Robe da chiodi

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Kjartansson alla Chiesa del Lazzaretto

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Se Gino Paoli incrocia san Carlo

Adesso che va a terminare si prova un filo di nostalgia: nostalgia per quella meravigliosa canzone che per un mese è risuonata in quel piccolo ottagono, le cui dimensioni sono inversamente proporzionali al grande carico di memoria. L’intervento che Ragnar Kjartansson (a cura di Massimiliano Gioni, progetto di Fondazion Trussardi) ha pensato per la chiesa di San Carlo al Lazzaretto a Milano aveva la grazia di una cosa immaginata e realizzata nel posto giusto, al momento giusto, e soprattutto (che è la cosa più rara) con il tono giusto.

Il posto è il cuore di quello che un tempo era il Lazzaretto ai margini della città, fuori da porta Orientale. I pilastri e gli archi sono gli stessi che si erano presentati agli occhi di Renzo nel capitolo XXXVI dei Promessi Sposi. «Il tempietto ottangolare che sorge elevato sul suolo d’alcuni gradi…», scrive Manzoni. Si è creato così un collegamento, concreto e non solo simbolico, con una stagione che ha segnato la storia e la memoria della città: il grande stemma di San Carlo iscritto nel pavimento alle spalle degli organisti-cantanti era lì a sottolinearlo. San Carlo era anche sulla pala dell’altare, mentre comunicava, in quello steso luogo, i malati di peste. Curioso il fatto che il testo di Gino Paoli evochi uno spazio senza più pareti, proprio com’era in origine questa piccola chiesa, aperta su tutti i lati perché gli ospiti del Lazzaretto potessero assistere ai riti.

Anche il momento scelto per proporre questo rito condiviso è sembrato “psicologicamente” azzeccato. Con molta delicatezza Kjartansson ha offerto al pubblico la possibilità di un’esperienza riparativa: quella per rimarginare la profonda ferita collettiva causata dalla pandemia. All’artista islandese è riuscito di intercettare con sorprendente sensibilità un bisogno inespresso, un tacito desiderio di senso di fronte all’angoscia sperimentata: la canzone di Gino Paoli è diventata così la struggente colonna sonora di questo desiderio, una preghiera laica spalancata verso “cieli immensi” e “alberi infiniti”. 

Infine il tono: è il sigillo poetico all’architettura di questo progetto. È un tono profondamente poetico, trattenuto nell’allestimento, giustamente ridotto all’essenziale, rispettoso del luogo (la lucina rossa del tabernacolo segnalava il fatto che quella restava sempre una chiesa). Kjartansson ha lasciato lavorare i materiali che aveva tra le mani, permettendo loro di contaminarsi. Naturalmente il materiale centrale era la canzone di Gino Paoli, trasformata in scultura sonora, che come l’artista ha sottolineato, contiene la capacità di trasformare lo spazio, che è una «caratteristica fondamentale dell’arte». Il riferimento non è solo allo spazio “chiuso” delle case a cui siamo stati costretti nel lockdown. È lo spazio della nostra immaginazione che è chiamata a pensare un mondo che non può e non deve essere come quello di prima.  

Scritto per la newsletter Telescope il 25 ottobre

Written by gfrangi

Novembre 10th, 2020 at 9:22 am

Le unghiate dell’Atelier dell’errore

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Pirotoco San Pirotoco Salvatore dei Pirotoci
Una bella mostra-lampo a Milano è stata quella dell’Atelier dell’Errore allo spazio Marselleria: si tratta di un’esperienza nata nel 2003 come atelier di attività espressive per la Neuropsichiatria infantile dell’Ausl di Reggio Emilia da un’idea di Luca Santiago Mora. Oggi il progetto è sbarcato anche a Bergamo. Cos’ha di diverso questa esperienza rispetto alle tante esperienze di espressività scaturite da persone con problemi psichici? Mi sembra che qui l’energia sia ben più che frutto di un’istintività. C’è un qualcosa messo a fattor comune, che dà unità anche stilistica ai lavori, che li porta ben oltre il livello di una espressività ossessiva. È sorpendente infatti la capacità che i ragazzini (hanno dai 7 ai 16 anni) hanno di “chiudere” i loro disegni, di portarli a un compimento oltre il quale un segno sarebbe di troppo. Mi veniva il paragone con gli outsider che Gioni ha disseminato nella sua Biennale: ma lì dominava la ripetività dei motivi, un po’ come se fossero dischi creativi rotti. Ed erano sempre dei soliloqui. Qui invece cogli la sensazione di un percorso, di un tentativo di spingersi fuori, di un’uscita da quel solpsismo in cui erano imbrigliati quasi tutti gli outsider di Gioni, e di un tentativo quindi di spingere fuori quelle incredibili creature (sono tutti animali fantastici ricavati dai racconti di Ermanno Cavazzoni) immaginate. “In fuga dalla priogine della nostra immaginazione”, è stato il titolo scelto per la mostra, tratto dalla didascalia apposta da uno degli autori al suo lavoro. Sono meglio di Mario Merz, mi ha suggerito qualcuno. E in effetti…
In esergo all’home page dell’Atelier (guardatela, merita) c’è questo verso di Antonella Anedda: «Il disegno sarà semplice come unghiate di bestia sul tronco».

