Questa Madonna con il bambino, presentata all’interno della mostra aperta in queste settimane al Quirinale (sino al 19 giugno), è un po’ l’ultimo regalo lasciatoci da Luciano Bellosi. Come spiega Laura Speranza nella scheda, c’è l’avvallo di Bellosi nel riconoscere in questa Madonna, conservata nel Vescovado di Fiesole, il prototipo di una lunga serie di Madonne realizzate a Firenze nel primo scorcio del 400. E c’è anche l’avvallo di Bellosi nell’attribuire a Brunelleschi, che lui aveva studiato in quanto scultore, la paternità di questa terracotta policroma. Sarebbe opera da far risalire agli anni o ai mesi immediatamente successivi alla predella per il concorso (perso) per la porta nord del Battistero di Firenze. Laura Speranza sottolinea alcuni particolari che servono ad inquadrare l’opera: materiali preziosissimi (l’oro del manto, l’azzurrite della veste, la lacca rossa, i bolli d’oro punzonati della veste del Bambino) che lasciano presumere una committenza molto alta. Con ogni probabilità si stratta di Giovanni di Bicci, il padre di Cosimo il Vecchio, capostipite dei Medici e committente della Sagrestia Vecchia a Brunelleschi (c’è un motivo inconografico che richiama l’arte del Cambio di cui Giovanni era stato più volte priore.
Ma quello che colpisce di questa scultura è quello straordinario fiorir di forme reali dentro il guscio del gotico. Basti osservare l’intreccio tra le mani di Maria e la gambe del bambino; un intreccio in cui però non c’è più spazio per gli eleganti stereotipi del gotico perché tutto sembra prender “carne” e calore di vita. È un particolare che colpisce per come tiene insieme perfezione e tenerezza umana, con il pollice di Maria che affinda nella coscia del Bambino e il Bambino stesso che rovescia la pianta dle piedino rivolgendolo allo spettatore. È un intreccio che parla da solo, sintesi “muta” dell’essenza del sentimento materno.
Sottolineo poi, nella parte più gotica della scultura (la base) quella bellissima scritta, MATER DEI MEMENTO MEI. Madre di Dio ricordati di me.
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La Madonna di Brunelleschi, ultimo regalo di Luciano Bellosi
Se Matisse fosse impazzito sarebbe stato Monet
Vista la (bella) mostra di Monet a Palazzo Reale di Milano. Qualche considerazione.
Monet e i giapponesi. Chiaro che li amasse, chiaro che il parallelismo proposto nella mostra sia pertinente. Ma poi, se guardi gli esiti, ti vien da dire: che c’entrano? Monet affonda (nel senso che va al fondo) laddove Hokusai e soci restano sempre rigorosamente sulla superficie. Monet è gestuale, mentre i giapponesi sono zen: non si vede un segno. E allora c’è da chiedersi: perché Monet sentiva oggettivamente tanta affinità. Vedendo la mostra e osservando le date mi sono fatto un’idea. Monet realizza questo suo straordinario forcing finale mentre in Europa ne accadono di ogni. Lui muore nel 1926, s’è visto passare sotto gli occhi i fauve, i cubisti, i futuristi, gli astratti, i surrealisti, i dada e Duchamp… Lui non ha fatto una piega, ma è naturale che cercasse riparo in un altro mondo. Il Giappone è il palcoscenico sul quale lui si sente perfettamente a suo agio a continuare un film che poteva sembrare anacronistico. Quasi un Aventino (ce ne dimentichiamo spesso: ma sino agli anni 50 il Monet ultimo non era affatto considerato. C’è voluta la rivolta rancida degli informali per far capire quanto avesse visto lontano).
Monet e Matisse. È l’unico parallelismo possibile in quell’Europa travolgente di inizio secolo. Matisse è un altro artista positive-thinking. Non aveva grilli avanguardistici per la tesa: o quanto meno, non erano mai grilli prevalenti. A Milano è esposto un quadro straordinario Les Agapanthes, 1914 (qui sopra), al quale si può riferire un pensiero geniale di Francesco Arcangeli, giustamente riportato in mostra. «Ora se io volessi riassumere l’effetto di un quadro come questo nel suo intero e nel suo particolare, direi che è una sorta di Matisse impazzito. Se Matisse fosse diventato pazzo avrebbe dipinto un quadro come questo. Non ne ha dipinti. Matisse è grande perché è Matisse, però Monet verso gli 80 anni era tanto potente e tanto presente da dargli risposte di questo tipo».
Le scintille di Monet. Ma Arcangeli ha scritto una cosa ancora più grande su Monet. Un’intuizione chiave per capire le caratteristoiche della sua grandezza. Sentite: «…questa ripercussione della scintilla luminosa su una superficie che è la tela di un quadro, è di una potenza artistica e mentale che a mio parere è paragonabile soltanto all’invenzione della prospettiva in Filippo Brunelleschi ed è altrettanto sconvolgente. Non ha nulla da invidiare all’atto mentale di Brunelleschi… potrà sembrare un fatto istintivo invece riassume, in un battito della luce e dell’ombra, nel quadro immaginato come una finestra sul vero un principio luministico … che è già potenzialmente una visione di ordine universale di ordine cosmico». Una grande lettura che brucia ogni nella lettura istintiva di Monet.
Infine: scordatevi di capire Monet dalle riproduzioni. Ci sono pochi pittori più irriproducibili di lui (a dimostrazione che quella scintilla luminosa ha davvero dentro una potenza difficilmente catturabile). Quando si esce dalla mostra e si sfoglia il catalogo della Mostra (Motta), ti passa qualsiasi tentatzione di comperarlo. Sembra che abbiano messo in pagina un altro pittore…