Ho visto nella doppia sede dell’Accademia di Brera e della Fondazione delle Stelline le mostre su Josef Albers. Ottima occasione per riscoprire un personaggio che incrocia tanti grandi protagonisti del 900 (basta scorrere l’elenco dei personaggi che andarono a seguire o ascoltare le sue lezioni negli anni di Black Mountain per rendersene conto). Ma è un personaggio che per sua stessa scelta non ha mai cercato il proscenio e la cui importanza sta emergendo soprattutto in questi anni. Di Albers colpisce soprattutto questa sorta di pudore che lo porta a concepire l’esperienza artistica come un continuo esercizio. Un cammino coerente e paziente, svuotato da ogni retorica e da ogni pretesa di dire parole definitive. Il cuore di Albers è nell’insegnamento, un insegnamento che lui concepisce come un imparare («Imparare è sempre meglio che insegnare perché è più intensivo: più insegniamo, meno gli studenti possono imparare»). È questo aspetto che è al centro della mostra di Brera, ma che è una chiave per capire tutto Albers, il più interessante e anche appassionante. Insegnare per lui non è indicare una strada, ma stimolare ciascuno a trovare la sua strada. Lui insegnando, lascia sempre fare. Si ritrae. E così è anche il suo essere artista, in cui osservazione prevale sempre sull’espressione di sé: ne sono testimonianza i titoli, a volte così indicativi, di alcuni dei suoi Omaggi al quadrato, che dichiarano cosa abbia innescato l’opera. E si tratta sempre di frammenti di realtà, di istanti di luce, di situazioni. Con vero spirito Bauhaus Albers ha pudore nell’enunciare la parola “arte”. La sua “arte” in effetti è un qualcosa che spesso sembra coincidere con le sue strategie didattiche, nel senso che l’attività artistica è attività didattica rivolta verso se stesso. Un’attività che in catalogo viene definita giustamente «viaggio di esplorazione stimolante e continuamente in evoluzione».
Forse l’eccessiva insistenza nei saggi sulla sua appartenenza cattolica non giova e neanche spiega. Non giova perché rischia di metterlo in una nicchia. E non spiega perché giustamente Albers non fa mai una traduzione meccanica della sua esperienza di fede nelle sue opere. La lascia affiorare con segno lieve qua e là (stupenda la sua Croce bianca, 1937), ma non ne fa un sistema, neanche quando negli ultimi anni inizia le sue ricerche sul quadrato. Dove prevale sempre l’inesausta curiosità del ricercatore sulle varianti dei colori e non l’ansia ascetica di approdare alla forma perfetta.