Robe da chiodi

Lotto: non si possono più fare mostre così

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Ho visto la mostra di Lotto alle Scuderie del Quirinale. Non ho titoli per parlare dell’approccio scientifico, non ho ancora letto il catalogo, ma uscito dalle sale mi è parsa chiara una cosa: non si possono più fare mostre così.  C’è una ritualità stanca nel metter in fila una serie di quadri anche stupendi senza che appaia chiaro la novità a livello di approccio, di scoperte, di interpretazione che sono emerse nel lavoro di costruzione della mostra. Una ritualità che certamente non rende giustizia del lavoro critico fatto per preparare la mostra. Di Lotto avevamo visto una mostra tra 1997 (Bergamo) e 1999 (Parigi). Quindi neanche 15 anni fa. Non c’era quindi un vuoto temporale tale da determinare la necessità di una nuova mostra. Ma a parte questo, oggi credo che si debba mettere a punto un’idea diversa di fare mostre come queste. Vanno costruite per nodi, in modo da offrire opportunità più interessanti agli studiosi e di portare i visitatori a una comprensione meno epidermica ed istintuale. Su Lotto i nodi che potevano essere indagati certo non mancano: ad esempio mi sarebbe piaciuto vedere afforntato con confronti quello cruciale del rapporto con la pittura nordica che fa sentire il suo vento a Venezia; oppure quello con la pittura del Centro Italia verso cui Lotto dirotta presto il suo destino; o quello con Bellini, padre di tutti e anche di Lotto, e quello con Cima; la concezione nuova del ritratto…

Detto questo, aggiungo che l’allestimento della mostra romana mi ha lasciato perplesso. Discutibile il color ocra delle pareti (che ad esempio danneggia il viola folle dell’angelo di Ponteranica, in mosgtra senza cornice); alcuni snodi al primo piano davvero troppo affollati di opere; solita confusione cronologica per via di una sede che al piano superiore non può accogliere opere grandi; alcune cadute di cattivo gusto (quell’altare un po’ sarcofago sotto alcune pale).

Mi spiace per l’amato Lotto, pittore sfortunato in vita e sfortunato anche oggi. La sua anomalia affascinante resta un po’ nell’ombra o relegata ad aneddotica: lui che aveva un piede sui terreni saldi della fede popolare e l’altro sulle sabbie mobili del manierismo…

Su Osservatorio Mostre e musei una recensione della mostra con foto che vi danno l’idea dell’allestimento. Titolo: Nihil sub sole novi…

Written by gfrangi

Marzo 28th, 2011 at 8:22 am

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25 marzo, l’inizio di tutto (ovvero, l’Annunciazione nell’arte)

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Oggi, Annunciazione. Era il Capodanno fiorentino, perché a Firenze nel 400 oggi era l’inizio dell’anno. Che sia un giorno dell’inizio di tutto lo si può capire quasi per deduzione, passando in rassegna ciò che su questo soggetto gli artisti nei secoli sono riusciti a produrre. Non credo ci sia un altro soggetto che abbia al suo attivo tanti capolavori mozzafiato: anche perché la visualizazione dell’Annunciazione a differenza di tutti gli altri episodi della storia di Cristo, implica uno sporgersi verso un fatto che c’è ma che non si vede. Una presenza che determina tutto, ma che fisicamente non appare.

È un soggetto arduo, affascinante, con tutte quelle dinamiche misteriose ma umanamente così vere davanti al quale è difficile fare routine. Penso che per un artista mettersi davanti alla rappresentazione dell’Annunciazione abbia sempre significato toccare il punto cruciale del proprio essere e del proprio fare. L’Incarnazione è infatti l’attimo in cui le immagini cambiano di statuto. E da semplici illustrazione o racconti diventano luoghi di rappresentazione del destino. Diventano contenitori visibili e circoscritti di un “tutto”. Questo conferisce una potenza alle immagini stesse, una capacità di sfondamento, che va oltre ogni ipotesi prevista e prevedibile.

Per questo l’Annunciazione ha prodotto tanti capolavori che sono un passo oltre: cioè che spingono gli artisti a tirar fuori tutto se stessi e a stabilire una tensione poetica inattesa.

