Il piccolo Rocco (oggi è il suo giorno) scoprirà quanta vita, quanta pienezza c’è del dentro quel meraviglioso nome che gli è stato dato, da sua mamma Maria e da suo papà Massimiliano. Rocco è un nome denso, un nome che aderisce come una ventosa alla realtà. Un nome- sponda; un nome – roccia, data l’assonanza; un nome sollecito, che si palesa appena lo pronunci; e che oltretutto pronunci rapido, con quelle due sillabe che si chiamano l’un l’altra. Soprattutto è un nome che “si fa corpo” con chi lo porta. In una pagina bellissima di uno dei suoi ultimi libri Giovanni Testori scrive di un momento della sua storia in cui c’era «non solo la necessità della più assoluta esattezza nel riferire i nomi, ma ricordo che con stupore ogni volta si rinnovava l’assoluta coincidenza che quei nomi avevano con gli esseri a cui appartenevano… Insomma quegli esseri non erano pensabili dotati d’altro nome e cognome se non quelli che, in realtà, possedevano». Poi, lo sappiamo, si è aperta la lunga stagione della separazione tra i nomi e le cose, la stagione dei nomi svuotati di realtà. Rocco, è invece un nome che non arretra, che ricuce. Un nome irriducibile alle riduzioni. Il suo stesso suono contiene così tanta realtà…
Rocco è anche una traccia di storia, una storia tra le più belle che mi sia stato dato d’incontrare (ed è una storia che conferma in modo inconfutabile quanto detto sin qui). Parte dalle campagne della Bassa Bresciana e arriva alle prime pendici che salgono verso il Rosa. Parte dal Rocco di Vincenzo Foppa nello Stendardo di Orzinuovi. Una tela povera, scarna, dipinta su ambo i lati. Più che un quadro, una bandiera: bandiera che rivendica la possibilità di una grandezza che aderisce alla terra e che si è spogliata di ogni intellettualismo. Su uno dei due lati, c’è proprio Rocco, il santo con il suo cane e gli stivali da infaticabile e appassionato viandante. Ha il volto un po’ oblungo, di quelli che non dovrebbero finire in posa per un quadro. Ma Rocco è nome che chiama realtà, è antitetica alle logiche del glamour di ogni epoca.
L’altro Rocco è quello di Tanzio da Varallo, dipinto per la parrocchiale di Camasco, frazioncina sperduta di Varallo, nella valle del Mastellone. Volto indimenticabile, il cui sguardo dice tutto del suo cuore: una passione senza riserve, per chi incontra e per chi lo chiama. Notava sempre Testori (che per primo aveva tolto questo quadro dall’ombra), che il Rocco di Tanzio avanza di continuo «verso l’esterno», come per «una marcia che sembra non arrestarsi mai». Tutto «per un bisogno di invadere lo spazio fisico», per «una necessità di occupare una dimensione che non sia più e solo quella del dipinto». Rocco è questo: uno che esce sempre allo scoperto, che arriva puntuale e fedele quando lo attendi. Forza e dolcezza in unico corpo, con quel nome addosso (…il Rocco- Alain Delon di Visconti).
Auguri piccolo Rocco, e tieniti sempre stretto a questo tuo meraviglioso nome.
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A proposito di Rocco
Testori a Visconti: “Quel Rocco è troppo gesù”
Presentazione dei Segreti di Milano al Castello, per Bookcity (pienone di pubblico). Con me Mauro Giori, bravissimo studioso di cinema, autore di due libri su Visconti, di cui uno su Rocco e i suoi fratelli. Per realizzarlo ha studiato tutti i copioni conservati alla Fondazione Gramsci di Roma. Ce n’è uno anche annotato da Testori, a cui era stato chiesto di sistemare i dialoghi in milanese (il film è tratto dal suo Ponte della Ghisolfa). Lui non si limita a quello e annota ai margini alcune considerazioni. Non gli gira il profilo del protagonista, Rocco Parodi (lo avrebbe interpretto Alain Delon). Dice che è troppo angelico, che sembra non vero. Non lo si vede mai fare cose normali, come mangiare, perdere la pazienza… Ad un certo punto annota: «Deve essere più crapone e meno gesù cristo (in minuscolo)». Giori spiega che Visconti non l’ascolta perché lui aveva in testa un Rocco stile principe Myskin dell’Idiota di Dostoevskij. Altra annotazione sulla scena celebre dell’incontro sul tetto del Duomo tra Delon e Girardot: Testori non voleva il Duomo. Non centrava con quella sua Milano.
Quale fosse la sua Milano è ben chiaro. Una città con una cintura vitale esterna e un grande buco al centro, da sorvolare (sarebbe diventato nucleo dell’apocalisse nel Testori tardo). Notavo nella presentazione, che nel momento in cui T. scriveva i Segreti di Milano, alle spalle di via Mac Mahon già c’era il complesso case Mangiagalli Iacp di Gardella Albini (1953) e nel cuore di Vialba, in via Orsini, la Casa per lavoratori Incis, queste firmate solo da Franco Albini. Case meravigliosamente milanesi, per quella capacità di essere popolari e non massificanti. Quella di Vialba in particolare, con la pianta a “J” e i ballatoi che tagliano il grande angolo, reinterpretazione del tema delle case a ringhiera. Sono case in cui il fattore della relazione tra chi abita è ancora un fattore architettonicamente rilevante. Come nella narrativa di Testori, le case sono palcoscenici che tengono un lato sempre aperto, così le case di Albini tessono dialoghi continui tra chi le abita. Non appartamenti (nel senso etimologico) ma luoghi di continue contiguità.