evocare quello che legò Braque e Picasso negli anni eroici del primo Cubismo». Ovviamente ne riparleremo.