Robe da chiodi

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Dolore e perdono, lo stile di Louise Bourgeois

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Raramente una madre e un padre sono stati così ossessivamente decisivi per il destino di un artista. Josephine, la mamma di Louise Bourgeois, era nata Aubuisson, nel cuore della Francia. Veniva da una famiglia di tessitori di arazzi, arte che lei stessa aveva appreso; la cittadina era attraversata dal corso del Creuse, un fiume le cui acque, contenendo il tannino, avevano proprietà chimiche che rendevano la lana particolarmente reattiva alla tintura. Papà Louis invece era un architetto di paesaggi che non riuscì mai a ricavare un centesimo dalla sua professione; in compenso tornava dai suoi continui viaggi portando quelle statue in piombo usate come decorazioni nei giardini. «Bisognava continuamente riparlarle perché la lamina di piombo era tanto sottile. È uno dei motivi per cui sono diventata scultrice: mi erano così famigliari», avrebbe raccontato tanti anni dopo Louise. La mamma era specializzata nel “rentrayage”, il rammendo e la ritessitura degli arazzi che papà Louis, con il suo occhio fine, trovava e portava a casa. Di salute fragile, Josephine morì presto nel 1932, quando Louise aveva solo 22 anni. «Fui sopraffatta dalla brama rabbiosa di capire»: l’arte di Louise Bourgeois nasce proprio dal rispondere a questa brama. 

Nel 1985, quando ormai era diventata cittadina americana dopo aver spostato nel 1938 Robert Goldwater, storico dell’arte, realizzava una delle sue opere più emblematiche, “She-Fox”. “She” è naturalmente lei, la mamma, indagata per una necessità di capire che non era venuta meno neanche a mezzo secolo dalla sua scomparsa. È un ritratto da dentro, perché l’arte per Louise Bourgeois è un percorso interiore, che in questo caso la porta ad affrontare un sospetto assillante, che sua mamma potesse non averla amata. Per la scultura aveva scelto un blocco di marmo nero, durissimo da lavorare, materiale che non concede niente e «costringe a conquistare la forma». La seconda parola del titolo, “Fox”, fa invece riferimento al valore di una donna che sapeva destreggiarsi in ogni situazione e che Louise vedeva abile come una “volpe”. Lei invece non si riteneva all’altezza, perciò la scultura diventa una necessaria resa dei conti: la mamma dalle tante mammelle ha la testa mozzata. Ma sotto i suoi fianchi c’è scavato un piccolo nido: «È lì che mi sono messa io. Mi aspetto che continui a volermi bene». Così la scultura ha assolto la sua funzione: «Può tirarti fuori dai guai ristabilendo in te una sorta di armonia».

Con il padre le cose sono andate invece così: nel 1974 Louise Bourgeois affronta la sua prima installazione ambientale, “The Destruction of the Father”, un’opera che lei ha spiegato di aver realizzato per esorcizzare la paura. Quale paura? Non quella di non essere accettata da un uomo che aveva avuto con lei la terza figlia invece dell’agognato maschio. La paura era nei confronti di un padre non prepotente né violento ma insopportabilmente pieno di sé, che si pavoneggiava a tavola (e la tavola/letto è al cuore dell’opera, che è racchiusa in una scatola e drammatizzata da una luce rossa), facendo sentire tutti come insignificanti. Louise aveva con lui un conto aperto che ha affrontato in questo lavoro «così duro che alla fine mi sono sentita un’altra persona». L’opera quindi, per sua stessa ammissione, le è servita: «Mi ha davvero cambiata». È una scultura catarsi, che dimostra come per Louise Bourgeois un artista non produca opere per migliorarsi, ma per essere «più capace di sopportare».

La scultura per Louise Bourgeois ha davvero un potere di cambiare chi la frequenta. Lo dimostra la sua opera più celebre, “Maman”, presentata alla Tate Modern per inaugurare il grande spazio della Turbine Hall nel 2000. Il suo sguardo sulla madre è profondamente diverso, rispetto a “She-Fox”. La forma è quella ben nota di un gigantesco ragno, che si inarca in una posa larga e protettiva nei confronti delle uova (di marmo) che custodisce in una sacca posta sotto la sua testa. Quel ragno è un’ode alla mamma, «la mia migliore amica». Come un ragno, la madre di Louise era una tessitrice. Ed è rivelatrice la sequenza di aggettivi con i quali Louise, per spiegare la scultura, delinea la figura materna: «protettiva, sempre pronta, cauta, intelligente, paziente, tranquillizzante, ragionevole, delicata, sottile, indispensabile, ordinata e utile come un ragno».

