Robe da chiodi

Quel pasticciaccio su Michelangelo

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locandina3Non so per quali bizzarri percorsi mentali si possa aver accostato il nome di Michelangelo a questo crocefisso presenetato ieri alla Università Lateranense di Roma. Un Michelangelo che imponga una smorfia, seppur di dolore, come quella di questo crocifisso, così elegantemente illanguidito è davvero difficile immaginarlo (per la cronaca: il comunicato stampa spiega che «Umberto Baldini, responsabile dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, espertizzò 30 anni fa per incarico dello Stato italiano un Cristo Ligneo attribuito a Michelangelo Buonarroti, che fu ritrovato in Libano nel Patriarcato Greco Melkita Cattolico»). Ma quello che ben più imbarazza sono i pensieri che sono stati associati, nell’occasione, a quest’opera. Si parla di «questa opera non come un Cristo ma come IL CRISTO, per i suoi rimandi teologici, filosofici, religiosi, anatomici e metrologici». Sino a dire che «sembra possibile l’identificazione finale di Michelangelo con Cristo». Quando invece Michelangelo, mantenendo saggiamente ben distinti i ruoli, si effigiò nei panni di Nicodemo che sorregge il Signore, nel gruppo che aveva pensato per la sua tomba e che invece interruppe rovinosamente (è la Pietà Bandini, oggi al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze). Nel suo percorso tormentato e drammatico, Michelangelo non perde mai di vista la realtà oggettiva e non simbolica di Cristo, senza mai mettergli davanti quell’”il” che riduce la persona a simbolo.

Davvero impressionante la deriva di goffaggine di tanta cultura cattolica. Alla presentazione c’era anche monsignor Rino Fisichella. Ci piace ricordargli quel che scriveva Il Sabato in un lontano editoriale del 1991: «Pare un particolare insignificante, ingenuo. E certo lo è nell’intenzione di chi lo pronuncia. Ma oggettivamente c’è un abisso. L’abisso che separa, nel pensiero e nella fraseologia gnostiche, Gesù di Nazareth, fatto storico, da “il Cristo”. Dove “il Cristo” sta per una divinità superiore ed informe che nel cristianesimo prende accidentalmente le sembianze di Gesù di Nazareth, e in altre religioni o civiltà può indifferentemente assumere altri volti storici».

Written by giuseppefrangi

Marzo 31st, 2009 at 11:56 pm

Morandi, «avventuriero dentro» (i pro e qualche contro per la mostra di Bologna)

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Bella recensione di Barbara Cinelli alla mostra bolognese di Morandi su Alias, “Lo sparigliamento del monaco pittore” (sabato 28 marzo). La Cinelli sottolinea, catalogo alla mano, come la mostra bolognese sia stata sacrificata rispetto alla versione  newyorkese dal venir meno di molti prestiti, soprattutto nelle sale iniziali (la cosa curiosa è che si tratta tutti di prestiti italiani). La lettura della mostra avviene sulle tre direttrici dei rapporti di Morandi con altrettanti critici. Longhi, ovviamente, innanzitutto (sua la metafora del monaco, o dell’«austero viandante», «capace di attingere, in forza di virtù proprie alla perennità delle forme»). Il secondo è Ludovico Ragghianti, che raccomandava di guardare alle serie di Morandi come opere allineate in «costellazione», e non come variazioni, termine che allude all’esistenza di un prototipo e di una gerarchia a scendere (la forza della mostra è quella di aver seguito questo criterio espositivo). Infine Francesco Arcangeli, dalla cui collezione viene una cupissima, stupenda Natura morta con conchiglia non presente, chissà perché, in catalogo: Arcangeli cerca di piegare Morandi verso l’informale, facendo del male a se stesso come dimostrò la sfortunatissima vicenda del suo libro. Ma ci colse nel sorprendere l’“emilianità” di Morandi, come succede nel ricordo delle ripetute visite con il pittore alla mostra di Guido Reni del 1955. Morandi restava incantato, riferisce la Cinelli, «a guardare i grigi argentei, i banchi, le luci diafane, la capacità si orchestrare i toni in atmosfere di raffinatezza estrema, come nella veste dell’angelo che regge il bacile della Circoncisione della Pinacoteca di Bologna». Scrive dal canto suo Arcangeli: «Morandi gioca sui chiari, in questa fase, con un’altezza e una concentrazione, una distaccata ma profonda poesia, da richiamare per analogia, non per discendenza, quel raro, grande pittori di toni argentati che fu Guido Reni».

