Robe da chiodi

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Il romanico made in Angelo

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Sfoglio un libro che un amico, che da poco ci ha lasciati, mi aveva regalato un paio d’anni fa. Un libro che a riprenderlo in mano mi sembra uno specchio nitido di quello che lui è stato. Si intitola Pietre color delle acque e ripercorre i gioielli del romanico nel territorio del lago di Como. Sfogliandolo, capisco che per chi l’aveva scritto, l’amico Angelo Sala, questa era una questione d’amore: amore per quelle pietre e per la loro storia, amore per chi le aveva immaginate prima e poi messe una sull’altra con un senso di armonia che rende leggero il loro peso. È un romanico lieve come un canto quello lariano. È un romanico “chiaro” e mai cupo. Un romanico pacificato.
È l’amore alle cose che aiuta a farne capire la bellezza anche agli altri. E questo il libro di Sala lo trasmette pagina per pagina, immagine per immagine. Mi piace rileggere l’inizio, inevitabilmente manzoniano, che con un trasporto pieno di orgoglio, spiega l’origine degli autori di quelle meravigliose perle che si specchiano nel più bel lago che (per me) ci sia. «Il territorio compreso tra il Lario e il Ceresio è il luogo di origine di quei lavoranti edili, capimuratori e scalpellini, poi divenuti architetti e scultori, che dai tempi più remoti del Medioevo andarono diffondendosi in tutta la penisola e in diverse parti d’Europa, cumulativamente noti sotto la denominazione di maestri comacini».
Vedere associate categorie così “manuali” ai gioielli che scorrono tra le pagine, dice tutto della natura di questi edifici, di quella bellezza che si dispiega sempre nella massima semplicità delle soluzioni costruttive. Sono la riprova di cosa possa nascere da una “mano che pensa”, per riprendere la magnifica formula coniata da Richard Sennett.
Ma devo ad Angelo un tuffo in quello che è una delle architetture che sin da quando l’ho vista da ragazzo mi è sempre rimasta impressa nella memoria. È la chiesa di santa Maria del Tiglio di Gravedona, così elementare, così snella nella sua possanza. E anche così eclettica per quel variare di stile tra facciata e torre del campanile (nella foto). Ma quel che è indimenticabile è l’interno, giustamente fotografato a doppia pagina, con un’aula unica, altissima, massiccia, con i muri che si alzano indisturbati e padroni dello spazio. Non ci sono quasi finestre, per dare più stabilità all’edificio, o forse per dargli più forza. Potente e insieme famigliare.
Poi da Gravedona di pietra in pietra Angelo mi ha portato anche a Lasnigo, al campanile di Sant’Alessandro, quello che per Testori era l’ombelico del mondo: il paese di sua mamma. Il san Lisander attorno al quale immagina l’ultimo suo testo, la stupenda Mater Strangosciàs…

Written by gfrangi

Novembre 6th, 2013 at 11:34 pm