L’arte per Louise Bourgeois è innanzitutto un fatto personale, tant’è vero che per tanti anni ha tenuto il lavoro per sé, senza avvertire la necessità di esporre («L’arte nasce da un rintanarsi», ha sempre detto). Del resto il sistema non era molto sensibile rispetto un’artista sposata e madre di tre figli, di cui uno adottato («I trustees del MoMA non erano interessati ad una donna che veniva da Parigi. Non avevano affatto bisogno di me, socialmente. Volevano artisti maschi che venissero da soli e non fossero sposati»). Era stato Arthur Drexler, allora poeta ma che poi sarebbe diventato storico dell’architettura al MoMA, a scoprirla e a convincerla ad esporre alla Peridot Gallery di New York nel 1949, quindi alla vigilia dei suoi 40 anni. Aveva esposto in quell’occasione la sequenza quasi seriale delle “Figure”, sculture sottili, tutte verticali, che facevano riferimento a situazioni dichiarate nei titoli (“Figure qui apporte pain”, “Figure regardant une maison”, “Figure qui s’appuie contre une porte” e così via…). Cosa rappresentavano queste “figure”? Erano la confessione di un senso di tradimento nei confronti di  tutte quelle persone che aveva lasciato in Francia nel momento in cui aveva deciso di sposarsi e di trasferirsi in America. Sono bianche e nella loro purezza restituiscono lo struggimento doloroso della persona lasciata lontana. Esprimono la dimensione di una mancanza attraverso la fragilità della loro verticalità e come lei ha spiegato, evidenziano «lo sforzo sovrumano per tenersi in piedi».

La scintilla che la mette in azione come artista infatti è proprio la coscienza di una mancanza. «L’idea», ha detto Bourgeois, «viene sempre da un fallimento, da una qualche impotenza». L’arte è uno strumento che mette in rapporto con il proprio inconscio, dando la possibilità molto speciale di sublimarlo («di essergli amici», lei sottolinea). Sublimarlo, anche se l’operazione può essere dura e dolorosa, come documentato dalla resistenza del materiale sul quale si lavora o dall’asprezza delle narrazioni che si realizzano. Per Bourgeois l’arte ha una capacità riparativa, di ricucitura (tornano sempre le funzioni del lavoro materno sugli arazzi…) e in ultima analisi di perdono. Si tratta di una parola rara nel lessico degli artisti, che è invece sempre ben presente nel vocabolario di Louise. L’aggressività estrema di tanti suoi lavori nasce dal desiderio di rimettere insieme, di riparare situazioni che si sono lacerate: la condizione perché questo possa accadere è il bisogno di perdonare. In un’intervista rilasciata a Demetrio Paparoni, Bourgeois aveva sottolineato con decisione la differenza tra dimenticare e perdonare: «Dimenticare è negare, sotterrare. Negare è il tentativo di dimenticare. È il fallimento attraverso il quale sotterri cose a cui non hai mai pensato… perdonare è invece una forma di progressione che dà luogo alla pace». È per questo che nell’opera di Bourgeois non si scorge mai neppure l’ombra del rancore. 

Invece c’è campo aperto per la narrazione visiva dell’esperienza del dolore. È quello che accade nella lunga serie di opere realizzate agli inizi degli anni 90 che vanno sotto il titolo di “Cell”. Ognuna di queste “celle” è uno spazio spalancato su un tipo diverso di dolore e sulla paura che sviluppa, come “Cell (Clothes)” esposta alla Fondazione Prada di Milano. È anche uno spazio protetto che attrae il voyeur, il quale si affaccia e si trova davanti qualcosa di respingente. «Ciò che accade al mio corpo richiede un’espressione formale astratta», aveva spiegato l’artista spiegando questo ciclo al Carnegie Museum of Art  di Pittsburgh. «Quindi si potrebbe dire che il dolore è il riscatto del formalismo». Un formalismo non più ridotto a stile, ma che nelle opere di Louise Bourgeois prende un corpo, condensa un’esperienza psichica ed emotiva. «Non riesco a parlare di stile in generale. Posso solo parlare del mio, che è uno stile interamente dettato dalla vita. È dettato dalla mia capacità di sopportare le privazioni. Lo stile ha a che fare con i miei limiti».

Pubblicato su Domani, 24 ottobre 2021

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Novembre 12th, 2021 at 3:35 pm

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Francesco Mochi, due cavalli nel cono d’ombra dell’Italia periferica

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Se ne stanno in una piazza che invece di essere intitolata a loro è intitolata ai loro cavalli. Non gli è stato dato neppure il centro di quella piazza, in quanto hanno dovuto lasciare libero campo al prospetto del palazzo Comunale, più noto come “il Gotico”. Sono in tutto e per tutto periferici i due monumenti equestri ad Alessandro e Ranuccio Farnese, capolavoro che Francesco Mochi realizzò tra 1613 e 1629 per Piacenza, una città marginale rispetto ai grandi flussi dell’arte, seconda anche a Parma nel Ducato di cui faceva parte, governato dai Farnese.