È senz’altro una chiave per capire le ultime due sale della mostra, le più belle e anche spiazzanti. Per le quali la Cinelli rimanda a una bellissima frase del Tonio Kröger. detta alla sua amica Lisaweta: «Come artisti si è fin troppo avventurieri dentro».

Nell’immagine Natura morta con drappo giallo, 1924, Collezione Longhi, presente alla mostra.

Written by giuseppefrangi

Marzo 29th, 2009 at 10:05 am

La gara tra Mazzoni e Gaudenzio

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Maurizio Cecchetti recensisce su Avvenire la mostra modenese dedicata a Guido Mazzoni e Antonio Begarelli. Un vero festival della scultura,  con qualcosa che però non convince e che, almeno mi sembra, non convinca anche il “corregionario” Cecchetti. Mi spiego.

mazzoniMazzoni vien giù dal modello inimitabile del compianto “tarantolato” di Nicolò dell’Arca a Santa Maria della Vita a Bologna. Ma Mazzoni addomestica la “bestia” (cioé la scultura), la riporta dentro il perimetro della sopportazione. Il Compianto di Busseto, arrivato in mostra, è un capolavoro laddove riesce ad essere trattenuto (la figura delle Marie allineate e come incapsulate nei loro manti, nella foto). Lo è meno dove cerca di innescare l’alta tensione, in stile Nicolò. Una mostra da vedere, nonostante quel titolaccio che rimanderemmo immediatamente al mittente: “Emozioni in terracotta”. Un titolaccio traditore, che riduce la scultura a mess’in scena di cartapesta. Non è così evidentemente, perché il grande mistero della scultura sta nell’interiorizzazione della materia, che non è più mezzo della rappresentazione, ma corpo stesso della rappresentazione. Mazzoni, sotto questo profilo, ci prende quando la sua terracotta si fa lacrima non quando si fa grido. Quando si ritrae, non quando si esagita. Detto questo, non solo in quanto lombardo, rivendico con convinzione che gli scultori del Sacro Monte di Varallo, Gaudenzio in primis, hanno un qualcosa che a Mazzoni manca. Non hanno bisogno di quell’intenzionalità che invece è sempre così esplicita nello scultore modenese. E la differenza la cogli là dove non te ne accorgi: nel corpo del Cristo morto. Lì Mazzoni sembra improvvisamente diventare inerte, quasia che l’inespressività di quel corpo lo paralizzasse. In Gaudenzio succede il contrario, vedasi il capolavoro della cappella 32, il Cristo di legno, dimesso e quasi appartato, che si prepara a salire le scale del pretorio. Non dà nell’occhio, quasi lo passi senza accorgertene. Ma se lo guardi lo scopri immenso nella sua umiltà, con il legno che sanguina come la carne.

In un ideale classifica delle (per me) più belle sculture del secondo millennio, quel Cristo ci sta di sicuro. Prossimamente la stileremo…

Written by giuseppefrangi

Marzo 25th, 2009 at 11:55 pm

Novara meritava bene un Elogio

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Non perdetevi questa mostra nello scenario stupendo della navata di San Gaudenzio a Novara. Un omaggio a Testori che testorianamente lievitato in quanclosa che è molto più che un omaggio. Si entra sotto la cupola a siringa dell’Antonelli, in quel transetto anche lui un po’ acuminato. Una parete nera con tenda al centro “copre“ lo spettacolo della navata barocca dove ai Tanzio, Gaudenzio e Morazzone (tutti qui di stanza), si sono aggiunte su delle quinte nere altri 14 quadri appena restaurati, con alcune assolute soprese (primo tra tutti il Matrimonio mistico di santa Caterina di Gaudenzio). Aggiungo solo un pensiero: è bellissima la coralità dell’insieme. Si sente che sono pittori in famiglia tra di loro, che parlano una stessa lingua, che stanno bene insieme. Nel senso che insieme diventano più belli, prendono più corpo, aumentano di peso specifico. La Lombardia è cultura plurale, e qui lo si tocca con mano. Uno rimanda all’altro e nessuno esce dimunito dalla presenza di qaudri oggettivamente più belli. Il 18 maggio appuntamento da non perdere con Giovanni Agosti e Giovanni Romano in mostra a presentare il libro – catalogo.

