Robe da chiodi

Bacon – Warhol, trittico contro dittico

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Andy Warhol, Silver Car Crash (double disaster), 1969.

Andy Warhol, Silver Car Crash (double disaster), 1969.

Settimana scorsa è stata la settimana i tutti i record alle aste di New York. Ma mi piace sottolineare una coincidenza che tocca le due opere che hanno fatto i risultati più importanti: il Bacon da 140 milioni di dollari e il Warhol da 105. Il Bacon è un Trittico del 1969, con un ritratto di Lucien Freud. Wharol è il Silver Car Crash (double disaster), 1969. Quel “double” richiama il fatto che la grande tela di Warhol è in realtà un dittico, composto a sinistra con la serigrafia ripetuta in varianti sempre più tragiche dello scontro, mentre a destra c’è un’analoga tela bianca, striata di macchie nerastre. È una struttura a dittico, in cui il pieno ossessivo di sinistra chiede la compensazione del vuoto meditativo e tragico della tela di destra. È impressionante come i grandi del 900 sentano il bisogno di poggiarsi sulla certezza di soluzioni compositive del passato. Anche il grande disordine ha bisogno di un ordine per esprimersi.

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Novembre 18th, 2013 at 11:57 am

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Ferdinando Bologna, lezione su Antonello

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Antonello, le mani del Cristo benedicente, Londra, National Gallery

Antonello, le mani del Cristo benedicente, Londra, National Gallery

È una lettura preziosa e imperdibile la lunga intervista a Ferdinando Bologna, che sostituisce il saggio di catalogo per la mostra di Antonello a Rovereto (Electa, a 30 euro se comperato online). È il co-curatore, Federico De Melis, a firmarla, costruendo un dialogo serrato, a tratti anche accanito, il cui metodo è quello di non lasciare mai nulla nel vago. È un’intervista molto ben costruita, che per quanto ardua nella fitta rete di rimandi e di riferimenti, procede con grande chiarezza, rimontando la vita di Antonello sull’asse della cronologia. Ma soprattutto è un’intervista che ponendo tutte le questioni chiave relative alla figura del grande artista siciliano, diventa occasione per Ferdinando Bologna di fare uno straordinario esercizio critico ma anche intellettuale, dimostrando passo passo la tenuta e la coerenza della propria lettura di Antonello. Che poi diventa una lettura (molto affascinante) di come funzionavano il meccanismi del fare arte nell’Italia di quegli straordinari decenni. Dice Bologna: «Non abbiamo ancora un quadro dettagliato e storicamente attendibile di come gli artisti si spostassero nel Quattrocento: è sicuro però che facevano viaggi di lavoro più spesso di quanto possiamo immaginare e durante questi viaggi si informavano sui fatti figurativi all’ordine del giorno. Un pittore sveglio e prensile come Antonello non si lasciava certo sfuggire, al contrario cercava con vivissima voglia, le occasioni di arricchimento e il Piero della Francesca ultima maniera, è impensabile che non andasse a cercarselo, e, per così dire a stanarlo» (il riferimento è in particolare alla pala di Brera, originariamente ad Urbino, vista verosimilimente da Antonello nel viaggio verso Venezia).
Con Antonello, dice Bologna, «ci troviamo di fronte a un maestro dall’orizzonte intellettuale molto complesso. Egli rappresenta una sfida dal punto di vista metodologico, perché mentre avanza riconsidera e rielabora le fasi precedenti, e mentre sembra attardarsi anticipa motivi che secondo schema dovrebbero intervenire in un secondo momento».
Naturalmente al cuore di questo percorso c’è la questione del rapporto con Piero della Francesca; rapporto che non si può poggiare su elementi documentari, ma che trova evidenze decisive nella lettura «sintattica e strutturale dei testi figurativi» (contro le recenti letture impressionistiche). È una lettura che arriva rintracciare e riconnettere in modo coerente tutti gli input che avevano fatto di Antonello l’artista più “connesso” del suo tempo.
Il catalogo presenta anche un’altra soluzione molto innovativa: il percorso della fortuna di Antonello, curato da Simone Facchinetti, realizzata con brevi testi e attraverso comprensibilissime immagini di confronto. Unz soluzione che speriamo faccia scuola…
PS: sarà proprio Simone Facchinetti a guidare la visita organizzata alla mostra da Associazione Testori per il prossimo 7 dicembre. Qui i particolari.