Francesco Mochi, Alessandro Farnese

Quando la commissione dei cavalli, come lui stesso disse, «gli cadde nelle mani», Mochi era impegnato a Roma alla statua di Santa Marta per la cappella Barberini a Sant’Andrea della Valle: la scelta di lasciar in sospeso il lavoro per uno dei cardinali più potenti di Roma (che nel 1623 diventa papa con il nome Urbano VIII) e di intraprendere una rotta clamorosamente contromano, svela la radicale “eccentricità” di questo grande scultore. Da Reni a Guercino fino a Lanfranco, in tanti lasciavano l’Emilia alla volta di Roma, destinazione irrinunciabile per un artista, come dimostrava l’esperienza di Carracci; Mochi invece non ha esitazioni nell’imboccare il percorso opposto. Un percorso che lo avrebbe tenuto lontano dalla capitale dell’arte per ben 17 anni. Perché aveva accettato il rischio di finire nel cono d’ombra della provincia? Per quanto l’impresa fosse di grande impegno e importanza, infatti era destinata a restare “nascosta”, come dimostra il fatto che persino nelle prime biografie del Mochi c’è confusione sul numero reale dei monumenti realizzati.

Francesco Mochi, Ranuccio Farnese

È questa la domanda attorno alla quale ruota il libro che Tomaso Montanari ha dedicato ai due meravigliosi monumenti equestri piacentini (“Capolavori fuori centro”, Skira, con il contributo della Fondazione di Piacenza e Vigevano, pag. 200, s.i.p.). La committenza «gli cadde nelle mani» per tramite di Mario Farnese, esponente di un altro ramo della famiglia e suo convintissimo sponsor. Convinto al punto da esporlo a lavorare con il bronzo, materiale sul quale, lui “marmoraro” finissimo, non aveva nessuna esperienza. Per di più, Montanari ipotizza che sia stato proprio Farnese ad alzare ulteriormente l’asticella, proponendo di passare dalla prima ipotesi di monumenti posti su colonne (pensati come risposta a quello realizzato da Leone Leoni a Guastalla per l’odiatissimo Ferrante Gonzaga), alla soluzione ben più impegnativa e ambiziosa dei monumenti equestri.  

La vicenda del cantiere ci consegna l’immagine di uno “statuario” battagliero, irriducibile, che si muoveva come se avesse sempre qualcosa da dimostrare al mondo: «cresciuto nella tradizione giambolognesca delle statue equestri fiorentine», aveva accettato senza timori il nuovo e ben più impegnativo progetto. Nel corso del cantiere Mochi si era via via liberato degli aiuti, volendo controllare tutte le fasi della lavorazione. In particolare aveva messo i committenti davanti ad un aut aut: dovevano scegliere tra lui e il fonditore che gli era stato affiancato, Marcello Manochi. In una lettera del 1618 al suo protettore Mario Farnese racconta di aver dovuto «ingoiare bocconi amarissimi». E poi spiegava: «avendomi imposto il signor governatore che dovessi risolvermi di pigliar’io solo tutta l’opera o lasciarla, ho risoluto di pigliar’io tutta l’impresa». Anche quando gli era stato offerto l’aiuto di Giuliano Alberghetti, «mitico fonditore del granduca di Toscana a cui si doveva la nascita del Cosimo di Giambologna», Mochi aveva posto il veto. Tra i rischi che si era preso c’era dunque anche quello di assumere il doppio ruolo di scultore e fonditore. Di controcanto, i tanti detrattori lo accusavano di pratiche eterodosse, come quella di lisciare le cere con olio di sasso. In realtà Mochi ragionava da scultore abituato a lavorare con il marmo e cercava l’assoluto controllo dell’effetto finale del bronzo, che voleva lucido e finitissimo, senza che interventi dopo la fusione ne increspassero la superficie.

Il 28 gennaio 1618 il “cavallo grande” del monumento a Ranuccio usciva dalla fornace in fusione unica e già due giorni dopo l’eco del successo era arrivata a Parma da dove il Duca inviò le sue congratulazioni. Basta analizzare questo primo cavallo per individuare le ragioni che avevano convinto Mochi a tirarsi fuori dalla mischia romana: come sottolinea Montanari, siamo di fronte ad un animale «forte, nervoso, irrequieto, quasi spiritato». Si sta avviando al trotto e si proietta “in falso”, cioè lanciando la zampa anteriore nel vuoto, fuori dal perimetro del piedistallo. È una sensazione che viene rafforzata dalla figura di Ranuccio, conclusa nel dicembre 1620. Ranuccio monta senza sella e sembra percosso da un vento violento che agita il mantello e tutte le decorazioni, producendo un effetto che Montanari paragona ad «un fuoco d’artificio di piccoli proiettili di bronzo». È un bronzo “adrenalinico”, quello di Mochi, riflesso di un temperamento ardito, sperimentatore, che solo nel contesto appartato di una città di provincia come Piacenza poteva mettere in atto la sua grammatica figurativa così radicalmente eccentrica.

