Robe da chiodi

1556 metri tra Garutti e l’Assunta di Tiziano

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Alberto Garutti, Campionario: ho camminato 1556 metri per arrivare all’Assunta di Tiziano ai Frari”, 2007

«Fosse per me introdurrei nelle università dei corsi di educazione all’emotività». Lo dice Alberto Garutti in una delle interviste firmate da suoi allievi e pubblicate sull’ultimo numero di Flash Art. Per capire cosa intenda Garutti per educazione all’emotività basta visitare la mostra che Milano gli ha giustamente dedicato al Pac, curata da Ulrich Obrist e Paola Nicolin. Raramente mi è capitato di vedere una mostra il cui baricentro è così spostato sul visitatore come questa, aldilà del fatto che i microfoni in tutte le sale soni messi per intercettare voci e commenti e costituire così domani un nuova opera. Ogni opera viene accompagnata da una didascalia che ne è parte assolutamente integrante (tanto da dare il titolo alla mostra). E ogni didascalia non spiega soltanto l’opera ma soprattutto racconta “per chi” è nata. Le didascalie sono di fatto delle “dediche” (“Opera dedicata a chi guarda in alto”; dedica ai nuovi nati oggi, agli innamorati, a chi abita nelle case…), il che trasforma le opere in un imprevisto regalo per chi le guarda. C’è una circolarità nell’opera di Garutti, un dare per aver ricevuto: per questo la mostra realizza quel proposito di Garutti trasformandosi in un percorso di formazione emotiva per chi la visita.
Tra le opere in mostra c’è anche la serie intitolata Campionario, stampe digitali su fondo monocromo, iniziate nel 2007, sulle quali una sottile linea nera ricama distanze e relazioni tra luoghi della città. La linea sottile che s’allunga sul foglio sino a coprire la distanza, avvolgendosi in motivi tanto rigorosi quanto gentili, è il simbolo stesso dell’arte come relazione: l’artista copre la distanza tra sé e il suo committente. O tra sé e un’opera amata. Una di queste opera infatti ha come titolo “Campionario: ho camminato 1556 metri per arrivare all’Assunta dei Frari di Tiziano” e svela quindi la predilezione di Garutti per il capolavoro di Tiziano. Preferenza confermata in una delle interviste (firmata Cattelan, uo dei tanti passati per la scuola di Garutti a Brera) su Flash Art. Sentite come Garutti entra dentro il capolavoro tizianesco, proprio ricercando quella continuità tra lo spazio artistico e lo spazio della vita che è il cuore del suo lavoro: «Mi piace immaginare lo stato d’animo di Tiziano, sono convinto che fosse innervosito, perché ha dovuto confrontarsi con una situazione nella quale nessun pittore si vorrebbe trovare: cioè dipingere un quadro, in controluce, tra due grandi finestre addossate alle parete dove il quadro era destinato. Sono certo che questa situazione di difficoltà sia stata determinante per la costruzione dell’opera nel suo impianto generale. Per risolvere questo problema, ha messo delle figure in controluce, ha quindi creato una grande nuvola, per fare in modo che alcuni personaggi fossero in ombra. In sostanza la nuvola divide il quadro in due: sotto i personaggi in ombra in un paesaggio terreno con gli alberi e il cielo azzurro, sopra un paesaggio dorato e paradisiaco. L’opera è stata risolta, condizionata dallo spazio architettonico in cui era stata inserita. Nella Pala Pesaro che sta in una navata della stessa chiesa, Tiziano ci offre la prova della capacità di relazionarsi con lo spazio architettonico: tra i tanti personaggi che guardano la Vergine c’è il ritratto di un giovanetto che guarda verso lo spettatore, che è lì in quel luogo, come se il giovinetto avesse sentito la nostra presenza. Tiziano dipinge una scena nella quale noi spettatori entriamo: non c’è confine tra l’architettura reale e lo spazio inventato nel quadro»

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Dicembre 16th, 2012 at 11:07 pm

Pietà Rondanini, quelle voci da dentro

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Non voglio aggiungere molte parole a questi testi. Sono presi dal Corriere della Sera di ieri. Sono voci di detenuti che commentano la decisione di portare la Pietà Rondanini nel carcere dove stanno rinchiusi: San Vittore. Mi preme solo sottolineare il valore di un servizio giornalistico che vuole intelligentemente rispndere a chi aveva detto che a San Vittore la Pietà non sarebbe stata vista da “nessuno”. Il Corriere ha dato la parola ad alcuni di questi “nessuno”.

