Robe da chiodi

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Kiefer, tre settimane in convento

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Scorrendo il catalogo (bello) della mostra di Kiefer ai Magazzini del Sale a Venezia ho scoperto che l’artista tedesco aveva preso la decisione di dedicarsi all’arte dopo un ritiro di tre settimane al convento domenicano di La Tourette, progettato da Le Corbusier. Era il 1966: visse quel periodo in una cella come ospite dei monaci. Voleva semplicemente «riflettere in tutta tranquillità sulle grandi questioni». Allora Kiefer era uno studente di legge e di lingue romanze. Non passò molto tempo da quel soggiorno perché decidesse di dedicare le proprie energie all’arte.
Non mi stupisce che una decisione così sia maturata in un luogo denso di una potenza monumentale impressa dal genio di Le Corbusier. La Tourette per me resta una delle architetture più impressionanti del 900. Un quadrilatero che ha l’aspetto della fortezza, luogo di concentrazione rara. Un luogo quasi brutale, nel suo tagliar fuori il mondo. Ma anche nel suo imporsi al mondo. Mi è sembrato del tutto logico quindi che in un luogo così si potessero maturare decisioni come quella presa da Kiefer.

Written by gfrangi

Giugno 19th, 2011 at 9:58 pm

Così parlò Kiefer, il saggio

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Anselm Kiefer rilascia un’intervista a Repubblica alla vigilia della presentazione della sua mostra alla Fondazione Vedova, a Venezia. Titolo: “Salt of the earth”. Il titolo deriva dal luogo dove espone: i Magazzini del Sale. E dà pretesto a Kiefer per un ciclo in cui la riflessione sulla potenza alchemica della pittura prende il largo. È l’intervista di un artista che non cerca spettacolarizzazioni della propria opera. E che quindi propone frammenti di vero pensiero. Come questo: ««Un artista è sempre alla ricerca di nuove forme, giacché si contrappone sempre all’ esistente, cercando ogni volta un nuovo ordine del mondo. Oggi però molti artisti sfruttano la ripetizione, riducendo l’ arte a semplice divertimento. La ripetizione è senza sorprese. Se io lavoro duramente alle mie opere,è solo per imbattermi di tanto in tanto in una sorpresa».
Kiefer liquida Damien Hirst come artista ostaggio del mercato, e assolve Maurizio Cattelan, come artista furbo ma capace di sorprese: «Io non cerco mai di provocare volontariamente il pubblico. Cattelan invece sì, anche se a volte i suoi risultati possono essere molto interessanti. A me, ad esempio, era molto piaciuta la sua Hollywood sulla discarica di Palermo».

Written by gfrangi

Maggio 25th, 2011 at 6:51 am

Hangar Bicocca, la Milano esclamativa

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Sono stato all’Hangar Bicocca. Quasi alle nove di sera, con la luce che cominciava a calare quel pezzo di Milano, dagli spazi immensi, dava l’impressione di una grande contemporaneità ordinata. Anche l’antipaticissima università di Gregotti, appare bella nella scansione precisa e regolarissima delle finestre quadrate e bianche sull’intonaco rosso. Il tutto fa davvero grande metropoli globale, ma attraccata all’eleganza interiore del proprio passato. Milano davvero a volte lascia a bocca aperta.

L’Hangar s’innesta perfetto in questo tessuto, con la grande Sequenza, monumento musicale di Melotti che è la cifra di questo ordine contemporaneo. Dentro la location è grandiosa. E le sette torri di Kiefer sembrano un inno tragico urlato sotto le capriate immense del capannone. Sono giganteschi spezzoni da day after. Sembrano traballare sotto il peso della loro stessa grandezza, ma alla fine l’insieme s’impone, come fossero le note di un ultimativo Dies Irae. Davvero una delle grandi cose dell’arte degli ultimi decenni, senza nulla di calligrafico e senza orpelli politicamente corretti.