Written by gfrangi

Novembre 18th, 2013 at 11:43 am

Paci, Kjartansson, Roth: ovvero l’arte orizzontale

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Mi chiedo se non ci sia un filo conduttore tra le mostre, molto belle, di Adrian Paci al Pac e quelle di Ragnar Kjartansson e Dieter Roth all’Hangar Bicocca. Un filo conduttore potrebbe essere quell’attenzione all’umano, nel momento in cui l’umano transita da una condizione ad un’altra. Vite in transito è non a caso il titolo della mostra di Paci. Anche l’installazione musicale di Kjartansson racconta di un’esperienza di transizione: la fine del suo matrimonio. Esperienza vissuta in modo del tutto insolito, in quanto il testo messo in musica è stato scritto proprio da colei dalla quale stava staccandosi.

Adrian Paci, sequenza da The Circle

Adrian Paci, sequenza da The Circle

Paci scruta l’umano con una delicatezza e un rispetto che ne fanno uno degli artisti più morali del nostro tempo. Mi ha colpito il video, che si sviluppa su quattro schermi, The last gestures: Paci con immagini rallentate documenta volti e sentimenti nel momento in cui una sposa albanese lascia la sua casa. Paci chiede alle immagini di seguire l’intensità affettiva di quel momento di “transito”. Ma sono delicatissime in The circle le immagini riprese tra le assi della steccionata delle gambe della donna e di quelle del cavallo che nel recinto costruiscono la loro simbiosi. E sfuggono da ogni prepotenza visiva anche le opere dipinte, che vibrano come immagini che stanno sfocando per la lontananza.

Kjartansson, uno dei nove schermi di Tha Visitors

Kjartansson, The Visitors


Kjartansson dispone i suoi amici musicisti in nove stanze della grande villa americana. Ognuno canta o suona da solo, ma nelle cuffie è colleagto al suono degli altri e così da tante solitudini si riforma un’armonia di gruppo. Kjartansson mette molta empatia nel documentare sui nove schermi il crescere di un insieme, un senso di condivisione che poco alla volta si mostra più forte, più intenso della separatezza imposta dai muri. Ha spiegato Kjartansson: «Mi fa piacere che ci sia stata tanta unione anche se le riprese erano solitarie: ognuno era fragile e solo e questa è come siamo fatti, è la condizione umana perché noi siamo fatti così. Come mi disse mio padre una volta a Natale, è triste e bellissimo essere uomini»

Dieter Roth, il pavimento dello studio, esposto a Milano

Dieter Roth, il pavimento dello studio, esposto a Milano


E non è da perdere neppure la mostra di Dieter Roth, che si è aperta sempre all’Hangar Bicocca. Sono il figlio ed i nipoti ad averla allestita, in una continuità fluida del fare arte che tracima oltre la biografia del suo iniziatore (Roth è morto nel 1998). Si procede per accumulo, confidando nella deperibilità dei manufatti come criterio selettivo. In realtà non è sempre così e ci sono risultati che spiccano per qualità e intensità: tutta la serie, ricca di varianti di Piccadilly, e le grandi teche che compongono i vestiti da lavoro dell’artista. L’insieme comunque comunica un senso di casualità, da cui sbucano qua e là frammenti gratuiti di poesia.