Come l’abbraccio di mia madre. «L’arrivo della Pietà Rondanini a San Vittore mi evoca tante emozioni. Ho ben presente l’immagine: Maria che tiene tra le sue braccia Gesù morto. Non posso non associarla al pensiero di mia madre che fin da piccolo mi ha sostenuto sempre, senza lasciarmi mai solo neppure nei momenti più difficili e cupi. Per quanto drammatica è un’immagine che racchiude un’immensa dolcezza: una madre vicina al figlio nell’ora della fine. Penso che nessuna espressione di pietà arrivi a questa. Vorrei ringraziare chi, con l’idea di portare Michelangelo qui, ha dimostrato per noi una pietà analoga pur non essendo noi figli suoi».
Davide

Quale posto migliore. «Pietà: sentimento di compassione suscitato da dolori altrui, misericordia, avere pietà di qualcuno, provare pietà o invocarla, far pietà, ma anche atteggiamento di devozione, culto, pratiche di pietà, la Pietà di Michelangelo, la «Rondanini». Ecco, Maria che sorregge Cristo morto che le scivola tra le braccia rievoca tutto ciò. E allora quale posto migliore di San Vittore perché un uomo si chieda cosa sia, la pietà, e quanto di questo sentimento possiamo provare o suscitare nella vita, al cospetto nostro e degli altri. Pietà che trasuda dal marmo gelido di una statua: non possiamo che fermarci e riflettere. Grazie».
Nando


Maria piange per tutti noi.
«Questo è il ventiseiesimo Natale che non passo con mio padre, mancato quando ero piccolo, e il quinto senza la mia bambina. Personalmente non ho mai avuto modo di vedere la Pietà Rondanini prima d’ora. Ma già le foto che ho visto mi hanno detto molto: è il pianto della Madonna per suo figlio morto, e la mia fede (perché sono credente, nonostante tutti i miei errori) mi fa pensare che quella madre pianga anche per noi. Sarà collocata nella rotonda centrale di San Vittore, dove ogni domenica viene celebrata la messa, e penso che renderà il luogo un po’ più sacro».
Fabio

Il fuori e il dentro. «La ristrutturazione del Castello Sforzesco ci darà il privilegio di avere qui a San Vittore, per un po’, la Pietà di Michelangelo. Un’idea bella soprattutto perché unita alla possibilità, per chi vuole, di venire a vederla qui in carcere: sono rari i contatti tra questi due mondi, il «fuori» e il «dentro», e perciò tanto più preziosa è questa occasione. In realtà «tra» detenuti non è così strana, la pietà. Succede, per esempio, quando arriva un «nuovo giunto» e si cerca di accoglierlo ascoltando la sua storia davanti a un caffè-e-sigaretta. Il giorno saranno i volontari, psicologi, assistenti sociali, a impegnarsi per andargli incontro: estranei che si aiutano, spesso, più che vecchi amici. Dovremmo tutti ricordarcelo anche fuori».
Peter


Promemoria di Pietà.
«Un’opera di Michelangelo nella rotonda di San Vittore: non so cosa ne pensino fuori, ma credo che niente sia casuale. La Pietà ci parla di Gesù, crocifisso tra due malfattori come noi: lui, inchiodato e non legato, ebbe la fine più atroce. È ovvio, nessuno di noi può paragonarsi a Gesù. Intanto però la «pietà» arriverà a San Vittore sotto forma di opera d’arte. È un inizio e un’occasione doppia. Per chi verrà da fuori ad ammirarla: perché oltre alla statua vedrà, forse per la prima volta, anche un carcere. E per noi che in carcere ci stiamo: promemoria di pietà per noi stessi e per le vittime dei nostri reati».
Lenny

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Dicembre 13th, 2012 at 11:48 pm

Elsa Morante, amore e difficoltà per Beato Angelico

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È l’Annunciazione di Beato Angelico, quella di Cortona, forse la più famosa tra le 18 da lui dipinte, a inaugurare il percorso dell’Anno della Fede predisposto dal Vaticano. Mi piace ricordare quel che su Beato Angelico scriveva nel 1970 Elsa Morante. Per lei quell’Annunciazione era uno dei quadri più belli del mondo. Ma il suo era uno sguardo non semplificatore, che quindi non nascondeva le distanze.