Con i cavalli Farnese ritroviamo il Mochi geniale dell’Annunciazione di Orvieto (1603/08), dove il momento di trapasso dalla tradizione manierista a una forma più aperta e dina- mica che presente il barocco era rappresentata al meglio da quella Madonna che si alza di scatto, come presa da una scossa, e che ruota su se stessa facendo perno sulla sedia. Roma al contrario lo avrebbe costretto a un’omologazione stilistica, traiettoria alla quale non era per nulla predisposto, come dimostra il triste declino degli ultimi anni nella capitale, quando rifiuta di adattarsi al canone berniniano: i biografi lo avevano dato addirittura per morto prima del tempo, nel 1646, anziché come realmente accadde, nel 1654. Un destino simile a quello di Lorenzo Lotto, altro grande eccentrico dell’arte italiana, finito nell’ombra del convento di Loreto dove si era fatto oblato: Mochi è un po’ il Lotto della scultura. Grande e sfortunato, al punto che dopo 17 anni di dedizione alla causa dei due monumenti, dovette subire un’ultima umiliazione da parte della duchessa madre Margherita Aldobrandini, vedova di Ranuccio, che pretendeva di sottoporre a perizia i monumenti prima di pagare l’artista. Lo scultore per questo si era rivolto al cardinal Odoardo, fratello del Duca, con una lettera piena di amarezza. 

Francesco Mochi, formella con la “Presa di Anversa”

Nonostante abbia dovuto subire questa prepotenza finale, il caso di Mochi resta emblematico di quella ricchezza della geografia artistica italiana rappresentata dalla vitalità delle periferie. È una situazione che anziché essere minore si rivela spesso, lungo i secoli, come alternativa alle elaborazioni messe a punto nei “centri”, a partire in questo caso da Roma. In alcune circostanze, più che alternativa sembra piuttosto insubordinata al centro. Come ha scritto Carlo Dionisotti, è «un’Italia municipale, non regionale, che è esistita per secoli indomita, troppo vigorosa e aspra per essere selvaticamente paga di sé». Il caso di Mochi rientra certamente in questa casistica: artista controcorrente, irregolare, ha il gusto delle clamorose trasgressioni formali, come accade ad esempio per la coda del cavallo di Alessandro Farnese, trasformata in una strabordante, esagitata tempesta di bronzo. Come aveva scritto Evelina Borea introducendo il fascicolo dedicato a Mochi nei preziosi Maestri della Scultura della Fabbri, siamo di fronte a dettagli di «una veemenza fuori dei limiti del verosimile». Nella separatezza della piccola Piacenza Mochi aveva, con ogni evidenza, trovato un suo spazio di vitale libertà: quella che gli aveva permesso ad esempio di spalancare nella formella dedicata alla “Presa di Anversa”, alla base del monumento dello stesso Alessandro, una veduta marina che sembra inabissarsi nel bronzo. Il bassorilievo sull’altro fronte, con la rappresentazione della “Presa di Parigi” da parte dello stesso Farnese, aveva conquistato l’occhio di Stendhal, che lo inserisce con precisione in un passaggio della Certosa di Parma. 

L’articolo è stato pubblicato su Alias, il 14 marzo 2021

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Marzo 26th, 2021 at 5:35 pm

Sui muri arriva la Madonna dell’Adesso

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Messina, la Madonna dell’Adesso (tratta dalla Madonna Ausiliatrice). Con Nessunonettuno in collaborazione con i Salesiani di Giostra.

Già il titolo è bellissimo: “La Madonna dell’Adesso”. Come dire, la Madonna qui ed ora. Il titolo è quello del progetto che un collettivo di street artist molto libero ed eterogeneo, il Collettivo FX che fa capo alle Officine Reggiane a Reggio Emilia, ha lanciato e in buona parte già realizzato: dipingere grandi immagini di Maria su muri delle case di città e paesi, a volte recuperando un titolo per la Madonna, come si faceva un tempo, ma attualizzando i titoli stessi: anche se il titolo vero è proprio quello di “Madonna dell’Adesso”. Una Madonna per i tempi nostri. Come ha scritto Marco Villa su daylibest.it «la forma d’arte visiva che più di ogni altra ha provato a rompere con il passato che si butta su una figura che va oltre il concetto stesso di classico». Rappresentazioni al 100% contemporanee di Maria.
Gli stili sono diversi. I cantieri realizzati in genere con un partner locale. Ma è l’idea che conquista: un volersi reimpossessare di qualcosa che è stato strappato per abuso di ideologia o di clericalismo. «L’obbiettivo di questo progetto» si legge sul sito del collettivo, «non è solo celebrare la Madonna (ad occuparsi di questo ci sono Luoghi ed Enti ben più importanti di noi) ma ragionare non solo sul passato ma anche sul presente rispondendo ad una semplice domanda: “Da cosa ci deve proteggere oggi la Vostra Madonna?”. Il risultato sarà, come da tradizione, un dipinto murario, che rappresenterà, come da tradizione, la comunità, ma, a differenza della tradizione, non celebrerà il passato ma rifletterà sul presente».  
Sono come giganteschi ex voto contemporanei per di più a cielo aperto. Per di più diffusi per la penisola. Soprattutto la cosa affascinante è che nessuno li aveva messi nel conto. E non sono sul conto di nessuno, se non della gente che li guarda. Come dicono quelli di Collettivo FX, la Madonna torna al popolo.

