Quant’è lunga la coda del centenario caravaggesco. In questo momento tra Milano Roma e Rimini son ben quattro le mostre in cui il suo nome compare nel titolo. Un’autorevole amica mi dice che però l’unica che riserva qualche sorpresa (e non presenta attribuzioni avventate: è una mostra documentaria) è quella sulla Cappella Contarelli appena aperta a Palazzo Venezia a Roma. La mostra presenta i risultati della campagna diagnostica realizzata sui tre dipinti. Si scopre la faticosa messa a fuoco del Martirio, con una piccola versione completamente diversa e una seconda che trova la quadratura anche grazie all’ancoraggio alle certezze fornite dall’incisione Prevedari tratta da Bramante. Si scopre quindi un Caravaggio che si appoggia sugli equilibri garantiti dalla sezione aurea, o che va di compasso per una partizione più proporzionata delle superfici. Non ho visto ancora la mostra ma tra c’è questa radiografia, già ben nota, che ci fa conoscere una prima versione del particolare di Cristo e dell’apostolo nella Vocazione di Matteo. A parte la correzione umanamente sublime che Caravaggio apporta alla mano di Cristo tesa a chiamare Matteo, c’è un’altra correzione che colpisce. Ed è l’aggiunta dell’apostolo che compare a far compagnia a Cristo. Caravaggio, mi vien da dire, aggiusta le cose, sistemando prima ancora che le dinamiche compositive, quelle umane. Al Cristo solitario della prima versione, quasi imperioso nella sua chiamata, con il braccio puntato sul fianco, subentra un Signore di struggente tenerezza (“ch’a rimirarlo attrahe gl’occhi” aveva scritto nel suo sonetto Marzio Milesi, anno 1600). Un Signore che nella sua scia questa volta si porta dietro l’apostolo Pietro, l’apostolo-ombra col passo un po’ affaticato, i vestiti che pesano sul corpo e lo fasciano, le gambe lasciate nude, risucchiato nella sua condizione di semplicità e povertà (come commuove questo accucciarsi dell’apostolo all’ombra del gesto di Gesù).