«La povera mia (nostra) lingua materna è cresciuta nella fabbrica deformante delle città degradate, fra le lotte evasive dei meccanismi schiavistici, e le ripugnanti, continue tentazioni della bruttezza. (…) E forzata, fino dall’infanzia, a frequentare i gerghi obbligatorii dell’irrealtà collettiva, s’è ridotta a riinventare un proprio lessico, scavandolo, magari, da qualche vocabolario esotico, indecifrabile per i suoi contemporanei: e rifornendo il proprio tesoro magari dai loro rifiuti, piuttosto che dalle loro botteghe. Come potrà, dunque, una nel mio-nostro stato, non dico capire, ma perdonare quella lingua beata e angelica?»

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Dicembre 11th, 2012 at 10:37 am

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Non umile, magnanima. L’Annunciazione rivista da Bernardo. E da Piero

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Piero Della Francesca, Annunciazione (particolare), Arezzo, San Francesco

Vigilia dell’Immacolata. Cito dall’ultimo libro del Papa sull’Infanzia di Gesù:
«Creando la libertà Dio si è reso in un certo modo dipendente dall’uomo. Il suo potere è legato al “sì” non forzato di una persona umana. Così Bernardo mostra come al momento della domanda a Maria, il cielo e la terra, trattengano, per così dire, il respiro. Dirà “sì”? Lei indugia… Forse la sua umiltà le sarà d’ostacolo? Per questa sola volta – le dice Bernardo – non essere umile, bensì magnanima! Dacci il tuo “sì”!… È il momento dell’obbedienza libera, umile e insieme magnanima, nella quale si realizza la decisione più elevata della libertà umana».
Quella di Bernardo mi sembra un’intuizione grandiosa. E subito mi sono chiesto (ma in molti se lo sono chiesti) quale sia stato l’artista che nel passato ne abbia saputo tenere conto. La rappresentazione dell’Annunciazione ha sempre privilegiato il dato dell’umiltà: lo sguardo abbassato, le mani incrociate sul petto, il senso dell’accettazione obbediente di una chiamata (sono molto chiarificatrici nelle schematizzazione le pagine di Baxandall in proposito). Bernardo invece opera uno scartamento, straordinariamente convincente e molto verosimile rispetto alla dinamica di quel fatto misterioso. C’è qualche artista che ne abbia tenuto conto? Uno certamente ci è arrivato molto vicino: Piero. La sua Annunciazione di Arezzo, è fisicamente solenne. Ha la fisionomia di un baluardo. Soprattutto ha lo sguardo alto: osserva da un punto di osservazione che la fa partecipe della condizione di tutti gli uomini. È appunto magnanima. Psicologicamente, è una Madonna così consapevole da sembrare già “saputa”, rispetto al proprio destino. Del resto Piero affina da subito un’immagine di Maria in questa direzione, sin dal tempo del polittico di Sansepolcro. E anche in quella del Parto insiste sulla “grandezza” fisica oltre che mentale, di Maria. Il suo non è mai un tirarsi indietro…

Post scriptum: Quella di Bernardo, è una di quelle intuizioni generata dalla capacità di immaginazione (e quindi di immedesimazione nella situazione specifica) che è la dinamica generatrice di tutta la tradizione figurativa: senza quella immaginazione la storia dell’arte non avrebbe avuto lo sviluppo che ha avuto. Un’immaginazione sempre in movimento, che avanza a volte compiendo veri balzi in grado di cambiare la storia (l’immaginazione di Masaccio, ad esempio, che rende così perentoria la presenza di Gesù e degli apostoli, figure con le ombre). Bernardo, dal canto suo non aveva molta fiducia nelle immagini, come conferma la nudità programmatica dell’architettura cistercense. Che sia per questo che la sua intuizione non è stata presa in debito conto da chi immagini produceva…

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Dicembre 7th, 2012 at 9:11 am

Vedere Picasso con gli occhi di Gertrude

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Picasso, Ritratto di Gertrude Stein (particolare), 1906

In questo dicembre fortunosamente picassiano, almeno per noi milanesi (38mila biglietti a settimana…), ho riletto il libretto di Gertrude Stein su Picasso (Adelphi). È un testo in cui la forza della tesi è prevaricante e quindi spiega le inesattezze che contiene e un procedere più a cerchi concentrici che rettilneo. La Stein non racconta una storia, racconta un’epica. Proprio per questo per conoscere Picasso non si può non leggerlo. Mi sono segnato queste tre intuizioni. La seconda in particolare è un’intuizione chiave.