È certo che il nostro tempo è contrassegnato da un’arte molto orizzontale, in cui l’artista si sfila da una posizione super omnes, rifiuta programmaticamente i piedistalli e si allinea al punto di vista (o meglio, al punto “di vita”) di chi osserva. In un certo senso, per strade differenti, Paci, Roth e Kjartansson cercano tutti una coralità. È un’arte che rinuncia alla potenza, che il più possibile si nasconde dietro le quinte. Comunque la si giudichi, è un interessante antidoto ad una civiltà assediata da guru e da star.

Written by gfrangi

Novembre 10th, 2013 at 10:34 pm

Il romanico made in Angelo

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Sfoglio un libro che un amico, che da poco ci ha lasciati, mi aveva regalato un paio d’anni fa. Un libro che a riprenderlo in mano mi sembra uno specchio nitido di quello che lui è stato. Si intitola Pietre color delle acque e ripercorre i gioielli del romanico nel territorio del lago di Como. Sfogliandolo, capisco che per chi l’aveva scritto, l’amico Angelo Sala, questa era una questione d’amore: amore per quelle pietre e per la loro storia, amore per chi le aveva immaginate prima e poi messe una sull’altra con un senso di armonia che rende leggero il loro peso. È un romanico lieve come un canto quello lariano. È un romanico “chiaro” e mai cupo. Un romanico pacificato.
È l’amore alle cose che aiuta a farne capire la bellezza anche agli altri. E questo il libro di Sala lo trasmette pagina per pagina, immagine per immagine. Mi piace rileggere l’inizio, inevitabilmente manzoniano, che con un trasporto pieno di orgoglio, spiega l’origine degli autori di quelle meravigliose perle che si specchiano nel più bel lago che (per me) ci sia. «Il territorio compreso tra il Lario e il Ceresio è il luogo di origine di quei lavoranti edili, capimuratori e scalpellini, poi divenuti architetti e scultori, che dai tempi più remoti del Medioevo andarono diffondendosi in tutta la penisola e in diverse parti d’Europa, cumulativamente noti sotto la denominazione di maestri comacini».
Vedere associate categorie così “manuali” ai gioielli che scorrono tra le pagine, dice tutto della natura di questi edifici, di quella bellezza che si dispiega sempre nella massima semplicità delle soluzioni costruttive. Sono la riprova di cosa possa nascere da una “mano che pensa”, per riprendere la magnifica formula coniata da Richard Sennett.
Ma devo ad Angelo un tuffo in quello che è una delle architetture che sin da quando l’ho vista da ragazzo mi è sempre rimasta impressa nella memoria. È la chiesa di santa Maria del Tiglio di Gravedona, così elementare, così snella nella sua possanza. E anche così eclettica per quel variare di stile tra facciata e torre del campanile (nella foto). Ma quel che è indimenticabile è l’interno, giustamente fotografato a doppia pagina, con un’aula unica, altissima, massiccia, con i muri che si alzano indisturbati e padroni dello spazio. Non ci sono quasi finestre, per dare più stabilità all’edificio, o forse per dargli più forza. Potente e insieme famigliare.
Poi da Gravedona di pietra in pietra Angelo mi ha portato anche a Lasnigo, al campanile di Sant’Alessandro, quello che per Testori era l’ombelico del mondo: il paese di sua mamma. Il san Lisander attorno al quale immagina l’ultimo suo testo, la stupenda Mater Strangosciàs…

Written by gfrangi

Novembre 6th, 2013 at 11:34 pm

Pasolini, san Giuseppe e la Giovinezza

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Pier Paolo Pasolini, San Giuseppe con Gesù Bambino, 1942, olio su cartone