Fabriano. Madonna di Loreto Adesso. In collaborazione con Fabricamenti

Budrio di Cotignola, Beata Vergine del Buon Consiglio e il Viaggio di Nestor

Santa Croce di Magliano (Campobasso), Madonna dell’Incoronata e della Terra.

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Novembre 10th, 2017 at 7:07 pm

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1962: Warhol, Pasolini e l’oro di Marilyn

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Andy Warhol, Gold Marilyn, 1962

Che bellezza era la bellezza di Marilyn Monroe? La domanda è d’obbligo visto che la morte dell’attrice, nell’agosto di 50 anni fa, fece uscire allo scoperto i pensieri di due personaggi tanto lontani tra di loro: Warhol e Pasolini. Non era una bellezza qualificabile in termini canonici, su una semplice scala di valori di estetica femminile. Warhol e Pasolini hanno il merito di impedire che anche oggi il fenomeno della bellezza di Marilyn possa essere liquidata con categorie semplicistiche. Mi colpisce come tutt’e due l’abbiano associata all’oro: facile, si potrebbe obiettare, visto il biondo sfolgorante dei suoi capelli. Ma l’oro evocato segnala qualcosa di simbolicamente ben più profondo. Per Warhol lo sfondo della sua Golden Marilyn ha qualcosa di iconico, che rimanda ad una dimensione capace di superare la precarietà del tempo. Mi immagino un discorso di questo tipo dietro quello che resta uno delle sue opere certamente più importanti: la bellezza di Marilyn non è fatta solo dalle sue sembianze, ma anche e soprattutto dagli sguardi che le si sono posati addosso. E che sono sguardi di milioni e milioni di persone che hanno visto incarnarsi del tutto inconsapevolmente in lei una bellezza desiderata da ciascuno come orizzonte dell’esistenza, come punto ad quem della vita. Per questo la bellezza di Marilyn non può essere transeunte sembra pensare Warhol; per questo si cura di restituirla con un’immagine che non passa. È un’immagine semplice, ma non unidimensionale. Perché in quella foto scelta da Warhol per essere trasfigurata in icona, Marilyn appare in uno stato di perfezione venato dalla sottile malinconia della morte: Warhol fa leva sul desiderio e scarta il possesso. La bellezza desiderata è contemplabile, non è mai ultimamente possedibile. È il mare d’oro che la avvolge evoca proprio questa dinamica.
«Te la portavi sempre dentro, come un sorriso tra le lacrime,/ impudica per passività, indecente per obbedienza», scrive, a proposito della bellezza di Marilyn, nella sua poesia Pasolini. E poi ancora: «…tu sorellina più piccola,/ quella bellezza l’avevi addosso umilmente/ e la tua anima di figlia di piccola gente,/ non ha mai saputo di averla,/ perché altrimenti non sarebbe stata bellezza». E poi anche in PPP c’è l’immagine dell’oro: «Sparì, come un pulviscolo d’oro»; e poi: «Sparì, come una bianca ombra d’oro».
Qui sentite la poesia di Pasolini con la voce di Laura Betti.

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Agosto 2nd, 2012 at 3:39 pm

Kounellis in cattedrale. Pensieri sul caso Reggio

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La cattedra vescovile di Kounellis: realizzate con vecchie assi di un soffitto a cassettoni del '400