Bruttezza. «Dallo sforzo per generare intensità, dalla lotta per generare questa intensità deriva sempre una certa bruttezza: chi viene dopo può fare, di questa cosa, una cosa bellissima, visto che è già stata inventata, sa quello che fa; è inevitabile invece che l’inventore, il quale non sa quello che inventa, faccia una cosa che ha la sua bruttezza».

Bambino. «Un bambino vede la faccia di sua madre, e la vede in modo completamente diverso da come la vedono gli altri. Non sto parlando dell’anima della madre, ma dei tratti, dell’intera faccia; il bambino la vede molto da vicino, è un faccia grande per gli occhi di un piccino, il bambino per un po’ vede solo una parte della faccia della madre, conosce un tratto e non l’altro: alla sua maniera, Picasso conosce le facce come un bambino, conosce le facce, la testa, il corpo… Ognuno è abituato a completare l’insieme con quello che sa: ma Picasso quando vedeva un occhio, l’altro non esisteva più, per lui esisteva solo quello che vedeva… Il cubismo di Picasso fu lo sforzo di fare un quadro con queste cose visibili e il risultato fu sconcertante per lui e per gli altri».
(nota: questo brano è stato letto dalla direttrice del Museo Picasso di Parigi nell’incontro di preparazione per le guide della mostra milanese. Scelta molto giusta, perché più di tante letture scolastiche, questa intuizione della Stein arriva davvero al cuore del cubismo d Picasso. Da parte mia aggiungerei, che quello di Picasso è anche l’occhio della madre: schiacciato sul bambino in senso fisico – lo tiene tra le braccia – e ovviamente in senso affettivo).

Vedere. «Le complicazioni sono sempre facili, ma una visione diversa da quella di tutti è molto rara. Ecco perché i geni sono rari: complicare le cose in modo nuovo è facile, ma vedere le cose in modo nuovo è difficile. Picasso vedeva qualcos’altro, non una complicazione diversa, ma una cosa diversa. Lui non vedeva progredire le cose come la gente le vedeva progredire nell’Ottocento, vedeva le cose progredire mentre essi non progredivano. Questo era il Novecento. In altre parole lui era contemporaneo alle cose e vedeva queste cose, non vedeva come gli altri, come tutti credevano di vedere, cioè come loro stessi le vedevano nell’Ottocento».

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Dicembre 2nd, 2012 at 1:04 pm

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Corbu, Vermeer, Guttuso. Bellezze romane

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Le Corbusier, uno dei fogli-lavagna con gli schemi fatti nel corso della lezione milanese del 1934. (cliccando si ingrandisce)

Al Maxxi mostra di Le Corbusier e l’Italia. Spiccano quei cinque meravigliosi fogli- lavagna conservati all’archivio Bottoni del Politecnico di Milano, relativi a una lezione di LC a Milano del 1934. Il tema è l’abitare e la città. Lo sguardo di LC è di un’ampiezza attentissima però al particolare minuto della vita, è uno sguardo palesemente dettato da un amore verso l’oggetto che sta affrontando. L’abitare in città non è vissuto come un problema da risolvere, ma come un patrimonio di vita da conoscere, innanzitutto, e poi da custodire e far crescere sano. LC non ha uno sguardo superiore dell’esperto, ma è uno della partita: lo si vede dall’amore che muove i pastelli colorati sui grandi fogli di carta, in cui mostra come l’architettura debba sempre pensarsi a partire dal dato della vita. Sono fogli da cui si capisce che cosa significhi avere davanti un maestro nel senso completo della parola. e naturale. Riferendosi alle sue conferenze LC disse: “Esse con tutta la modestia, hanno aperto porte e finestre. Sono illustrate da schizzi, fatti sotto gli occhi del pubblico. Hanno permesso al loro autore di veder chiaro dentro se stesso, d’essere ingenuo una volta di più, nel contentarsi di porre i problemi e di dar loro la risposta più naturale”.