Pier Paolo Pasolini, San Giuseppe con Gesù Bambino, 1942, olio su cartone

Questo articolo è stato scritto per la rubrica Riquadri su Piccolenote.it

Era morto nel giorno dei morti di 38 anni fa. Ma il tempo anziché allontanarlo da noi sembra renderlo sempre più vicino e necessario. Pasolini è stato un intellettuale vero proprio perché tutti noi sentiamo la necessità di leggerlo per capire non il suo tempo, ma il nostro. Pasolini, insomma, è uno dei pochissimi sempre sul pezzo. Personalmente ritengo Scritti Corsari uno dei libri a cui non rinuncerei mai. E personalmente ho avuto la fortuna di incrociare (metaforicamente) Pasolini nel realizzare una appassionante mostra a Casa Testori, a Novate Milanese, due anni fa, sulla sua attività pittorica. PPP era infatti uomo vorace di vita, e tutti i mezzi per lui erano buoni per esprimere i suoi amori e le sue inquietudini. Tra gli altri mezzi ci fu anche la pittura, sulla quale fu molto assiduo negli anni friulani (sino al 1950) e poi negli ultimi dieci anni della sua vita. Era pittore per se stesso e per gli amici, quindi usava carta, matite, tele e pennelli come una sorta di dialogo privato, di confessione di quei sentimenti che voleva tenere al riparo dalla macchina dei media. Ebbene, preparando la mostra di Novate, abbiamo avuto la possibilità di indagare negli archivi custoditi al gabinetto Viessieux di Firenze. E tra le sorprese è emerso anche questo piccolo olio su cartone, che rappresenterebbe San Giuseppe con Gesù Bambino. Il condizionale è d’obbligo perché non esistono documenti che identifichino il tema. Ma con ogni probabilità il tema è quello: PPP infatti nel 1942 stava lavorando al progetto di una chiesetta che avrebbe dovuta essere costruita a Casarsa appena la guerra lo avrebbe permesso: “Ecclesiae Reginae Martyrum Dicata” si trova infatti scritto in alcune sue carte. Probabilmente questo è un bozzetto per un’immagine da dipingere al suo interno. Vi si vede un Giuseppe che mette il suo braccio sulle spalle di Gesù, rivolgendo su di lui un sguardo denso di senso paterno. Gesù, dal canto suo, scruta il mondo con quegli occhi che PPP immaginava già teneri e sempre spalancati sulla vita. Sul retro del disegno una dedica secca e bellissima, “per la Giovinezza”. Proprio con la “G” maiuscola. Un altro titolo per questo quadretto così sobrio, così imprevisto, così pieno di struggimento.

Written by gfrangi

Novembre 2nd, 2013 at 10:21 am

De Pisis e Morandi, gli opposti destini

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De Pisis, Piazza san Marco durante la guerra

De Pisis, Piazza san Marco durante la guerra


Come si tira De Pisis fuori dal buco?
Un pomeriggio a Parma per vedere la mostra su Filippo De Pisis alla Magnani. Povero De Pisis resta sempre prigioniero di un mondo piccolo, che lo chiude sempre dentro i soliti rapporti e nei soliti perimetri. La mostra di Parma, per quanto non deluda nella scelta delle opere, delude per quella sciatteria che non fa uscire De Pisis dal solito copione. Basti pensare ai pannelli fitti fitti, realizzati con una grafica pedestre (e siamo nella città che sta celebrando Bodoni…) senza neanche la sana ambizione di metterli in inglese. Rivisto dopo tanto tempo invece De Pisis, nella sua irrequietezza, si rivela capace di intuizioni e sollecitazioni che vanno ben oltre il copione. I suoi paesaggi sono proiezioni mentali acuminate come se fossero dipinte con gli spilli; i cieli sono pressati e come schizzati di fango; gli uomini sono mosconi che sbattono da un angolo all’altro della tela senza pace. Ragionavo di come si potrebbe fare una mostra che tiri fuori dal buco De Pisis. Forse metterlo in relazione con i paesaggi di Giacometti. Forse immaginarlo come punto di una transizione che da Manet porta a Cy Twombly.
Annoto due quadri meravigliosi: Piazza san Marco in tempo di guerra, con la basilica che va in polvere e una senzione di un’apocalisse senza squilli di trombe. L’altro è il ritratto di donna della collezione Jesi, degli anni di Villa Fiorita. Povera, disperata, spinta nel basso della tela, un volto, uno sguardo di una densità umana indimenticabile.