Nelle immagini. Sopra: Sante Carini, Pirotoco San Pirotoco Salvatore dei Pirotoci
Qui sotto: Matile e Sara, Remora Baianfantiticole

Remora Baianfantiticole

Written by gfrangi

Febbraio 12th, 2014 at 9:33 am

Biennale 2013. Cinque pensieri

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Le sculture di Hans Josephsohn

Le sculture di Hans Josephsohn


1. Non è una Biennale ambigua, nonostante l’ambiguità del suo proposito: dare spazio all’immaginario dell’uomo, come qualcosa che si autolegittima aldilà della sua forza e del suo effettivo valore. Gioni gioca allo scoperto proponendo un tema per sua natura enigmatico. Il bianco dell’allestimento, protratto anche nelle Corderie, sino a sradicare la straordinarietà di quei luoghi, ha questo senso. Almeno, credo. Gioni comunque si conferma come il miglior regista di mostre sulla piazza.

2. A volte l’immaginario, per fortuna, anziché emergere da mente “allagate” (in sostanza perse), spunta da menti infuocate o da menti ironiche. Sono i momenti migliori della Biennale. La sala di Maria Lassnig (austriaca, 1919), con quei corpi di donne feroci, verdi come rettili pronti all’attacco, sono come una scarica elettrica che è difficile dimenticare. È una che passa dall’immaginario all’azione. Di una classe superiore la fantasia di Fischli e Weiss con le loro centinaia di statue in plastilina, bizzarre creature che arrivano a cogliere le cose per percorsi che non t’aspetti (una per tutti: Herr and Frau Einstein shortly after the conception of their son, the genius Albert 1981).

3. Dal groviglio dell’immaginario umano spesso escono immagini insipienti, tutte calligrafiche ed educate, di outsider che si capisce perché sono rimasti tali. A volte però la mente (e la mano) umana sputa fuori forme selvagge, come compattate e plasmate da una prolungata occlusione. È la scultura a dare a tratti le cose migliori del percorso della Biennale: bella quella paurosamente antidiluviana di Cuoghi. Ma rombante e selvatico anche il popolo di pietre di Hans Josephshon (russo, 1920) o le meteoriti incatenate di Phyllida Barlow (inglese, 1944). Una fisicità che alla fine inghiotte l’esoterismo da sottoscala.

4. Il Padiglione Vaticano delude. Troppa preoccupazione di stabilire un discorso invece che di dare spazio ad esperienze. Troppo controllo della sceneggiatura, che alla fine neutralizza la poesia dei singoli. Si è andati sul sicuro, in fondo mettendosi un po’ su un pulpito e proponendo autori inattaccabili sotto ogni profilo. È un padiglione che si preoccupa di dar risposte invece che di accendere domande.

5. In conclusione, faccio mia una giustissima frase che mi ha mandato Paola M. in una mail in cui mi esterna tutte le sue perplessità su questa Biennale. È di don Michele Attanasio, nel suo libro Con gli occhi della sposa: «Il mistero non è l’inconoscibile ma l’infinitamente conoscibile». Ne farei un telegramma a Gioni, in piena amicizia (e anche a don Ravasi).