La Mostra di Vermeer alle Scuderie del Quirinale conferma un’impressione già avuta scorrendo il catalogo: che il dato di contesto è una bella palla al piede per un gigante come lui. Non che le decine di opere che accompagnano le otto opere di Vermeer non c’entrino. Ed è difficile pensare modalità alternative per esporre un pittore con 36 opere certe in catalogo. Ma l’impressione di modestia di tutto ciò che avveniva attorno a lui resta. Vermeer è un genio pulviscolare, visto da vicino ci si accorge che ogni millimetro di superficie dipinta è superficie non definita ma sempre in divenire. Più ti porta dentro il quadro più lui sfugge, perché concepisce l’esattezza come una vibrazione, non come un dato perimetrabile. Nella stradina di Delft impressiona il modo con cui ha dipinto il glicine sulla sinistra, non inseguendone le forme ma intercettandone il respiro, le intermittenze luminose. È certamente il modo con cui, senza muoversi e senza infrangere canoni, scappa via dalle prospettive anguste della sua Delft…

C’era molta voglia di riveder Guttuso, come dimostra la quantità di gente che affolla le sale del Vittoriano (se sale si possono chiamare questa sequenza di corridoi e di balconate: sede disgraziatissima). La mostra, che è quella del centenario con un anno di ritardo, è fatta senza molta testa, e certo non aiuta un grande artista generoso che ultimamente nin ha conosciuto grande fortuna. Sarebbe stato meglio fare una mostra con un taglio più ragionato e ambizioso, ad esempio su Guttuso e Roma, visto che Roma continua ad amarlo. Così si vedono alcuni quadri meravigliosi (il ritratto in rosso di Mimise, l’Antonio Santangelo, uno dei più bei ritratti del secondo 900), ci si chiede perché ne manchino alcuni fondamentali, come In spes contra spem. I disegni vengono “massacrati” in due salette anguste, ci sono un paio di pareti messe insieme come se fossimo ad un’asta di provincia. Eppure Guttuso dimostra di tenere e che la marginalità a cui è stato relegato (uno solo dei quadri esposti viene da fuori Italia…) è un destino del tutto immeritato. È un artista pieno di uno slancio che oggi sembra così raro tra suoi colleghi troppo calcolatori e cerebrali. È uno che vive la pittura senza riserve e senza complessi, pagando il dazio di tante cadute per mancanza di calcolo e di lucidità. Bellissimo a rivederlo, il grande funerale di Togliatti, con la soluzione pop dei fiori ritagliati su carta attorno al volto del defunto. Un quadro baldanzoso, un quadro di lotta ma soprattutto di amicizia, con quelle bandiere rosse, ancora piene di sogni e di ideali. Su un muro si rilegge una sua frase famosa: “Se io potessi, per un’attenzione del Padreterno, scegliere un momento della storia e un mestiere, sceglierei questo momento e questo mestiere”. C’è da amarlo anche solo per questa frase….

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Novembre 25th, 2012 at 11:00 pm

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Testori a Visconti: “Quel Rocco è troppo gesù”

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Alain Delon in Rocco e i suoi fratelli

Presentazione dei Segreti di Milano al Castello, per Bookcity (pienone di pubblico). Con me Mauro Giori, bravissimo studioso di cinema, autore di due libri su Visconti, di cui uno su Rocco e i suoi fratelli. Per realizzarlo ha studiato tutti i copioni conservati alla Fondazione Gramsci di Roma. Ce n’è uno anche annotato da Testori, a cui era stato chiesto di sistemare i dialoghi in milanese (il film è tratto dal suo Ponte della Ghisolfa). Lui non si limita a quello e annota ai margini alcune considerazioni. Non gli gira il profilo del protagonista, Rocco Parodi (lo avrebbe interpretto Alain Delon). Dice che è troppo angelico, che sembra non vero. Non lo si vede mai fare cose normali, come mangiare, perdere la pazienza… Ad un certo punto annota: «Deve essere più crapone e meno gesù cristo (in minuscolo)». Giori spiega che Visconti non l’ascolta perché lui aveva in testa un Rocco stile principe Myskin dell’Idiota di Dostoevskij. Altra annotazione sulla scena celebre dell’incontro sul tetto del Duomo tra Delon e Girardot: Testori non voleva il Duomo. Non centrava con quella sua Milano.

Quale fosse la sua Milano è ben chiaro. Una città con una cintura vitale esterna e un grande buco al centro, da sorvolare (sarebbe diventato nucleo dell’apocalisse nel Testori tardo). Notavo nella presentazione, che nel momento in cui T. scriveva i Segreti di Milano, alle spalle di via Mac Mahon già c’era il complesso case Mangiagalli Iacp di Gardella Albini (1953) e nel cuore di Vialba, in via Orsini, la Casa per lavoratori Incis, queste firmate solo da Franco Albini. Case meravigliosamente milanesi, per quella capacità di essere popolari e non massificanti. Quella di Vialba in particolare, con la pianta a “J” e i ballatoi che tagliano il grande angolo, reinterpretazione del tema delle case a ringhiera. Sono case in cui il fattore della relazione tra chi abita è ancora un fattore architettonicamente rilevante. Come nella narrativa di Testori, le case sono palcoscenici che tengono un lato sempre aperto, così le case di Albini tessono dialoghi continui tra chi le abita. Non appartamenti (nel senso etimologico) ma luoghi di continue contiguità.