Morandi, Veduta di via Fondazza

Morandi, Veduta di via Fondazza

Morandi fa blocco
Al piano di sopra della Magnani, esposto con stile un po’ ottocentesco, c’è il gruppo dei Morandi, che lascia di stucco. Più lo rivedi e più capisci come la mai esplicitata solidità concettuale sia alla radice della sua grandezza. Lui inganna con una pittura suprema, ma intanto la vera partita la sta giocando su un altro piano. I suoi quadri fanno sempre blocco, sono forme in cui ciò che viene rappresentato sembra solo incidentale. Più che quadri andrebbero chiamati “fatti pittorici”. Meraviglioso la veduta di via Fondazza, con un terzo di tela, a sinistra, occupato dalla superficie monotona e piatta del muro. Che ci sta a fare quel muro? A ricordarci che la pittura ha natura propria e non ha bisogno di rappresentare o di esprimere alcunché per esistere. Nella sala a fianco, il pur meraviglioso De Staël con veduta sulla Senna, al paragone sembra ancora un quadro dipinto…

Il riposo della Cattedrale
La sera a Parma, in piazza Duomo. Pochissima gente, le luci sembrano quelle di un teatro che non ha bisogno di spettatori: Bisognerebbe vederla e raccontarla quest’Italia delle silenziose meraviglie notturne. Non so com’è, ma la sensazione è che quelle creature di pietra riposino, finalmente. Ed è bellissimo avere il privilegio di vederle riposare.

Written by gfrangi

Ottobre 27th, 2013 at 9:49 pm

Tra Scarpa e Mantegna, soprassalti veronesi

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La scala di Scarpa alla sede del banco Popolare di Verona. Foto Archisquare.it

La scala di Scarpa alla sede del banco Popolare di Verona. Foto Archisquare.it

Giovedì mattina. Appuntamento di prima mattina al Banco Popolare di Verona, quella su Piazza Nogara, ultimo progetto di Carlo Scarpa, 1976. Vista più volte dalla piazza, ma il messo il piede dentro. Invece lo spettacolo è dentro, con ambienti che ti sfilano sotto i piedi e davanti agli occhi con una varietà a cui non si riesce a tener dietro. L’occhio è conteso dalla perfezione dei particolari e dal continuo mutare degli spazi a seconda dal punto in cui li si guarda. Ma su tutto, la meraviglia di una scala elicoidale, con i parapetti finiti a stucco lucido, color aragosta e corrimano in esente di legno pregiato. Si solleva perfetta, ampia, flessuosa, elegante come una strepitosa collana, con cui ci si sia concessi un assoluto tocco di classe. Salirla è un’esperienza. Aveva spiegato Scarpa: «Ho cercato di fare delle scale una specie di passeggiata nello spazio…». In effetti è una scala che non scende, sale sempre e soltanto. Chapeau.

Prima di ripiombare a Milano, una puntata a San Zeno. Lo spazio della chiesa è quello che ricordavo: meraviglioso, dolce per le textures rosate dei muri e vertiginoso nello stesso tempo, nonostante i tanti innesti subiti secolo dopo secolo. Il soffitto trecentesco a carena lo chiude come delicato coperchio. Ma su tutto, in fondo al presbiterio rialzato, domina la sassata del Polittico di Mantegna. Le signore che solerti stanno facendo le pulizie mi lasciano passare oltre il cordone. Da sotto si scoprono i piccoli squarci di cielo, che riesce ad essere cupo per quanto sereno, ritagliati nelle cornici di marmo. I corpi sembrano incavati a forza nella tavola; la luce che arriva da destra, è una luce “oscura”. Più che di una composizione si ha l’impressione di un vero assedio dello spazio della tavola. Mantegna dipinge con la determinazione feroce di chi sta compiendo un’occupazione armata. Non fosse equivocabile il paragone, direi che c’è in lui un qualcosa di terroristico. Comunque grandissimo.