Coincidenze. Apro Vernissage l’allegato al Giornale dell’Arte e trovo un servizio completo sui nuovi arredi liturgici della cattedrale di Reggio Emilia. Un’operazione in grande stile, che ha visto impegnati nomi importanti come Kounellis (suo il podio con la sedia vescovile), Claudio Parmeggiani (altare), Ettore Spalletti (candelabro pasquale)… Oggettivamente sono tutti interventi di alta qualità stilistica, affidati ad artisti seri e importanti. Quindi trovo che le contestazioni un po’ triviali che hanno accompagnato la presentazione di questo allestimento siano del tutto fuori luogo. Mi chiedo perché non facciano piuttosto problema gli sperperi in arredi stile “aiazzone” che invadono le chiese italiane: pulpiti e leggii orrendi, candelabri che non si possono guardare, altari da vetrina… Marmi traslucidi, ottoni, vetro a piovere…
A Reggio le cose sono state fatte con attenzione e con artisti che hanno rispettato gli equilibri del luogo. Il problema che io pongo quindi non è sulla qualità degli interventi, ma semmai sul percorso che porta a questi interventi. A me sembra che quando gli artisti entrano in chiesa abbiano la grande preoccupazione di mantenere una distanza che li rende comunque “ospiti” sotto quelle navate. Si ricorre a un linguaggio molto allusivo, sempre elegante, che si tiene alla larga da nessi troppo stringenti con la tradizione. Così viene meno il senso di un impegno che dovrebbe essere invece concepito come una sfida. La colpa ovviamente pesa molto anche sulle spalle della committenza, incapace di giocare l’enorme portato della storia e della tradizione nel rapporto con gli artisti. E a volte si resta in loro balìa. Ci si accontenta di avere incassato il loro consenso alla committenza e non chiede altro.
Coincidenza vuole che proprio in questi giorni abbia avuto la fortuna di lavorare a un piccolo libretto che documenta il lavoro fatto da un artista bergamasco in una chiesa in Ecuador. Gianriccardo Piccoli ha realizzato una grande Pentecoste, che incrocia in modo sorprendente e delicato attualità e tradizione. Ci tornerò su questo suo lavoro. Ma intanto sottolineo due fattori. Il primo, che Piccoli ha accettato di non fare semplicemente se stesso ma di rischiare una sfida vera con quel soggetto. Il secondo, che abbia pensato a chi era il destinatario di quel suo lavoro: il popolo dei fedeli, realizzando così un’opera preziosa ma comprensibile e cercando di restituire anche un’energia emotivamente coinvolgente.
Sono due fattori semplici, che non si tengono mai presenti nella committenza troppo intellettuale della chiesa in Italia. Il risultato è che opera anche significative stanno dentro le chiese come stessero in un museo. Magari guardate con sufficienza o con (ingiusto) disprezzo da coloro per le quali dovrebbero essere state ultimamente realizzate.
Tornando al caso di Reggio l’unico che mi sembra sia davvero andato in profondità, plasmando un lavoro pensato per il luogo e per la funzione a cui è adibito è stato Jannis Kounellis. Come ha scritto Alberto Melloni la sua cattedra è un «oggetto teologicamente commovente. Un assito di legno antico e scuro, e sopra un nudo sedile di ferro: non segni, ma materia della croce, attorno alla quale si stende il corpo di Cristo che è la communio dei fedeli». (Le assi quattrocentesche conservano ancora i chiodi fatti a mano con cui furono fissati. Suggestivamente possiamo pensare ad un’opera a quattro mani, quelle di Kounellis e quelle del popolo di allora…)

Written by gfrangi

Febbraio 1st, 2012 at 10:53 pm

The 10 Most important artists of today

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È la classifica che Blake Gopnik ha stilato su Newsweek, a bilancio delle visite a Venezia e Art Basel. Chi sono i 10? Eccoli: Gillian Wearing (inglese), Christian Marclay (lo svizzero americano che con The Clock ha vinto il Leone d’oro), Marjetica Potre (slovena, “she builds better worlds”), Artur Zmijewski (polacco), Tacita Dean (inglese), Sophie Calle (francese), Francis Alÿs (belga), Jeff Wall (canadese). Infine i due che non possono non esserci, Jeff Koons e Damien Hirst (ma visto che l’ordine non è alfabetico, mi sembra un recupero in extremis di due in calo di posizioni). Riflessioni? Su dieci nessuno dipinge (tranne episodicamente Alÿs e Hirst). Le donne sono ormai quasi al 50%. Su 10 tre non li conoscevo (anche se nessuno è sotto i 40 anni). Non voglio entrare nel merito, ma una delle scelte mi sembra assolutamente esagerata: Sophie Calle, le cui proposte mi sono sempre sembrate scontatissime. Tra quelli che non conoscevo, uno mi sembra molto interssante, Francis Alÿs. Ho visto qualche video sul suo sito. In uno di questi, molto poetico ha messo in scena una Moderna processione. Un gruppo di immigrati con accompagnamento di banda porta dal Moma di Manhattan a quello nei Queens le copie di una statua di Giacometti, la bicicletta di Duchamp e le Demoiselles d’Avignon di Picasso. Una sguardo ironico ma anche affettuoso. Un pensiero per opere che per un artista sono come immagini sacre.

Osservazione sulle parole. Giustamente si parla dei più “importanti” e non dei più “grandi”. Oggi attrae di più la categoria dell’importanza rispetto a quella della grandezza. Del resto sono classifiche che valgono per l’oggi e non hanno nessuna pretesa per il domani. Qui sta il loro bello e anche la loro effervescenza. Meteore pià che stelle.

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Giugno 27th, 2011 at 9:21 pm

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Papa Wojtyla è restato di bronzo

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È sin troppo facile infierire sul goffissimo monumento a Giovanni Paolo II inaugurato a Roma. L’idea stessa di fare un monumento nel 2011 sembra un’idea un po’ fuori dalla storia: non è stagione la nostra di monumenti, a meno che non siano semplici composizioni di arredo urbano. È come se avessimo perso la sintassi, e i tentativi di far finta che così non sia sono patetici. La prassi seguita a Roma poi è stata di un provincialismo che è esattamente l’opposto della cifra globale che ha contrassegnato una figura come quella di GPII. Niente concorso, una commessa a un onesto professionista della scultura Oliviero Rainaldi, che evidentemente non aveva il passo per un’impresa di questo tipo (l’altra commissione religiosa che aveva ricevuto, per una chiesa di Terni, bastava per mettere tutti sull’avviso…). E l’Osservatore romano non ha trovato di meglio che lamentarsi della scarsa somiglianza di quel volto da extraterrestre…
Ma l’Osservatore romano e quel che resta del pensiero cattolico nostrano, devono persuadersi che l’arte chiede coraggio. È una specie di conditio sine qua non. Quest’inverno abbiamo visto il Wojtyla colpito dalla meteorite e abbarbicato alla sua croce che Cattelan aveva sistemato nel salone delle Cariatidi a Milano coperto di rosso: quello semmai era un “monumento” a GPII. Che ne leggeva in chiave drammatica, spregiudicata ma anche epica la figura.