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Novembre 19th, 2012 at 7:03 am

Cinque domande a Massimiliano Gioni

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Oggi nella caserma (dismessa) XXIV Maggio di via Vincenzo Monti a Milano si inaugura la mostra annuale “nomade” proposta come ormai tradizione da Fondazione Trussardi: protagonista l’artista francese Cipryen Gaillard. Sul senso di questa operazione abbiamo rivolto cinque domande a Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione (oltre che curatore della prossima Biennale di Venezia). Lui gentilmente ha risposto a tutto. (La versione integrale dell’intervista sul prossimo numero di Vita).

Dieci anni di “museo nomade” suggeriscono l’idea che per l’arte contemporanea è meglio non pensare a musei stabili. È d’accordo?
Se vogliamo parlare dell’esperienza della Fondazione Nicola Trussardi dobbiamo partire dal contesto in cui opera. Milano non ha un museo di arte contemporanea e quando nel 2002 è cominciata la mia collaborazione con Beatrice Trussardi e con la Fondazione, volevamo proporre uno schema diverso, pensando appunto alla mancanza di un museo, ma senza la presunzione di colmare questo vuoto. Volevamo invece contribuire a riportare l’attenzione, il dibattito e l’energia dell’arte contemporanea in città, facendo così familiarizzare nuovamente la gente con questo tipo di linguaggio.
Milano ha sempre avuto una spiccata vocazione al contemporaneo, da Leonardo al Futurismo a Fontana e Manzoni, anche se da un certo punto in poi si è concentrata su altro, lasciando un po’ in disparte le arti visive. Partendo da questo bagaglio importante la Fondazione vuole avere però una funzione diversa rispetto a quella di un museo: avvicinare il grande pubblico a un linguaggio, quello dell’Arte Contemporanea, che è più affine di quanto si pensi a quello della vita di tutti i giorni. C’è una specie di disaffezione della gente verso l’arte contemporanea, che spesso è sentita come distante, autoreferenziale, solo per gli addetti ai lavori. Noi abbiamo cercato da subito di creare delle occasioni di incontro con i linguaggi del contemporaneo, a volte proprio di inciampo, e spesso capita – o è capitato soprattutto all’inizio – che i nostri visitatori siano attratti più dal contenitore che dal contenuto, più dall’idea di vedere l’interno di un palazzo, un cinema, una caserma oggi altrimenti inaccessibili e a cui sono in qualche modo legati piuttosto che dal nome di un artista. Quando però si trovano a contatto con le opere in questi luoghi, sono in qualche modo costretti a fare riflessioni che in un museo, con la decontestualizzazione e la sacralità del cubo bianco, non avrebbe potuto fare. È proprio su questo scambio reciproco tra luogo, artista e pubblico che si fonda il nostro lavoro. La risposta, l’affetto e l’attesa crescente per le nostre mostre ci dimostrano che il modello funziona.

Questa caccia alle location per il museo nomade Trussardi è anche un modo per lei di riscoprire le potenzialità della città? C’è un luogo “proibito” in cui sognerebbe fare una mostra in una delle prossime edizioni?
La scelta dei luoghi per le mostre della Fondazione Trussardi, oltre che da motivi di interesse storico e da esigenze pratiche, è mossa da una ricerca di affinità elettive. Come nell’incontro tra parole e musica in una canzone, così luogo e artista in qualche modo si scelgono a vicenda, chiamandosi per indizi di identità. Chi, se non Paul McCarthy, poteva trasformare il sotterraneo di Palazzo Citterio in un labirinto magico e delirante, e chi meglio di Pipilotti Rist poteva ipnotizzarci con la trasformazione onirica del Cinema Manzoni? Non c’è, e non ci può essere, una lista di luoghi possibili. Il prossimo luogo sarà come un oggetto trovato che il destino mette sulla nostra strada. Desiderarne uno in particolare rischierebbe di inceppare questo meccanismo così intrigante.

