«Fosse per me introdurrei nelle università dei corsi di educazione all’emotività». Lo dice Alberto Garutti in una delle interviste firmate da suoi allievi e pubblicate sull’ultimo numero di Flash Art. Per capire cosa intenda Garutti per educazione all’emotività basta visitare la mostra che Milano gli ha giustamente dedicato al Pac, curata da Ulrich Obrist e Paola Nicolin. Raramente mi è capitato di vedere una mostra il cui baricentro è così spostato sul visitatore come questa, aldilà del fatto che i microfoni in tutte le sale soni messi per intercettare voci e commenti e costituire così domani un nuova opera. Ogni opera viene accompagnata da una didascalia che ne è parte assolutamente integrante (tanto da dare il titolo alla mostra). E ogni didascalia non spiega soltanto l’opera ma soprattutto racconta “per chi” è nata. Le didascalie sono di fatto delle “dediche” (“Opera dedicata a chi guarda in alto”; dedica ai nuovi nati oggi, agli innamorati, a chi abita nelle case…), il che trasforma le opere in un imprevisto regalo per chi le guarda. C’è una circolarità nell’opera di Garutti, un dare per aver ricevuto: per questo la mostra realizza quel proposito di Garutti trasformandosi in un percorso di formazione emotiva per chi la visita.
Tra le opere in mostra c’è anche la serie intitolata Campionario, stampe digitali su fondo monocromo, iniziate nel 2007, sulle quali una sottile linea nera ricama distanze e relazioni tra luoghi della città. La linea sottile che s’allunga sul foglio sino a coprire la distanza, avvolgendosi in motivi tanto rigorosi quanto gentili, è il simbolo stesso dell’arte come relazione: l’artista copre la distanza tra sé e il suo committente. O tra sé e un’opera amata. Una di queste opera infatti ha come titolo “Campionario: ho camminato 1556 metri per arrivare all’Assunta dei Frari di Tiziano” e svela quindi la predilezione di Garutti per il capolavoro di Tiziano. Preferenza confermata in una delle interviste (firmata Cattelan, uo dei tanti passati per la scuola di Garutti a Brera) su Flash Art. Sentite come Garutti entra dentro il capolavoro tizianesco, proprio ricercando quella continuità tra lo spazio artistico e lo spazio della vita che è il cuore del suo lavoro: «Mi piace immaginare lo stato d’animo di Tiziano, sono convinto che fosse innervosito, perché ha dovuto confrontarsi con una situazione nella quale nessun pittore si vorrebbe trovare: cioè dipingere un quadro, in controluce, tra due grandi finestre addossate alle parete dove il quadro era destinato. Sono certo che questa situazione di difficoltà sia stata determinante per la costruzione dell’opera nel suo impianto generale. Per risolvere questo problema, ha messo delle figure in controluce, ha quindi creato una grande nuvola, per fare in modo che alcuni personaggi fossero in ombra. In sostanza la nuvola divide il quadro in due: sotto i personaggi in ombra in un paesaggio terreno con gli alberi e il cielo azzurro, sopra un paesaggio dorato e paradisiaco. L’opera è stata risolta, condizionata dallo spazio architettonico in cui era stata inserita. Nella Pala Pesaro che sta in una navata della stessa chiesa, Tiziano ci offre la prova della capacità di relazionarsi con lo spazio architettonico: tra i tanti personaggi che guardano la Vergine c’è il ritratto di un giovanetto che guarda verso lo spettatore, che è lì in quel luogo, come se il giovinetto avesse sentito la nostra presenza. Tiziano dipinge una scena nella quale noi spettatori entriamo: non c’è confine tra l’architettura reale e lo spazio inventato nel quadro»
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1556 metri tra Garutti e l’Assunta di Tiziano
Milano, perché do ragione a Stefano Boeri
Non so com’è destinata a finire la vicenda di Stefano Boeri, l’assessore alla Cultura di Milano entrato in conflitto con il sindaco e con l’apparato del partito di cui è stato capolista alle ultime comunali. So per certo che quella di Boeri è stata sino ad ora la vera novità di questa giunta, una novità che si è confermata appieno con la conferenza stampa di giovedì scorso, quella che ha scatenato le nuove polemiche contro di lui.
Boeri ha colto la cosa di cui Milano in questo momento ha più urgente bisogno, quella di sprovincializzarsi. Non è un vezzo né una questione da vetrina, ma è una scommessa su cui si fonda ogni vero rilancio di una città che negli ultimi anni, tranne qualche eccezione, si è ripiegata nel suo tran tran, smarrenso la propria capacità di città-traino. Spingere Milano verso una frontiera più ambiziosa, significa aprirle prospettive, liberare energie oggi imbrigliate, costringerla ad aprire cantieri nuovi (non solo quelli edilizi), creare lavori e lavoro, ringiovanire la città. Non è un’idea astratta, ma è un’idea che Boeri ha potuto ben sperimentare nelle sue recenti direzioni di grandi riviste di architettura, dove ha capito le potenzialità di una città a cui tutto il mondo ancora guarda come uno dei laboratori più interessanti e decisivi per pensieri nuovi sull’abitare e sulla città.
Boeri aveva una sola strada possibile davanti: procedere senza indugio verso scelte che immediatamente dessero il segnale della svolta. Va in questa direzione il coinvolgimento di Ulrich Obrist, oggi numero uno del sistema dell’arte contemporanea, nel ripensamento dei luoghi espositivi della città, ridotti a disordinato ricettacolo del primo che arriva (e che paga); basta dare un’occhiata agli stendardi che pendono sulla facciata di Palazzo Reale per avere la fotografia esatta della situazione.
Poi è arrivato l’annuncio di Francesco Bonami come curatore per il luogo giustamente assegnato all’arte contemporanea, il Pac, capolavoro di Gardella. E il coinvolgimento di Giovanni Agosti, uno dei maggiori storici d’arte oggi in attività, che pur insegnando a Milanno le mostre importanti ha dovuto quasi sempre farsele tra Parigi e il Ticino.
Sacrosanta inoltre l’opposizione di Boeri alla costruzione del nuovo Museo di Arte Contemporanea a Citylife: un inutile mausoleo già in affanno prima ancora di sorgere, che graverebbe con costi di gestione assurdi sulle già esauste casse pubbliche. E giusta anche l’intuizione di destinare all’arte contemporanea un progetto già in fase avanzata e molto più legato alla storia urbanistica di Milano, come la ristrutturazione dell’ex Ansaldo: pensare quegli spazi enormi solo per ospitare il museo delle culture non europee (una quai Brainly dei poveri…) è un’idea che tutt’al più acqiueta le coscienze politicamente corrette. Sarebbe molto più intelligente e dinamico progettare un luogo per l’arte contemporanea dove ci sia spazio e visibilità per tutte le culture che in questi decenni sono confluite a Milano. La multietnicità infatti è un’esperienza viva e non da museificare.
Boeri ha poi parlato della necessità di avere un festival internazionale del teatro: un’idea tanto giusta che a sentirla sembra quasi ovvia. Com’è possibile che Milano sul teatro, con la storia e le istituzioni che ha, non abbia un’iniziativa di quel respiro?
Milano ha davvero bisogno come l’aria (di quella pessima che si respira in questi giorni e su cui la giunta si è purtroppo impantanata) di un cambio di marcia di questo tipo. Che accenda nuovi interessi e nuove passioni. Speriamo che Pisapia se ne renda conto.