Vi faccio un semplice elenco e capirete: Tiziano, Annunciazione di San Salvador; Francesco Mochi, Orvieto; Jacopo della Quercia, Pienza; Donatello, Tabernacolo di Santa Croce; Simone Martini, Cortona; Beato Angelico, a San Marco; Antonello, Palazzolo Acreide- Siracusa; Lotto, Ponteranica; Pontormo, Santa Felicita; Gaudenzio, cappella di Varallo.

Nel 1900, c’è il cinema, con Godard. E c’è Gerard Richter che torna sull’Annunciazione di Tiziano. Ma mi è sempre questa sua immagine, Betty: ipotesi di lavoro per un’annunciazione contemporanea.

Written by gfrangi

Marzo 25th, 2011 at 10:16 am

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Gus Van Sant non tradisce mai

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Amo Gus Van Sant come regista (in particolare Paranoid Park, Da morire, Last Days dedicato agli ultimi giorni di Kurt Cobain). Inevitabile avere un debole per lui come pittore (neanche sapevo che lo fosse). Ma queste grandi carte esposte da Gagosian nella galleria di Beverly Hills, hanno l’energia sorprendente che c’è sempre nei suoi film. Il suo è un cinema audace, e anche questi immagini lo sono. Peccato che sia così lontano…

La mostra nasce come omaggio a River Phoenix (il protagonosta di My private Idaho), ed è  realizzata con l’ultimo attore scoperto da Gus: James Franco, protagonista di Milk.

Written by gfrangi

Marzo 23rd, 2011 at 1:29 pm

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Giacometti: «sono uno scultore mancato»

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Alla mostra su Giacometti aperta a Gallarate viene proiettato un bel video, realizzato nel 1963 dalla televisione svizzera (lo potete vedere qui: 10 minuti memorabili): la telecamera è praticamente puntata sull’artista al lavoro su tre piccole statue, mentre l’intervistatore lo incalza stando fuori campo. Giacometti, con la sua faccia scolpita di rughe ma con quell’espressione sempre così disarmata, si racconta senza nessuna concessione alla retorica. Si definisce sinceramente “scultore mancato”, dice di non aver ancora realizzato una testa così come lui la vedeva. Spiga mentre con le dita non stacca mai dal lavoro sulle sculture, che le teste gli si schiacciano tra le mani. Alla domanda sul perché allora la critica lo osannasse tanto, risponde che questo non cambiava la sua prospettiva, che è possibile che il giorno in cui gli fosse riuscita di fare la testa che da sempre cercava («una testa normale, banale»), la critica l’avrebbe potuta considerare una cosa mediocre. (Nella foto il Cubo di Giacometti: come ha dimostrato Didi-Hubermann si trattava di un tentativo di ritratto del padre).

«Io so che mi è assolutamente impossibile poter modellare, dipingere o disegnare una testa, ad esempio, così come la vedo, e tuttavia questa è la sola cosa che cerco di fare. Tutto ciò che saprò fare sarà sempre soltanto l’immagine sbiadita di quello che vedo e la mia riuscita sarà sempre inferiore allo scacco, o sarà, forse, sempre pari ad esso. Io non so se lavoro per realizzare qualcosa oppure per scoprire il motivo per cui non riesco a fare quello che vorrei».

(La mostra del Maga è purtroppo modesta: nessuna ipotesi da percorrere, allestimento sciatto e inutilmente greve,  nessuna indicazione sui criteri con cui le opere sono state raccolte, solito andirivieni cronologico che lascia una gran confusione nei visitatori, etichette senza mai un’indicazione sulla provenienza dell’opera).

Written by gfrangi

Marzo 20th, 2011 at 5:03 pm

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Chi ha fatto l’Italia? Francesco