In dieci anni di storia non ha mai esposto un pittore nel senso “letterale” del termine…
Per la Fondazione e per me non è una questione di generi. Ogni volta che pensiamo a una mostra lo facciamo nell’ottica del miglior rapporto artista-spazio, e l’eterogeneità delle opere presentate in questi dieci anni lo dimostra. Come curatore, poi, lavoro con i pittori così come con tutti gli altri artisti, perché la mia attenzione è sui parametri interni all’opera, concettuali, formali e poetici, e non sul medium di per sé. George Condo, Michael Borremans, Konrad Klapheck, Maria Lassnig sono ad esempio tre dei pittori con cui ho lavorato più spesso, davvero citando a caso. In realtà la ragione purtroppo per cui non abbiamo mai lavorato con un pittore è molto semplice e pratica: di solito lavoriamo in edifici storici, protetti dalle Soprintendenze, dove è impossibile appendere chiodi o forare le pareti (e lo dico senza lamentarmi, anzi). Il che vuole dire che purtroppo i quadri alle pareti non li posso mettere, ma posso mettere sculture e installazioni. Pensate però a 10 anni di mostre a Milano e provate a pensare che non abbiamo mai fatto un buco in una parete, anche per le installazioni piu complicate: tutto rigorosamente autoportante e senza mai modificare in maniera irreversibile un luogo. Questo devo dire è il vero miracolo della Fondazione, per cui devo soprattutto ringraziare Barbara Roncari e Roberta Tenconi che si occupano della produzione e degli allestimenti. Dieci anni senza battere chiodo: sarà il titolo della auto-biografia della Fondazione.

Quest’anno la Fondazione propone una mostra di Cyprien Gaillard. Il titolo evoca un nesso profondo con il periodo storico che stiamo vivendo, ma l’artista sembra mosso da una fascinazione verso tanti simboli decaduti. Quale stimolo o messaggio si augura arrivi al visitatore?
La ricerca di Cyprien Gaillard mostra una visione delle cose del mondo tra la memoria e il futuro, con un lavoro carico di segni di decadenza e rovina, ma anche di ottimismo e novità, e quindi di rivelazioni. Attraverso la Fondazione vogliamo parlare del mondo e dello spirito del tempo in cui viviamo, e da questo punto di vista Cyprien Gaillard porta un contributo originale ed estremamente contemporaneo a questa visione. La continuità tra passato e futuro e la lezione esistenziale che un mondo in rovina, com’è quello di Gaillard, porta con sé, in una città in costante trasformazione e in un momento storico di grande insicurezza com’è questo, possono rappresentare un punto di appoggio, una ristrutturazione dello sguardo del pubblico che potrà orientarsi, una volta accettate le rovine, verso la rivelazione che un futuro diverso è possibile.

Qual è l’opera d’arte del passato a Milano a cui lei si sente affettivamente o intellettualemente più legato?
“I ladri e l’asino” di Paul Cezanne alla Galleria di Arte Moderna: così piccola e bellissima e nessuno se la ricorda. Ma ce ne sono tante altre. I Medardo Rosso, la “Lettrice” di Faruffini, e “Il Quarto Stato”. Tutte legate nel mio ricordo alla Galleria d’Arte Moderna, dove tornavo sempre da ragazzino e all’Università. Ma poi ce ne sono molte di sparse in altri luoghi. Quando il PAC era il PAC, andavo all’ultimo piano di Palazzo Reale così spesso perchè non c’era mai nessuno e i pezzi della Collezione Jucker erano bellissimi. E poi i Marchigiani a Brera… Ecco, comunque ce ne sono troppe di opere importanti per me per riuscire a elencarle tutte o solo provare a fare una scelta.

Written by gfrangi

Novembre 13th, 2012 at 9:41 am

Firenze, e ora che si fa della Croce di Paladino?

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Ma vi sembra logico nell’ordine:
1. commissionare a un artista non qualunque come Mimmo Paladino una grande installazione per una delle piazze più celebri d’Italia;
2. farlo lavorare su 50 grandi blocchi di marmo di Carrara, tutti alti tra i due e quattro metri (alcuni di 38 tonnellate), che disposti sulla piazza sono venuti a formare una grande croce di 80 metri (riferimento duplice alla chiesa di Santa Croce e alla vittorie del 312 di Costantino su Massenzio);
3. verificare che un intervento così riqualifica davvero la piazza (ho visto solo per foto ma la sensazione è che l’intervento di Paladino funzioni davvero. E anche un occhio ben esperto di Firenze, come Luca Doninelli che l’ha visto dal vero mi conferma.
4. ottenere un risultato di consenso pubblico oltre ogni aspettativa
5. sobbarcarsi tutte le spese di progettazione, realizzazione
6. e ora sobbarcarsi anche anche le spese di smantellamento, per un’opera che è nata per quel luogo e che in altri luoghi non ha senso.