Written by gfrangi

Luglio 16th, 2013 at 9:59 pm

Un pre-sguardo alla Biennale di Gioni

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Non si può dire che Massimiliano Gioni abbia sguardi prevedibili. I nomi annunciati per la prossima Biennale, chiamati a costruire il suo “palazzo enciclopedico” sono in buona parte nomi borderline rispetto al sistema artistico. Nomi di cui francamente conoscevo poco e a volte nulla. Per questo sono andato a curiosare. È una piccola selezione della truppa dei 150 artisti chiamati a tentare il sogno di un museo immaginario, sogno brevettato nel 1955 da Mario Auriti, prototipo dell’artista outsider. Si avverte il filo conduttore di un’arte pensata come pratica esoterica, esercitata in cerchi ristretti, mai preoccupata di imporsi come egemone.

Hilma af Klimt

Hilma af Klimt

Augustine Lesage

Augustine Lesage

Aleister Crowley

Aleister Crowley

Anna Zemánková

Anna Zemánková

Emma Kunz

Guo Fengyi

Emma Kunz

Emma Kunz

Fredrich Schröder-Sonnenst

Fredrich Schröder-Sonnenst

Geta Brătescu

Geta Brătescu

Jean-Frédéric Schnyder

Jean-Frédéric Schnyder

Thierry De Cordier

Thierry De Cordier

Varda Caivano

Varda Caivano

Written by gfrangi

Marzo 19th, 2013 at 11:02 pm

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Cinque domande a Massimiliano Gioni

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Oggi nella caserma (dismessa) XXIV Maggio di via Vincenzo Monti a Milano si inaugura la mostra annuale “nomade” proposta come ormai tradizione da Fondazione Trussardi: protagonista l’artista francese Cipryen Gaillard. Sul senso di questa operazione abbiamo rivolto cinque domande a Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione (oltre che curatore della prossima Biennale di Venezia). Lui gentilmente ha risposto a tutto. (La versione integrale dell’intervista sul prossimo numero di Vita).

Dieci anni di “museo nomade” suggeriscono l’idea che per l’arte contemporanea è meglio non pensare a musei stabili. È d’accordo?
Se vogliamo parlare dell’esperienza della Fondazione Nicola Trussardi dobbiamo partire dal contesto in cui opera. Milano non ha un museo di arte contemporanea e quando nel 2002 è cominciata la mia collaborazione con Beatrice Trussardi e con la Fondazione, volevamo proporre uno schema diverso, pensando appunto alla mancanza di un museo, ma senza la presunzione di colmare questo vuoto. Volevamo invece contribuire a riportare l’attenzione, il dibattito e l’energia dell’arte contemporanea in città, facendo così familiarizzare nuovamente la gente con questo tipo di linguaggio.
Milano ha sempre avuto una spiccata vocazione al contemporaneo, da Leonardo al Futurismo a Fontana e Manzoni, anche se da un certo punto in poi si è concentrata su altro, lasciando un po’ in disparte le arti visive. Partendo da questo bagaglio importante la Fondazione vuole avere però una funzione diversa rispetto a quella di un museo: avvicinare il grande pubblico a un linguaggio, quello dell’Arte Contemporanea, che è più affine di quanto si pensi a quello della vita di tutti i giorni. C’è una specie di disaffezione della gente verso l’arte contemporanea, che spesso è sentita come distante, autoreferenziale, solo per gli addetti ai lavori. Noi abbiamo cercato da subito di creare delle occasioni di incontro con i linguaggi del contemporaneo, a volte proprio di inciampo, e spesso capita – o è capitato soprattutto all’inizio – che i nostri visitatori siano attratti più dal contenitore che dal contenuto, più dall’idea di vedere l’interno di un palazzo, un cinema, una caserma oggi altrimenti inaccessibili e a cui sono in qualche modo legati piuttosto che dal nome di un artista. Quando però si trovano a contatto con le opere in questi luoghi, sono in qualche modo costretti a fare riflessioni che in un museo, con la decontestualizzazione e la sacralità del cubo bianco, non avrebbe potuto fare. È proprio su questo scambio reciproco tra luogo, artista e pubblico che si fonda il nostro lavoro. La risposta, l’affetto e l’attesa crescente per le nostre mostre ci dimostrano che il modello funziona.