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Una reminiscenza dei lontani tempi universitari. Gli indici stilati da Bernard Berenson Italian pictures of the Renaissance, insostituibili punti di riferimento per generazioni di studiosi, prendevano avvio dalla tavola di San Francesco di Bonaventura Berlinghieri e da quella del Maestro di san Francesco (il riferimento è all’edizione illustrata del volume dedicato alle Central e North Italian Schools, pubblicata postuma nel 1968). Un altro studioso, Henri Thode, nel secolo scorso attribuiva a Francesco l’inzio addirittura del Rinascimento. Non è un’intuizione arbitraria: Francesco è colui che supera in modo definitivo tutte le esitazioni teologiche sulla legittimità delle immagini: l’Italia si sottrae per sempre dall’egemonia bizantina dell’immagine come “icona”.  Con Francesco l’immagine invece si fa storia, narrazione di fatti, di esperienze vissute. La fede non comunica più attraverso icone dall’apparenza metastorica, immagini bloccate a metà tra terra e cielo. Si può mettere una data a questa rivoluzione: Natale 1223, quello del Presepe di Greccio. Con Francesco che chiede di organizzare un Presepe vivente, Cioè di rivivere il fatto. La pittura da quell’istante è liberata. All’artista viene conferita la libertà di riraccontare, secondo la  sua sensibilità, e in tutti i suoi risvolti, l’avvenimento che sta all’origine della fede. Non è un caso che sulla tavola di Berlinghieri (1270 crica), insieme alla grande immagine di Francesco ci siano i riquadri con la narrazione dei fatti della sua vita.

L’Italia nasce qui, con Giotto che da ambasciatore gira l’Italia da Napoli a Milano a spalancare con l’autorevolezza del genio i nuovi orizzonti. L’Italia diventa il più grande laboratorio di immagini del mondo e della storia. Ma le immagini non sono solo a gloria di chi le produce, sono anche compagnia, consolazione, bellezza per chi le guarda e le vive. Oso dire che danno non solo un volto, ma anche un gusto alla fede: che è cosa da guardare e da toccare. Le immagini insomma cambiano la vita. (L’Italia diventa paese cattolico non solo e non tanto in senso di adesione a una fede,  ma in quanto a contaminazione del proprio immaginario). E questo dalla Sicilia sino a Bolzano. C’è di che essere grati a Francesco, che non a caso è il patrono d’Italia…

Written by gfrangi

Marzo 17th, 2011 at 11:04 am

Caravaggio e i segreti svelati della Contarelli

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Quant’è lunga la coda del centenario caravaggesco. In questo momento tra Milano Roma e Rimini son ben quattro le mostre in cui il suo nome compare nel titolo. Un’autorevole amica mi dice che però l’unica che riserva qualche sorpresa (e non presenta attribuzioni avventate: è una mostra documentaria) è quella sulla Cappella Contarelli appena aperta a Palazzo Venezia a Roma. La mostra presenta i risultati della campagna diagnostica realizzata sui tre dipinti. Si scopre la faticosa messa a fuoco del Martirio, con una piccola versione completamente diversa e una seconda che trova la quadratura anche grazie all’ancoraggio alle certezze fornite dall’incisione Prevedari tratta da Bramante. Si scopre quindi un Caravaggio che si appoggia sugli equilibri garantiti dalla sezione aurea, o che va di compasso per una partizione più proporzionata delle superfici. Non ho visto ancora la mostra ma tra c’è questa radiografia, già ben nota, che ci fa conoscere una prima versione del particolare di Cristo e dell’apostolo nella Vocazione di Matteo. A parte la correzione umanamente sublime che Caravaggio apporta alla mano di Cristo tesa a chiamare Matteo, c’è un’altra correzione che colpisce. Ed è l’aggiunta dell’apostolo che compare a far compagnia a Cristo. Caravaggio, mi vien da dire, aggiusta le cose, sistemando prima ancora che le dinamiche compositive, quelle umane. Al Cristo solitario della prima versione, quasi imperioso nella sua chiamata, con il braccio puntato sul fianco, subentra un Signore di struggente tenerezza (“ch’a rimirarlo attrahe gl’occhi” aveva scritto nel suo sonetto Marzio Milesi, anno 1600). Un Signore che nella sua scia questa volta si porta dietro l’apostolo Pietro, l’apostolo-ombra col passo un po’ affaticato, i vestiti che pesano sul corpo e lo fasciano, le gambe lasciate nude, risucchiato nella sua condizione di semplicità e povertà (come  commuove questo accucciarsi dell’apostolo all’ombra del gesto di Gesù).