A me sembra che tutto questo non abbia senso. Ci vuole il coraggio di provare a lasciare la croce in piazza Santa Croce (a Milano, con Cattelan a Piazza Affari alla fine il coraggio lo hanno avuto). Perlomeno ci sia il tempo di ragionarci e di discuterne.

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Novembre 12th, 2012 at 9:46 am

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12 ore a Venezia: Tiziano, Capogrossi e Scarpa

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Carlo Scarpa, 1940

Giovedì 1 novembre, giornata veneziana con truppa di ragazzi al seguito. È il giorno dell’acqua alta a 1,40. Il Canal Grande è qualcosa d’inimmaginabile, vasto, semi deserto, perché solo pochi vaporetti possono solcarlo. A destra e sinistra che parta un canale o una calle, non cambia niente. È solo acqua. La prima tappa è l’Accademia, per vedere La Fuga in Egitto di Tiziano. Il passaggio dal traghetto alla porta del museo è complicato, ma ce la si fa con i piedi a mollo (e moglie sulle spalle…)
Su quel Tiziano giovanile avevo già messo giù qualche pensiero, in occasione della mostra di Londra. È un quadro che dà gioia a vederlo. Ma a Venezia l’occhio arranca per un allestimento angusto, mal congegnato: a me è capitato (ma credo ai più) di entrare nel recinto della mostra, accolta all’interno di quella che era la Chiesa della Carità, da dietro. Cioè di prendere Tiziano di spalle. Già il titolo faceva leva sulla solita enfasi fuori luogo: Il Tiziano mai visto, cosa per altro non vera, dato che era stato in mostra a Londra per due mesi. A Londra il titolo era: Titian’s first masterpiece. A fresh look at nature. Volete mettere? Quel “fresh look” coglieva davvero la quintessenza del quadro.

Come per magia nell’arco di un’ora l’acqua si era riadagiata nel suo alveo. Strada libera dunque per andare alla Guggenheim a vedere Capogrossi. Un piccolo choc ci accoglie: nell’ala sul giardino è stata smontata la Collezione Mattioli per far posto alla neo arrivata Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof. Morandi e Boccioni spodestati, per far largo a tanta America, non particolarmente interessante. Sul terrazzo che dà sul Canal Grande hanno piazzato il grande Calder rosso della collezione Schulhof: ma non sta bene e visto dal traghetto è troppo basso e tagliato dalla balaustra. Neanche gli americani sono perfetti. In compenso quella di Capogrossi è mostra forte e compatta. Una rivelazione per me i quadri dei primi anni, di un realismo magico a un crocevia tra Scipione, Carrà e De Chirico. Poi entra in gioco quel segno totemico che lo accompagna per tutta la vita, e sorprende la sua forza nel riuscire a non togliere mai forza a quel segno reiterato in mille soluzioni. C’è un che di contemporaneo e arcaico nello stesso tempo…

Dulcis in fundo, Isola di San Giorgio, i vetri di Carlo Scarpa. Una sfilata di meraviglie da stropicciarsi gli occhi. Ho capito che la sua grandezza sta nel calare sempre la sua fantasia dentro la ricerca di nuove soluzioni tecniche. La fantasia si misura in una danza continua con la materia e le sue possibilità (quelli con il color lattime, un bianco impalpabile, sfuggente). Non sta mai sui risultati raggiunti, aggiungendo tocchi che gli sarebbero riusciti certamente facili facili. Ogni volta invece chiede al vetro qualcosa di nuovo e qualcosa di più, in un oltranzismo mai ansioso. Sono oggetti senza prosopopea, che non vogliono essere niente di più di quel che sono. Non hanno bisogno neanche di dar sfoggio dell’incredibile perizia tecnica che ha richiesto il farli essere. Sono bellezze armate di certezze e di semplicità, bellezze forgiate in un fuoco tranquillo. A volte guardavo le date, e notavo quanto sia difficile tante volte trovare in loro segni del gusto o dello stile del tempo: con nonchalance ne prescindono. Solo Matisse sapeva fare altrettanto…
Usciti dalla mostra ci aspettava un tramonto leggendario, “rosso Scarpa”, nel cielo sopra la Salute. Con questo negli occhi si torna a casa…

Written by gfrangi

Novembre 8th, 2012 at 11:15 pm