Chi è dunque Matteo? Per quanto possa essere suggestiva non pare abbia molta credibilità l’ipotesi proposta nel corso di una trasmissione di TvSat 2000 a cura di sara Magister che rilegge in modo diverso il grande quadro della Chiamata di Caravaggio. Secondo questa versione (ma anche secondo un accurato studio pubblicato nel 1988 da una studiosa australiana, Angela Hass, sul Journal of Warburg and Courtald institutes) il vero Matteo sarebbe il giovane a capo chino, appoggiato sul banco da gabelliere e assolutamente concentrato nella conta dei denari. In base a quali elementi si arriva a questa ipotesi un po’ ardita? L’uomo, seduto anche lui al banco ma in posizione più laterale, che indica se stesso come destinatario della chiamata in realtà sarebbe colui che in questo momento sta versando le tasse, tanto che con l’altra mano stringe ancora la moneta da consegnare. Angela Hass nel suo studio del 1988 notava anche altri particolari che potevano avvalorare l’ipotesi: è il giovane a testa chinata a tenere in pugno il sacchetto con i soldi uno dei riferimenti iconografici per Matteo e poi ha notato alcune corrispondenze con la prima versione del San Matteo e l’Angelo, quella rifiutata e poi andata persa per i bombardamenti su Berlino (Matteo è seduto sullo stesso tipo di seggiola, c’è una corrispondenza rovesciata nel gioco delle mani).
Un’ipotesi ardita che insiste anche su un fattore di aderenza “psicologica”: Gesù chiama proprio colui che nessuno poteva pensare venisse chiamato. E si fa riferimento a un passaggio di un discorso di Benedetto XVI in cui il papa insiste su questo fattore: «I dodici apostoli non erano uomini perfetti. Gesù non li chiamò perché erano già santi, ma affinché lo diventassero, affinché fossero trasformati, per trasformare così anche la storia».
Ma quanto a Benedetto XVI è più giusto fare riferimento alla Catechesi sugli apostoli (una serie molto bella), e alla “puntata” dedicata a Matteo del 30 agosto 2006. In quell’occasione il Papa cita en passant proprio il capolavoro di Caravaggio, ma poi nello sviluppo della sua analisi insiste soprattutto su un punto: cioè sulla risposta istantanea di Matteo: «Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi!”. Ed egli si alzò e lo seguì». È proprio su questo inciso finale che insiste il papa: «La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa».
Èd è questo il cuore del quadro di Caravaggio: Matteo mentre ancora è intento alla sua attività abituale (vedi cosa fa con la mano destra), è già pronto alla svolta secca della sua vita. L’occhio è già puntato acutamente altrove e se notate la posizione delle sue gambe sotto il tavolo, sembrano già nell’atto di scattare, con il movimento di chi si appresta ad alzarsi.
E se non fossero queste annotazioni, c’è pur sempre da fare i conti con i documenti. C’è una precisa notazione lasciata dal cardinale Contarelli, committente della Cappella (anche se ormai morto da tempo al momento della sua realizzaione che viene acclusa al contratto. La nota dice: «… dal qual banco San Matteo vestito secondo quanto parera convenirsi a quell’arte si levi con desiderio per venire a N. Signore che passando lungo la strada lo chiama all’apostolato; e nell’atto di San Matteo si ha a dimostrare l’artificio del pittore…»
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Caravaggio, chi è davvero Matteo?
Arte contemporanea in Vaticano. A rischio di banalità…
Oggi Il Corriere annuncia a tutta pagina, in apertura di cultura, la prossima mostra che si aprirà in Vaticano e che rappresenta un primo passo concreto dopo l’incontro tra il Papa e gli artisti avvenuto lo scorso anno. La regia è ovviamente del cardinal Ravasi, la sede espositiva l’aula Paolo VI; larga e “alta“ la lista degli artisti invitati, gran parte dei quali hanno già garantito l’invio dell’opera richiesta sul tema «Splendore della vita, bellezza della carità». Per giudicare bisogna vedere (per ora si vede solo l’opera che l’immancabile Paladino ha già preparato e che il Corriere pubblica… dèja vu). Mi fa riflettere però un passaggio dell’articolo di Vincenzo Trione: «Talvolta, pittori, scultori e fotografi – da Nitsch a Hirst, da Serrano a Cattelan – si sono limitati solo a proporre sterili esercizi blasfemi, tesi a profanare e airridiere il sacro». A parte che sui nomi avrei qualcosa da discutere (Nitsch non mi sembra per niente irridente, ad esempio), è la questione della blasemia che mi lascia davvero interdetto. Non vorrei che si etichettasse come tale ogni tentativo di uscire dalla banalità, dal generico spirtualismo, di stringere i nodi drammatici del vivere. Magari prendendosi dei rischi, magari stando borderline rispetto al buon gusto o all’accettabilità delle proprie opere. La cosa che più manca a quasi tutti i tentativi di approcciare l’arte religiosa oggi è la carne. È arte che si posiziona su una soglia nobile e condivisa e di indagine e riflessione spirituale, guardandosi dall’affondare nella questione che invece il cristianesimo ha portato dentro l’arte: il fattore della “fisicità di Dio”. Io penso che da questo punto di vista Bacon con il suo Trittico del 45 resti un paradigma vero. Un punto in cui l’irriducibilità della presenza di Cristo si palesa come scandalo. Nitsch, con tutti i limiti e le sue fissazioni, è su quella strada: e mi colpisce la sua insistenza certamente ossessiva. Anche Hirst a volte è riuscito a toccare quelle corde.
Recentemente, rileggendo il libro dei dialoghi tra Jean Guitton e Paolo VI mi sono trovato davanti a questo pensiero del grande Montini: «Questo mi ricorda una cosa: quando collaboravo (con Maurice Zundel) a una rivista, avevamo rovesciato la frase di san Giovanni: “e la carne” dicevamo con l’audacia dei giovani “si è fatta parola”. Et Caro Verbum facta est. Non tutti i teologi ci avevano capiti, e riconosco che loro critiche erano giuste, ma bisognava capire che noi volevamo solo dare una definizione dell’arte e in particolare dell’arte cristiana. La materia è divenuta parola, una parola di Dio». La questione credo sia proprio questa: che la carne si faccia (di nuovo) verbo (ricordo che Paolo VI aveva accettato un Bacon per i Musei Vaticani).