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Marzo 14th, 2011 at 10:09 pm

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Le sorprese di Bergonzoni

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Formidabile Alessandro Bergonzoni visto ieri sera a Milano in Urge. È un personaggio fuori dal coro, che riesce a stregare il pubblico portandolo anche su percorsi impervi. È un grande comico che fa leva su una grande disciplina e non concede nullla all’improvvisazione. È un vero performer per la quantità di energia che mette nelle quasi due ore di palcoscenico. Non ci sono mai luoghi comuni, né situazioni inventate come concessioni al pubblico. Soprattutto è un grande esercizio sulle infinite possibilità della lingua, che viene si esalta facendo esplodere l’energia vitale che lei stessa contiene senza che noi ce ne rendiamo assolutamente conto. È una lingua che corre travolgente sul registro del comico ma che si fa anche tagliente e allarmata quando viene sfiorata da sentore di dramma e di morte.

Ma l’entrare nel mondo di Bergonzoni, è stata l’occasione di guardare meglio anche il Bergonzoni artista. Del resto anche la scena di Urge ha il sapore di una vera installazione, tra arte povera e arte ambientale (a metà strada tra Kounellis e Garutti…). In particolare mi ha colpito questa bellissima installazione che lo scorso anno a Maggio  aveva preparato per l’ospedale di Santa Maria del Buon Gesù a Fabriano, dal titolo meraviglioso come tutti i suoi: “Neonare: infinito di nuovo nato”. Una serie di incubatrici (che B. ribattezza “incubatoi”) che contengono opere, libri parole dedicate al tema del nascere. Una installazione delicata, piena d’amore, carica di energia evocativa («Una mostra fatta da sette postazioni  per entrare a far p’arte», scrive Bergonzoni). Una cosa che è a metà tra figurazione e narrazione. Arte che sembra parlare e sussurrare. Mi sembra che dopo Schifano nessuno si fosse addentrato con tanta poesia nel tema del nascere. E in questi “incubatoi” di Bergonzoni ci sarbbero state bene dei quadrerni da sfogliare di Schifano….

«Una stanza degli Incubatoi,
per toccare con mano
(i fogli prematuri, opere prima),
liberi e libri, eterni quaderni dipinti,
che hanno come madre
la terra che si sfoglia,
che cambia e muta
ma senza stare in silenzio».

Written by gfrangi

Marzo 11th, 2011 at 12:20 pm

Un titolo troppo giusto per Pistoletto al Maxxi

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Mi è piaciuto il titolo che Michelangelo Pistoletto ha voluto dare alla sua mostra aperta al Maxxi: Da uno a molti. È un titolo che custodisce bene il nocciolo dell’opera dell’artista biellese: l’idea che l’arte non sia un fatto individuale ma collettivo. Che l’esito dell’opera sia nella coscienza che sviluppa in chi la guarda. In un’onda di consapevolezza allargata. L’idea della Città dell’arte fondata a Biella nasce dentro questa scia. C’è un qualcosa di utopico che assegna all’arte un compito che ho qualche dubbio le appartenga: quello di aggiustare, o quanto meno di riparare, il mondo. Di guidarlo verso un Terzo Paradiso. Bonito Oliva per rendere l’idea, nella recensione su Repubblica ha voluto strafare: «Aleggia su tutti noi, a conferma, il nuovo segno dell’infinito per il Terzo Paradiso (dopo l’Eden naturale e quello tecnologico) costellazione protettiva e simbolica di un futuro migliore che solo l’arte può assicurare, garantendo l’impellenza di un insostituibile valore: la coesistenza delle differenze». …guardiamoci dall’arte che presume di assicurarci un futuro migliore… sa subito di arte di regime, anche se a volte non è immediato identificare e di quale regime si tratti…

Pistoletto non è certo questo. È un artista di una grande e speiazzante intelligenza e e di straordinaria raffinatezza stilistica. E forse quel titolo, che pure è bello, lo imprigiona un po’ dentro questo meccanicismo messianico. O forse è un po’ difensivo: come se evidenziasse il bisogno di legittimare moralmente il proprio essere artista.

(Mi vien da pensare che i titoli di un altro grande italiano funzionavano esattamente al contrario. Mi riferisco a quelli magistrali di Schifano, che erano come dei tuffi al cuore; palla avanti e via a correre… Io sono infantile, Tuttestelle, Tutto, Compagni compagni, Verde fisico, Perdita d’occhio, Venezioso, Quadri mai visti).