Inoltre, un monumento deve sapere conquistare lo spazio nel quale viene inserito. Grande o piccolo che sia deve imporsi come ombelico, come punto calamitante. Il povero guscio di bronzo invece sembra sperso in mezzo all’aiuola di piazza dei 500. Pur con i suoi 5 metri di altezza naufraga, è completamente inghiottito dal contesto. Al contrario, invece, di quel che accade per la mano di Cattelan a Piazza Affari a Milano che ha domato la piazza, ne è diventata l’epicentro.

Infine: volete proprio-proprio fare un monumento a GPII? Allora chiamate un artista globale, di quelli che sanno muoversi sulle dimensioni colossali: Serra, Kiefer, Kapoor, per fare tre nomi. Magari non avremmo ritrovato la faccia di GPII ma avremmo ritrovato qualcosa del suo impeto e dlla sua energia.

Written by gfrangi

Maggio 20th, 2011 at 9:43 pm

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La critica disarmata. Bentornati a Carla Lonzi

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È tornato finalmente in libreria Autoritratto di Carla Lonzi (la casa editrice et al. sta ripubblicando tutti i suoi testi, in edizioni sobrie, molto nello spirtio del tempo…; su amazon.it lo trovate al 30% di sconto). Un libro affascinante da me letto in fotocopie, che precorre tanto modo non di fare critica ma di essere critica di oggi. Ma nella Lonzi cerca sempre un riscontro di verità umana, di coincidenza tra l’avventura dell’artista e la sua (notate il titolo del libro al singolare: tanti incontri con artisti per cercare di capire se stessa). Nella belle pagine che Alias le ha dedicato sabato scorso Barbara Cinelli parla di «una personalità critica volontariamente “disarmata”, per un’innata vocazione piuttosto alla condivisione delle cose accadute, che non alla loro notomizzazione». E poi ancora: «si manifesta la felice cancellazione di ogni ideologia, intellettualismo o schieramento, e l’emergere, in una assoluta purezza, dell’adesione alle avventure individuali, che colloca la definizione del linguaggio visivo in una zona di esistenza piuttosto che di decifrazione storica». Una libertà tutta femminile, nei confronti della quale appaiono del tutto truci i tentativi maschili di imbrigliare l’arte in ragionamenti teorici (c’era Argan al suo opposto).

Belle due considerazioni di Carla Lonzi riportate nela pagine di Alias. La prima: «L’arte diventa il plus valore che la società attribuisce alle operazioni di chi crede in se stesso». La seconda (sul falso mito dell’India negli anni 70): «…se ne vanno per avere dei ragionamenti un po’ di spiritualità… qui ci sono gli artisti: possibile che la cultura ttanto è riuscita a fare che… uno non riesca a meditare sul lavoro di un artista e trarne delle conseguenze… C’è stato Duchamp… se uno ci medita ce n’è abbastsnza… non occorre che vada in India, mi spiego?». Si spiega, si spiega…

Written by gfrangi

Dicembre 15th, 2010 at 11:04 pm

Per favore, non togliete la mano di Cattelan da Piazza Affari

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Ha una forza iconica impressionante la mano mozzata di Maurizio Cattelan in piazza Affari a Milano (qui una foto). Sistemata su un plinto alto almeno una decina di metri, disegnato con sapienza in armonia con i motivi architettonici della piazza, ha una semplicità e insieme un’energia che dialettizza con gli spazi un po’ metafisici della piazza. Non si pensa al significato ironico del monumento, ma si resta sorpresi dallo spiazzamento che provoca, dal corto circuito di quel marmo bianco, come di una classicità resa monca. Cattelan dimostra una grande capacità di regia dello spazio; ne sente lo spirito, ne interpreta gli equilibri, li metabolizza e li scavalca senza umiliarli.

Una bella piazza, disegnata con la sapienza architettonica che l’Italia degli anni 30 aveva ancora connaturata nel suo Dna, diventa in tutto e per tutto una piazza contemporanea. Energia di oggi calata dentro un pezzo di tessuto di storia che è nostra storia.

Per favore, non togliete Cattelan da quella piazza.

(Cattelan ha avuto poi l’intelligenza di proporre una sfida: sa la scultura se ne va, lasciate il plinto, come base per altri che vogliano accettare la sfida di mettere le loro opere in mezzo alla piazza. Come sulla colonna di Trafalgar Square a Londra. Almeno questa sfida raccogliamola!)

