Raramente una madre e un padre sono stati così ossessivamente decisivi per il destino di un artista. Josephine, la mamma di Louise Bourgeois, era nata Aubuisson, nel cuore della Francia. Veniva da una famiglia di tessitori di arazzi, arte che lei stessa aveva appreso; la cittadina era attraversata dal corso del Creuse, un fiume le cui acque, contenendo il tannino, avevano proprietà chimiche che rendevano la lana particolarmente reattiva alla tintura. Papà Louis invece era un architetto di paesaggi che non riuscì mai a ricavare un centesimo dalla sua professione; in compenso tornava dai suoi continui viaggi portando quelle statue in piombo usate come decorazioni nei giardini. «Bisognava continuamente riparlarle perché la lamina di piombo era tanto sottile. È uno dei motivi per cui sono diventata scultrice: mi erano così famigliari», avrebbe raccontato tanti anni dopo Louise. La mamma era specializzata nel “rentrayage”, il rammendo e la ritessitura degli arazzi che papà Louis, con il suo occhio fine, trovava e portava a casa. Di salute fragile, Josephine morì presto nel 1932, quando Louise aveva solo 22 anni. «Fui sopraffatta dalla brama rabbiosa di capire»: l’arte di Louise Bourgeois nasce proprio dal rispondere a questa brama.
Nel 1985, quando ormai era diventata cittadina americana dopo aver spostato nel 1938 Robert Goldwater, storico dell’arte, realizzava una delle sue opere più emblematiche, “She-Fox”. “She” è naturalmente lei, la mamma, indagata per una necessità di capire che non era venuta meno neanche a mezzo secolo dalla sua scomparsa. È un ritratto da dentro, perché l’arte per Louise Bourgeois è un percorso interiore, che in questo caso la porta ad affrontare un sospetto assillante, che sua mamma potesse non averla amata. Per la scultura aveva scelto un blocco di marmo nero, durissimo da lavorare, materiale che non concede niente e «costringe a conquistare la forma». La seconda parola del titolo, “Fox”, fa invece riferimento al valore di una donna che sapeva destreggiarsi in ogni situazione e che Louise vedeva abile come una “volpe”. Lei invece non si riteneva all’altezza, perciò la scultura diventa una necessaria resa dei conti: la mamma dalle tante mammelle ha la testa mozzata. Ma sotto i suoi fianchi c’è scavato un piccolo nido: «È lì che mi sono messa io. Mi aspetto che continui a volermi bene». Così la scultura ha assolto la sua funzione: «Può tirarti fuori dai guai ristabilendo in te una sorta di armonia».
Con il padre le cose sono andate invece così: nel 1974 Louise Bourgeois affronta la sua prima installazione ambientale, “The Destruction of the Father”, un’opera che lei ha spiegato di aver realizzato per esorcizzare la paura. Quale paura? Non quella di non essere accettata da un uomo che aveva avuto con lei la terza figlia invece dell’agognato maschio. La paura era nei confronti di un padre non prepotente né violento ma insopportabilmente pieno di sé, che si pavoneggiava a tavola (e la tavola/letto è al cuore dell’opera, che è racchiusa in una scatola e drammatizzata da una luce rossa), facendo sentire tutti come insignificanti. Louise aveva con lui un conto aperto che ha affrontato in questo lavoro «così duro che alla fine mi sono sentita un’altra persona». L’opera quindi, per sua stessa ammissione, le è servita: «Mi ha davvero cambiata». È una scultura catarsi, che dimostra come per Louise Bourgeois un artista non produca opere per migliorarsi, ma per essere «più capace di sopportare».
La scultura per Louise Bourgeois ha davvero un potere di cambiare chi la frequenta. Lo dimostra la sua opera più celebre, “Maman”, presentata alla Tate Modern per inaugurare il grande spazio della Turbine Hall nel 2000. Il suo sguardo sulla madre è profondamente diverso, rispetto a “She-Fox”. La forma è quella ben nota di un gigantesco ragno, che si inarca in una posa larga e protettiva nei confronti delle uova (di marmo) che custodisce in una sacca posta sotto la sua testa. Quel ragno è un’ode alla mamma, «la mia migliore amica». Come un ragno, la madre di Louise era una tessitrice. Ed è rivelatrice la sequenza di aggettivi con i quali Louise, per spiegare la scultura, delinea la figura materna: «protettiva, sempre pronta, cauta, intelligente, paziente, tranquillizzante, ragionevole, delicata, sottile, indispensabile, ordinata e utile come un ragno».
