Mi chiedo se non ci sia un filo conduttore tra le mostre, molto belle, di Adrian Paci al Pac e quelle di Ragnar Kjartansson e Dieter Roth all’Hangar Bicocca. Un filo conduttore potrebbe essere quell’attenzione all’umano, nel momento in cui l’umano transita da una condizione ad un’altra. Vite in transito è non a caso il titolo della mostra di Paci. Anche l’installazione musicale di Kjartansson racconta di un’esperienza di transizione: la fine del suo matrimonio. Esperienza vissuta in modo del tutto insolito, in quanto il testo messo in musica è stato scritto proprio da colei dalla quale stava staccandosi.
Paci scruta l’umano con una delicatezza e un rispetto che ne fanno uno degli artisti più morali del nostro tempo. Mi ha colpito il video, che si sviluppa su quattro schermi, The last gestures: Paci con immagini rallentate documenta volti e sentimenti nel momento in cui una sposa albanese lascia la sua casa. Paci chiede alle immagini di seguire l’intensità affettiva di quel momento di “transito”. Ma sono delicatissime in The circle le immagini riprese tra le assi della steccionata delle gambe della donna e di quelle del cavallo che nel recinto costruiscono la loro simbiosi. E sfuggono da ogni prepotenza visiva anche le opere dipinte, che vibrano come immagini che stanno sfocando per la lontananza.
Kjartansson dispone i suoi amici musicisti in nove stanze della grande villa americana. Ognuno canta o suona da solo, ma nelle cuffie è colleagto al suono degli altri e così da tante solitudini si riforma un’armonia di gruppo. Kjartansson mette molta empatia nel documentare sui nove schermi il crescere di un insieme, un senso di condivisione che poco alla volta si mostra più forte, più intenso della separatezza imposta dai muri. Ha spiegato Kjartansson: «Mi fa piacere che ci sia stata tanta unione anche se le riprese erano solitarie: ognuno era fragile e solo e questa è come siamo fatti, è la condizione umana perché noi siamo fatti così. Come mi disse mio padre una volta a Natale, è triste e bellissimo essere uomini»
E non è da perdere neppure la mostra di Dieter Roth, che si è aperta sempre all’Hangar Bicocca. Sono il figlio ed i nipoti ad averla allestita, in una continuità fluida del fare arte che tracima oltre la biografia del suo iniziatore (Roth è morto nel 1998). Si procede per accumulo, confidando nella deperibilità dei manufatti come criterio selettivo. In realtà non è sempre così e ci sono risultati che spiccano per qualità e intensità: tutta la serie, ricca di varianti di Piccadilly, e le grandi teche che compongono i vestiti da lavoro dell’artista. L’insieme comunque comunica un senso di casualità, da cui sbucano qua e là frammenti gratuiti di poesia.
È certo che il nostro tempo è contrassegnato da un’arte molto orizzontale, in cui l’artista si sfila da una posizione super omnes, rifiuta programmaticamente i piedistalli e si allinea al punto di vista (o meglio, al punto “di vita”) di chi osserva. In un certo senso, per strade differenti, Paci, Roth e Kjartansson cercano tutti una coralità. È un’arte che rinuncia alla potenza, che il più possibile si nasconde dietro le quinte. Comunque la si giudichi, è un interessante antidoto ad una civiltà assediata da guru e da star.