Sono 100 anni da Pollock. Pensavo che non è una data come le altre, perché Pollock è stato uno di quei rari artisti che nel 900 è stato capace di spostare il baricentro della storia dell’arte (gli altri? Picasso, Duchamp, Warhol…). E comunque tutte le date sono utili per mettere a fuoco pensieri e idee.
In che senso lo ha spostato?
1. In senso geografico, innanzitutto. Pollock è un nativo americano (nato nel Wyoming da LeRoy Pollock): per la prima volta un non europeo si era trovato in quegli anni cruciali, con il vecchio continente alla sbaraglio per la guerra, a prendere le redini, ad aprire spazi nuovi e inesplorati che valevano per tutti. In tanti si sono fiondati dentro quei territori, in tanti ne sono stati contaminati (Testori usava l’immagine di una finestra spalancata per la prima volta). Con lui anche gli spazi delle tele si sono dilatati, senza in teoria conoscere più limiti: è come se avesse introdotto un’altra misura, da cui non si è più tornati indietro. (Ovviamente la novità di Pollock è stata ancor più traumatica rispetto alla striminzita storia della pittura americana del 900).
2. Pollock sposta il baricentro nel senso che è anche un uomo senza un passato. Non si appoggia sulle spalle dei giganti com’era accaduto sino ad allora a tutti i grandi. Alle sue spalle ci sono solo archetipi, non c’è una storia. La genesi della sua pittura fa leva su immagini potenti che condensano l’elementarità della cultura americana (si veda, per tutti, Male and female del 1942). Questi archetipi sono una polarizzazione dell’inconscio: attraverso Pollock diventano fattori che irrompono potentemente nel presente. Veicoli di novità formali e di una libertà espressiva mai sperimentata prima.
3. Il terzo spostamento operato da Pollock è il più ambiguo e il più discusso. Nelle sue poche e scarne riflessioni sull’arte, Pollock sembra monotematico: l’arte è espressione dell’interiorità dell’artista. Le opere si generano dallo sguardo che l’artista getta dentro se stesso. «Quello che mi interessa è che i pittori di oggi non sono più obbligati a cercare un soggetto al di fuori di loro stessi. La maggior parte dei pittori moderni hanno un’ispirazione diversa. Lavora da dentro». Lo sviluppo di questa prospettiva è l’idea che l’ambizione di un pittore è finire dentro il suo quadro, desiderio che Pollock più volte esprime, spiegando anche la scelta di dipingere le sue tele tenendole in orizzontale sul pavimento. Se l’opera è visualizzazione dell’incoscio (e il processo automatico del dripping, lo sgocciolamento, ne è l’esito tecnico), l’immergersi diventa ipotesi di una ricomposizione del soggetto.
3bis. È su questo punto che Francis Bacon ha saputo esprimere un concetto controcorrente con grande lucidità. È partito da una constatazione: nelle opere più importanti di Pollock alla fine prevale un aspetto decorativo. La rinuncia alla rappresentazione del reale, o anche alla sua concettualizzazione, alla fine depotenzia il lavoro dell’artista. Quasi che l’artista rinunciasse a una parte di se stesso, rifluendo nell’elaborazione della propria interiorità (David Sylvester nelle interviste a Bacon parla di un vero disprezzo suo verso Pollock). Criticando la meccanicità di questo processo intriso di junghiana banalità, Bacon ci spinge a guardare Pollock per altre strade. E a pensare che in fondo i suoi grandi quadri astratti c’entrino poco con il suo inconscio, né tanto meno con la sua drammatica biografia: sono frutto di una grazia inconsapevole e innata, rappresentazione di un caos ultimamente ordinato e probabilmente anche felice. Come potrebbero essere le magie infinite di un bosco innevato. Pollock ha spostato il baricentro, ha liberato energie, ma alla fine l’esito non è stato all’altezza di quell’impulso.
Consiglio a tutti di leggere la recensione che Testori fece alla mostra del 1982 al Pompidou. Una recensione “baconiana”, quindi irriverente, ma geniale. Che chiudeva con questa domanda: «O dovremmo sforzarci a leggere i famosi dripping e le famose azioni pollockiane come smisurati ricami?»