L’arte per Louise Bourgeois è innanzitutto un fatto personale, tant’è vero che per tanti anni ha tenuto il lavoro per sé, senza avvertire la necessità di esporre («L’arte nasce da un rintanarsi», ha sempre detto). Del resto il sistema non era molto sensibile rispetto un’artista sposata e madre di tre figli, di cui uno adottato («I trustees del MoMA non erano interessati ad una donna che veniva da Parigi. Non avevano affatto bisogno di me, socialmente. Volevano artisti maschi che venissero da soli e non fossero sposati»). Era stato Arthur Drexler, allora poeta ma che poi sarebbe diventato storico dell’architettura al MoMA, a scoprirla e a convincerla ad esporre alla Peridot Gallery di New York nel 1949, quindi alla vigilia dei suoi 40 anni. Aveva esposto in quell’occasione la sequenza quasi seriale delle “Figure”, sculture sottili, tutte verticali, che facevano riferimento a situazioni dichiarate nei titoli (“Figure qui apporte pain”, “Figure regardant une maison”, “Figure qui s’appuie contre une porte” e così via…). Cosa rappresentavano queste “figure”? Erano la confessione di un senso di tradimento nei confronti di tutte quelle persone che aveva lasciato in Francia nel momento in cui aveva deciso di sposarsi e di trasferirsi in America. Sono bianche e nella loro purezza restituiscono lo struggimento doloroso della persona lasciata lontana. Esprimono la dimensione di una mancanza attraverso la fragilità della loro verticalità e come lei ha spiegato, evidenziano «lo sforzo sovrumano per tenersi in piedi».
La scintilla che la mette in azione come artista infatti è proprio la coscienza di una mancanza. «L’idea», ha detto Bourgeois, «viene sempre da un fallimento, da una qualche impotenza». L’arte è uno strumento che mette in rapporto con il proprio inconscio, dando la possibilità molto speciale di sublimarlo («di essergli amici», lei sottolinea). Sublimarlo, anche se l’operazione può essere dura e dolorosa, come documentato dalla resistenza del materiale sul quale si lavora o dall’asprezza delle narrazioni che si realizzano. Per Bourgeois l’arte ha una capacità riparativa, di ricucitura (tornano sempre le funzioni del lavoro materno sugli arazzi…) e in ultima analisi di perdono. Si tratta di una parola rara nel lessico degli artisti, che è invece sempre ben presente nel vocabolario di Louise. L’aggressività estrema di tanti suoi lavori nasce dal desiderio di rimettere insieme, di riparare situazioni che si sono lacerate: la condizione perché questo possa accadere è il bisogno di perdonare. In un’intervista rilasciata a Demetrio Paparoni, Bourgeois aveva sottolineato con decisione la differenza tra dimenticare e perdonare: «Dimenticare è negare, sotterrare. Negare è il tentativo di dimenticare. È il fallimento attraverso il quale sotterri cose a cui non hai mai pensato… perdonare è invece una forma di progressione che dà luogo alla pace». È per questo che nell’opera di Bourgeois non si scorge mai neppure l’ombra del rancore.
Invece c’è campo aperto per la narrazione visiva dell’esperienza del dolore. È quello che accade nella lunga serie di opere realizzate agli inizi degli anni 90 che vanno sotto il titolo di “Cell”. Ognuna di queste “celle” è uno spazio spalancato su un tipo diverso di dolore e sulla paura che sviluppa, come “Cell (Clothes)” esposta alla Fondazione Prada di Milano. È anche uno spazio protetto che attrae il voyeur, il quale si affaccia e si trova davanti qualcosa di respingente. «Ciò che accade al mio corpo richiede un’espressione formale astratta», aveva spiegato l’artista spiegando questo ciclo al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh. «Quindi si potrebbe dire che il dolore è il riscatto del formalismo». Un formalismo non più ridotto a stile, ma che nelle opere di Louise Bourgeois prende un corpo, condensa un’esperienza psichica ed emotiva. «Non riesco a parlare di stile in generale. Posso solo parlare del mio, che è uno stile interamente dettato dalla vita. È dettato dalla mia capacità di sopportare le privazioni. Lo stile ha a che fare con i miei limiti».
Pubblicato su Domani, 24 ottobre 2021