Nell’immagine, un’opera di Pistoletto presneta al Maxxi, Rosa bruciata (1965)

Written by gfrangi

Marzo 9th, 2011 at 10:48 pm

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Un mea culpa sulla Sagrada Familia

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Sul nuovo numero di Domus c’è un servizio spettacolare sulla Sagrada Familia. Il testo è di un architetto catalano Oscar Tusquets Blanco che è un grande e quanto mai raro, atto di onestà intellettuale. Tusquets Blanco negli anni 60 era stato firmatario di una petizione di intellettuali contro la continuazione dei lavori nell’edificio (tra i firmatari c’erano anche Bruno Zevi e Argan). Oggi l’architetto è entrato nella cattedrale finita e consacrata da Benedetto XVI e ha ammesso che quella petizione era sbagliata. «È Gaudì allo stato puro», ha scritto. «Devo ammetere di essere rimasto sbalordito». E si è dato una spiegazione di come i costruttori di oggi abbiano saputo applicare la volontà dell’architetto: «La fedeltà di questa ricostruzione è stata favorita dal fato che, nonostante la sua apparenza aleatoria, quest’opera si basa su delle rigide geometrie». Anche gli errori e le cadute sui particolari «non riescono a sminuire l’immensa qualità del monumento».

Tusquets accenna anche al problema dei portali: «Il genio di Gaudì aveva risolto il problema, sfiorando il kitsch, nella facciata della Natività con quei muri che si increspano formando delle figure, molte delle quali ottenute prendendo a modello persone e animali reali (George Segal mezzo secolo prima)». Ora il problema del portale principale resta invece drammaticamente aperto…

Infine: l’architetto laico rende un omaggio al popolo che ha finanziato un’impresa realizzata senza mai chieder un soldo allo stato. In tempi di lamentele diffuse è un bel monito.

Written by gfrangi

Marzo 6th, 2011 at 3:45 pm

E Pasolini mise a nudo Milano

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Geniale e corsaro questo estratto di Pasolini su Milano, ripubblicato dal Corriere (è un testo del 1961, che uscì su Paese Sera).

«… una città con una sua grandezza rosminiana confinata nei topai illusti della città. Su questa Milano – che permane, permane – si è sovrapposta prima la Milano della borghesia capitalitica fascista, più provinciale ancora, biecamente sfruttatrice, celebre per il suo cattivo gusto: e poi la Milano della borghesia neocapitalistica, con visuali europee, comprensiva della fatica degli sfruttati, e celebre per il suo buon gusto».(notazione interessante: il buon gusto indiscutibile – basta guardare quel che design, architettura e moda hanno saputo produrre a Milano: forse non c’è città che abbia prodotto tanto buon gusto al mondo – non ha contaminato i modelli di vita. Non è diventato consapevolezza profonda in grado di portare il buon gusto anche nelle relazioni, nei rapporti sociali. Così si capisce con quanta facilità oggi si svenda il patrimonio ereditato da quelle straordinarie officine del buon gusto)

«Tutti i milanesi tendono ad esser biblici, catastrofici, a fare la tragedia dal nulla, a tormentare gli altri. Sono cristiani, cattolici, controriformisti i poveri milanesi. E quindi repressi, e quindi scontenti: e ogni scontento vuole scontenti anche gli altri, detesta l’altrui libertà. Si sono buttati a capofitto nei destini del neocapitalismo, mentre a Roma si vive ancora tra i palmizi, come a Bandung. Dato che sono anch’io, in fondo, come i milanesi, vivo meglio a Roma». (Qui c’è dell’autentico astio. PPP si diverte a rigirare, da vero corsaro, il coltello nella piaga. Ma a Milano i palmizi non crescono, e non soffia neanche il ponentino. E quindi non resta che buttarsi a capofitto. Certo se Milano fosse contenta di se stessa, cioè sapesse – o avesse saputo – andare orgogliosa del proprio pragmatismo cattolico, delle proprie officine del buon gusto sarebbe tutta un’altra Milano).

Written by gfrangi

Marzo 5th, 2011 at 5:58 pm