Written by gfrangi

Settembre 26th, 2010 at 11:25 am

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Cattelan, il bambino che sono io

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Bellissima l’intervista di Francesca Bonazzoli a Maurizio Cattelan, apparsa sul Corriere. Qui la potete leggere in integrale. Io ne ho fatto uno smontaggio a temi (così bella da chiedermi se queste parole non siano un compimento dell’opera stessa. Cioé necessarie alla loro esistenza. Comunque colpisce il venire a galla dell’anima bambina di Cattelan: questa è la sua forza)

Un trittico perfetto «Molti dei miei lavori migliori sono frutto o di errori o di situazioni come questa dove sei costretto a trasformare in positivo gli imprevisti. Alla fine le tre opere che esporrò a Palazzo Reale sono un trittico perfetto, la mia famiglia autobiografica: il padre, la madre e il figlio. Se mi fossi seduto a tavolino non mi sarebbe venuta in mente una mostra così». Ha messo in mostra la sua famiglia? «È una famiglia disfunzionale, come è stata la mia: il padre fa il Papa; la madre sostituisce il figlio in croce e il figlio non riesce a comunicare se non battendo il tamburo».

Il Papa colpito dal meteorite. «La statua di papa Wojtyla è un lavoro del 1999 che era nato in piedi, ma non mi convinceva. A una settimana dalla mostra cominciai a pensare a come distruggerlo. Alla fine mi venne l’ idea del meteorite e fu come un’ illuminazione: capii che avevo abbattuto la figura del padre. Questo è quello che sanno fare i lavori importanti: se io ho avuto un’ epifania, allora può averla anche qualcun altro». Chissà come sarà contento suo padre a leggere questa rivelazione. «A diciassette anni tentai di strangolarlo; fu allora che andai via di casa. Di giorno lavoravo otto ore, alla sera andavo a scuola: niente divertimento. Ma avevo bisogno di silenzio intorno a me: la casa era piccola e noi eravamo in troppi. È stato il cruccio di mia madre che era orfana e ha rivissuto l’ abbandono».

Il bambino che sono io. Il bambino tamburino allora è lei?  «Decisamente: non posso togliermi dalla partita. Penso di essere un caratteriale, forse da piccolo molto più di adesso. Mia mamma, presa dalla disperazione, venne a chiedermi cosa non andava. Mi ricordo mezz’ ora di silenzio dove nella mia testa c’ erano migliaia di inizi di possibili dialoghi che non hanno mai preso forma verbale. Non era solo l’ incapacità di esprimere le mie necessità, era un blocco emotivo. Io non avevo un tamburo, ma usavo il silenzio. Come ho montato il bambino nella sala delle Cariatidi è perfetto: è in alto sul cornicione, solo e distante; c’ è e non c’ è. Non è a livello delle altre figure ma è sospeso nel punto di vista esterno dello spettatore, quello che ho sempre usato nella vita».

Mia madre in croce. Dunque la donna crocifissa è sua madre, quella che non l’ ha mai baciato? «Nell’ arte la donna è la Madonna e la rappresentazione della bellezza, ma nella mia famiglia la donna era sofferenza. Quest’ opera per me non è mai nata come una crocifissione invertita, ma in questo trittico mi sento di giustificarla come la mia visione domestica femminile». Non pensa che il bambino tamburino e il Papa assieme nella sala delle Cariatidi faranno pensare agli scandali di pedofilia che hanno colpito la Chiesa? «Si possono smembrare le opere e dare anche letture di attualità. Però l’idea a monte è unire tre opere che hanno significato moltissimo per me».

Il dito medio a piazza Affari. Si aspetta polemiche come per i manichini impiccati a Milano nel 2004 che furono tolti dopo un solo giorno? «Questa ormai è una mostra certificata e già discussa sulla stampa. Quando andremo a vederla qualcuno si chiederà perché c’ è stato tanto rumore per nulla. Anche la statua della mano in fondo viene da un’ immagine classica come quella della mano di Costantino ai Musei Capitolini. Se non ci fosse stata la precedente avventura milanese sarebbe stata una mostra senza tanti problemi. Quando dicono che sono un manipolatore o un pubblicitario, io dico: voi che fate i giornali, i blog, siete i manipolatori. Io produco, sono gli altri che parlano».

50 anni con i calzoncini corti. Ma lei non era il ribelle dell’ arte? Non le dà fastidio che questa mostra arrivi, come dice lei, certificata? «Non ho mai perseguito polemiche o strategie del ribellismo. Sono felicissimo che il vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Milano, interpellato dal Comune per non urtare la Curia, abbia visto quello che in realtà è la statua del Papa: un lavoro spirituale che parla di sofferenza. Il titolo La Nona Ora allude a quella in cui Cristo, sulla croce, chiede al Padre perché l’ ha abbandonato, ma il Papa cadente si aggrappa al crocifisso. Certe cose hanno bisogno di tempo per essere digerite. Forse dieci anni non sono ancora abbastanza». Il 21 settembre compirà cinquant’ anni. Un bilancio? «Mi sento ancora con i calzoncini corti, come se fossi cresciuto durante l’ ultima notte. Sono il primo a essere sorpreso di essere arrivato qui integro».

Written by gfrangi

Settembre 14th, 2010 at 7:35 am