Il brutto dell’Hangar vien per chi deve reggere il confronto. Se poi chi ci prova è uno che punta tutto sulla retorica scenografica e sentimentale come Boltanski, il disastro è fatto. L’arte di B. si dimostra tutta letteraria, evocativa nell’ipotesi e velleitaria nelle forme. Boltanski incorpora il limite per me più insopportabile di tanta arte contemporanea: quella di non farsi i fatti suoi e di voler fare le prediche al mondo (che siano prediche anche del tutto corrette nelle intenzioni, non cambia la sostanza. Le prediche ai preti). Oltretutto questo è anche un Boltanski di risulta…

Ultima osservazione: tanta energia di questo luogo è gestita in modo farraginoso. Dalle scelte dei curatori, all’organizzazione del luogo (chiude alle sette di sera, pur ospitando all’interno un bellissimo bar), tutto sembra non  all’altezza. Meno male che c’è Kiefer. (Comunque andateci, magari il giovedì sera, unica sera di apertura sino alle 22…)

Written by gfrangi

Luglio 15th, 2010 at 10:17 pm

Prove di bilancio di un decennio. Primo, Cy Twombly?

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I primi decenni del secolo in genere sono stati decenni chiave. Pensateci: 1304, Giotto agli Scrovegni; 1401, il duello Brunelleschi Ghiberti per la porta del Paradiso; 1508 Michelangelo sulla volta Sistina; 1600-1610, gli anni di Caravaggio. Nulla di epocale nel 700 e nell’800. Ma poi nel 900 i primi dieci anni presentano un’infornata memorabile dal Cézanne estremo, alle Demoiselles d’Avignon, all’esplosione di Matisse…

E questo decennio che si sta per chiudere come passerà alla storia? Proviamo a ripercorrerlo con una breve rincorsa. Gli anni 80 erano stati quelli in cui l’arte era tornata a respirare, a volte in modo un po’ beota, dopo l’assedio del decennio precedente. I 90 sono stati quelli di un nuovo furore contro un modello di mondo in cui l’invocata libertà si era tutta tramutata in immensi bonus per i banchieri: è stato il decennio della Young british art, della performance di Marina Abramovich alla Biennale, delle cose per cui Damien Hirst avrà un angolino nella storia. È stato il decennio dell’addio all’ultimo gigante del 900, Francis Bacon. E il primo decennio del terzo millennio? Non è stato un decennio pieno dell’energia che nel passato dava ogni voltar di secolo. La cifra va cercata, io credo, in un moltiplicarsi di voci, in un’orizzontalità in cui mancano punte di riferimento. Una qualità diffusa senza acuti straordinari. È stato un decennio “partecipato”, in cui l’arte ha sentito di dover dire la sua sugli affanni del mondo. A volte s’è fatta strumento di un miglior vivere per tutti (il caso di Alberto Garutti in Italia). S’è chinata ad avere un profilo meno protagonistico: la Biennale del 2009, in questo senso, ha centrato in pieno l’anima del decennio. Arte socializzante.

Detto questo quali sono le cose più belle del decennio? Provo ad avviare un elenco, che è un elenco aperto a suggerimenti e correzioni di rotta. Al primo posto ci metterei Cy Twombly (le rose immense, 2008; o Paphos 2009). Poi Gerhard Richter (Snow White, 2009; ma anche le coraggiose vetrate del Duomo di Colonia, 2007); Sigmar Polke a Punta della Dogana, con le sue enormi pareti tese, come smaltate di fango. Poi mi sono rimaste negli occhi la porta di Kounellis all’orto monastico di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, i nove lenzuoli di marmo di Cattelan sempre a Venezia, e Natalie Djumberg, la più ossessionata del decennio.  E poi Anselm Kiefer con il suo Merkaba. E la svolta candida di Baselitz.

Written by giuseppefrangi

Novembre 19th, 2009 at 10:53 pm