Questa caccia alle location per il museo nomade Trussardi è anche un modo per lei di riscoprire le potenzialità della città? C’è un luogo “proibito” in cui sognerebbe fare una mostra in una delle prossime edizioni?
La scelta dei luoghi per le mostre della Fondazione Trussardi, oltre che da motivi di interesse storico e da esigenze pratiche, è mossa da una ricerca di affinità elettive. Come nell’incontro tra parole e musica in una canzone, così luogo e artista in qualche modo si scelgono a vicenda, chiamandosi per indizi di identità. Chi, se non Paul McCarthy, poteva trasformare il sotterraneo di Palazzo Citterio in un labirinto magico e delirante, e chi meglio di Pipilotti Rist poteva ipnotizzarci con la trasformazione onirica del Cinema Manzoni? Non c’è, e non ci può essere, una lista di luoghi possibili. Il prossimo luogo sarà come un oggetto trovato che il destino mette sulla nostra strada. Desiderarne uno in particolare rischierebbe di inceppare questo meccanismo così intrigante.

In dieci anni di storia non ha mai esposto un pittore nel senso “letterale” del termine…
Per la Fondazione e per me non è una questione di generi. Ogni volta che pensiamo a una mostra lo facciamo nell’ottica del miglior rapporto artista-spazio, e l’eterogeneità delle opere presentate in questi dieci anni lo dimostra. Come curatore, poi, lavoro con i pittori così come con tutti gli altri artisti, perché la mia attenzione è sui parametri interni all’opera, concettuali, formali e poetici, e non sul medium di per sé. George Condo, Michael Borremans, Konrad Klapheck, Maria Lassnig sono ad esempio tre dei pittori con cui ho lavorato più spesso, davvero citando a caso. In realtà la ragione purtroppo per cui non abbiamo mai lavorato con un pittore è molto semplice e pratica: di solito lavoriamo in edifici storici, protetti dalle Soprintendenze, dove è impossibile appendere chiodi o forare le pareti (e lo dico senza lamentarmi, anzi). Il che vuole dire che purtroppo i quadri alle pareti non li posso mettere, ma posso mettere sculture e installazioni. Pensate però a 10 anni di mostre a Milano e provate a pensare che non abbiamo mai fatto un buco in una parete, anche per le installazioni piu complicate: tutto rigorosamente autoportante e senza mai modificare in maniera irreversibile un luogo. Questo devo dire è il vero miracolo della Fondazione, per cui devo soprattutto ringraziare Barbara Roncari e Roberta Tenconi che si occupano della produzione e degli allestimenti. Dieci anni senza battere chiodo: sarà il titolo della auto-biografia della Fondazione.

Quest’anno la Fondazione propone una mostra di Cyprien Gaillard. Il titolo evoca un nesso profondo con il periodo storico che stiamo vivendo, ma l’artista sembra mosso da una fascinazione verso tanti simboli decaduti. Quale stimolo o messaggio si augura arrivi al visitatore?
La ricerca di Cyprien Gaillard mostra una visione delle cose del mondo tra la memoria e il futuro, con un lavoro carico di segni di decadenza e rovina, ma anche di ottimismo e novità, e quindi di rivelazioni. Attraverso la Fondazione vogliamo parlare del mondo e dello spirito del tempo in cui viviamo, e da questo punto di vista Cyprien Gaillard porta un contributo originale ed estremamente contemporaneo a questa visione. La continuità tra passato e futuro e la lezione esistenziale che un mondo in rovina, com’è quello di Gaillard, porta con sé, in una città in costante trasformazione e in un momento storico di grande insicurezza com’è questo, possono rappresentare un punto di appoggio, una ristrutturazione dello sguardo del pubblico che potrà orientarsi, una volta accettate le rovine, verso la rivelazione che un futuro diverso è possibile.

Qual è l’opera d’arte del passato a Milano a cui lei si sente affettivamente o intellettualemente più legato?
“I ladri e l’asino” di Paul Cezanne alla Galleria di Arte Moderna: così piccola e bellissima e nessuno se la ricorda. Ma ce ne sono tante altre. I Medardo Rosso, la “Lettrice” di Faruffini, e “Il Quarto Stato”. Tutte legate nel mio ricordo alla Galleria d’Arte Moderna, dove tornavo sempre da ragazzino e all’Università. Ma poi ce ne sono molte di sparse in altri luoghi. Quando il PAC era il PAC, andavo all’ultimo piano di Palazzo Reale così spesso perchè non c’era mai nessuno e i pezzi della Collezione Jucker erano bellissimi. E poi i Marchigiani a Brera… Ecco, comunque ce ne sono troppe di opere importanti per me per riuscire a elencarle tutte o solo provare a fare una scelta.

Written by gfrangi

Novembre 13th, 2012 at 9:41 am