A sinistra, prima di scendere dal presbiterio, ci aspetta l’antica statua di San Zeno che ride. Un santo che se la gode…

Written by gfrangi

Ottobre 21st, 2013 at 9:29 pm

Il momento dei maestri/2. Il maestro dei Maestri del Colore

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Inizia a Casa Testori una mostra assolutamente originale, come devono esserlo le cose che vengono presentate in quel luogo. 4 curatrici per 4 maestri, sono in realtà quattro mostre in altrettante zone in cui è stata divisa la Casa. Le curatrici, casualmente tutte donne, sono dottorande nelle università milanesi che hanno accettato la sfida di fare delle loro tesi dei percorsi espositivi fruibili da un pubblico largo. Il mix dei “maestri” è sorprendente: si va da Aldo Rossi (a tema il suo pensiero sull’abitare, a cura di Claudia Tinazzi), a Giacomo Pozzi Bellini (fotografo trasversale di una stupenda Italia, da Giovanni Pisano a Sofia Loren, a cura di Carlotta Crosera), a Guido Guidi (fotografo con una dedizione quasi religiosa nei confronti di Carlo Scarpa, a cura di Giulia Lambertini). La quarta mostra è forse la più inattesa: è dedicata ad Alberto Martini, a cura di Federica Nurchis, il geniale inventore dei Maestri del Colore, la collana di Fabbri che negli anni 60 ebbe un successo clamoroso ed ebbe un ruolo fondamentale nell’alfabetizzazione artistica dell’Italia. È bellissimo scoprire come alle spalle di Martini e del suo tentativo ardito (c’era da fotografare tutto a colori, migliaia di immagini da scattare in ogni angolo del mondo) ci fosse Roberto Longhi. Era stato lui a incoraggiarlo e a fare da garante rispetto all’editore: segno di quanto fosse urgente per lui la necessità di fare buona e larga divulgazione. Longhi è stato un grande storico anche per questo suo sguardo sempre aperto sul presente (leggasi le pagine finali dell’introduzione alla mostra di Caravaggio). Divulgazione è cosa diversa da pedagogia: non è un inculcare ma è un mettere a disposizione strumenti. E i Maestri del colore, con il loro formato grande (35,5 x 27 cm) che ne faceva una sorta di pinacoteca casalinga, la loro architettura chiarissima, i testi di qualità, e soprattutto – come Longhi aveva chiesto – le foto a colori (colori che nella stragrande maggioranza dei casi non si erano mai visti), sono un modello straordinario di strumento messo a disposizione di tutti. Non perdetevi questa mostra e le sue tre “sorelle”!

Written by gfrangi

Ottobre 13th, 2013 at 9:25 pm

Il momento dei maestri/1. Albers, l’arte per tentativi

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Ho visto nella doppia sede dell’Accademia di Brera e della Fondazione delle Stelline le mostre su Josef Albers. Ottima occasione per riscoprire un personaggio che incrocia tanti grandi protagonisti del 900 (basta scorrere l’elenco dei personaggi che andarono a seguire o ascoltare le sue lezioni negli anni di Black Mountain per rendersene conto). Ma è un personaggio che per sua stessa scelta non ha mai cercato il proscenio e la cui importanza sta emergendo soprattutto in questi anni. Di Albers colpisce soprattutto questa sorta di pudore che lo porta a concepire l’esperienza artistica come un continuo esercizio. Un cammino coerente e paziente, svuotato da ogni retorica e da ogni pretesa di dire parole definitive. Il cuore di Albers è nell’insegnamento, un insegnamento che lui concepisce come un imparare («Imparare è sempre meglio che insegnare perché è più intensivo: più insegniamo, meno gli studenti possono imparare»). È questo aspetto che è al centro della mostra di Brera, ma che è una chiave per capire tutto Albers, il più interessante e anche appassionante. Insegnare per lui non è indicare una strada, ma stimolare ciascuno a trovare la sua strada. Lui insegnando, lascia sempre fare. Si ritrae. E così è anche il suo essere artista, in cui osservazione prevale sempre sull’espressione di sé: ne sono testimonianza i titoli, a volte così indicativi, di alcuni dei suoi Omaggi al quadrato, che dichiarano cosa abbia innescato l’opera. E si tratta sempre di frammenti di realtà, di istanti di luce, di situazioni. Con vero spirito Bauhaus Albers ha pudore nell’enunciare la parola “arte”. La sua “arte” in effetti è un qualcosa che spesso sembra coincidere con le sue strategie didattiche, nel senso che l’attività artistica è attività didattica rivolta verso se stesso. Un’attività che in catalogo viene definita giustamente «viaggio di esplorazione stimolante e continuamente in evoluzione».
Forse l’eccessiva insistenza nei saggi sulla sua appartenenza cattolica non giova e neanche spiega. Non giova perché rischia di metterlo in una nicchia. E non spiega perché giustamente Albers non fa mai una traduzione meccanica della sua esperienza di fede nelle sue opere. La lascia affiorare con segno lieve qua e là (stupenda la sua Croce bianca, 1937), ma non ne fa un sistema, neanche quando negli ultimi anni inizia le sue ricerche sul quadrato. Dove prevale sempre l’inesausta curiosità del ricercatore sulle varianti dei colori e non l’ansia ascetica di approdare alla forma perfetta.

Written by gfrangi

Ottobre 13th, 2013 at 9:19 pm

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Michelangelo, una rivincita a Milano

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Michelangelo, La Pietà Rondanini, particolare

Michelangelo, La Pietà Rondanini, particolare. Foto di Giovanni Dall’Orto

C’erano più di 800 persone martedì alla presentazione del ciclo sulla Vita di Michelangelo organizzato dal Fai su proposta e progetto di Giovanni Agosti A parlarne lo stesso Agosti, Jacopo Stoppa e Stefano Boeri. A parte il dispiacere personale di non poter seguire un percorso così (27 appuntamenti che percorrono tutta la vita di Michelangelo, qui il programma), per via di incompatibilità con orari di lavoro, a parte l’invito a chi può di non perdere un’occasione così, mi venivano due considerazioni.
Oggi un format di questo tipo, rappresenta qualcosa di molto innovativo, di coraggioso e non scontato. Conferma di richiamare un pubblico largo, fa formazione e divulgazione, propone un percorso che costruisce vera conoscenza e non conoscenza spot, ed è un’opportunità per chi studia di diffondere il proprio sapere e di verificare la propria capacità divulgativa. Dove voglio arrivare? Che questa è una pratica intelligente alternativa al rito sempre più stanco e insulso delle mostre. Immaginare cioé dei percorsi, che come è dimostrato sono capaci di grande impatto sul pubblico, e che magari si concludano con una mostra, anche piccola, ma che diventa “grande” e importante proprio per il percorso che l’ha originata.
A Milano (ed è la seconda considerazione che volevo fare) ad esempio questo corso avrebbe potuto concludersi idealmente con quella stupenda iniziativa che Stefano Boeri aveva immaginato e messo a punto e che la giunta Pisapia, dopo il suo allontanamento, ha disgraziatamente messo da parte: l’esposizione temporanea della Pietà Rondanini a San Vittore. Era una grande sfida, di quelle capaci di scuotere una città, di ridarle vigore civile, di affermarne un’immagine più interessante e dinamica nel mondo. Oltre che di ricordare a tutti quell’impressionante capolavoro che giace semi dimenticato. A chi pensasse che Michelangelo oggi sia qualcosa di estraneo alla città, quegli 800 nell’Aula Magna della Statale sono la migliore risposta.

Written by gfrangi

Ottobre 6th, 2013 at 8:45 am