Testori nel 1962 aveva pubblicato un meraviglioso (meraviglioso anche come oggetto) libro Elogio dell’arte novarese. Dopo aver visto la mostra si constata che mai titolo fu più pertinente (e non è un discorso di qualità, ma di tenuta umana, di omogeneità cultural sentimentale)

Written by giuseppefrangi

Marzo 24th, 2009 at 11:55 pm

L'abside di Siza e la tenda di Mosé

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Visto che è domenica ritorno sulla questione del costruire chiese oggi. Il libro di Dianich propone un riferimento in effetti molto interessante: ed è la chiesa costruita da Alvaro Siza a Marco de Canavezes, vicino ad Oporto. La chiesa è dedicata a Santa Maria ed è stata costruita sul finire degli anni 90. Siza cerca di aggiornare un canone architettonico tradizionale, proponendo una facciata con due corpi laterali sporgenti che richiamano il motivo delle torri di tante cattedrali gotiche e, soprattutto, ritorna su un elemento dimenticato, come quello dell’abside, trasformando però la curva da concava in convessa. La semplicità del bianco degli intonaci e la linearità di tutto il perimetro in effetti dà una positiva idea di umiltà, di una fantasia messa all’opera ma trattenuta dalle soluzioni troppo soggettivistiche.

Ma c’è un però… Proprio settimana l’altra ad Arezzo mi è capitato di entrare nella meravigliosa chiesa romanica di Santa Maria della Pieve (nella foto sotto). La cosa che colpiva è la bellezza dello spazio; una bellezza pacificata ma insieme grandiosa date le dimensioni della chiesa (soprattutto l’altezza). E il tutto culminava in un’abside semplice e perfetta, fatta di nuda pietra, nella cui linea circolare così esatta, così accogliente  (per dirla tutta: così umana) sentivi una sorta di eco quasi di Paradiso. Quella curva dell’abside l’avvertivi come un abbraccio, ma un abbraccio largo, perché proposto a te come singolo ma anche come popolo. Insomma davanti a quell’abside ti accorgi istintivamente che non sei solo.: questo comunica l’architettura. Siza in paragone non ce la fa. La sua abside è perfetta ma un po’ escludente. Ti taglia fuori o ti concepisce come persona chiamata a un confronto individuale con l’eterno. È una struttura ultimamente muta, che si ritrae (per questo è convessa e non concava….)  invece che venirti incontro.

Questo sottilinea ancora una volta un motivo molto semplice che dovrebbe essere sempre ricordato da chi costruisce oggi. Nell’Esodo 33, quando Mosè costruisce fuori dall’accampamento una tenda per i suoi incontri con Dio, la chiama la “tenda del convegno”. Perché lì dentro non avveniva nulla di esoterico. Semplicemente in quel luogo scrive l’Esodo, «il Signore parlava faccia a faccia con Mosé, come uno parla al suo amico». Il suo amico: ecco il fondamento concettuale su cui un architetto dovrebbe fondare un’idea di Chiesa.

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Written by giuseppefrangi

Marzo 22nd, 2009 at 12:06 pm

L'onda nera di Vanessa Beecroft

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Io non c’ero ma chi c’era mi ha raccontato del clima sospeso che si respirava al Pac durante la perfomance di Vanessa Beecroft. Si sentiva il fruscio dei passi, il sussurro di voci basse, il click delle fotografie. A VB bisogna dare atto di essere riuscita in un’impresa non facile: mantenere un equilibrio che facesse cadere la performance o nel sentimentalismo, o nello stilismo. 22 uomini neri, seduti ad una lunga tavola trasparente, apparecchiata senza piatti né tovaglia, con polli arrosto buttati sul piano, per dare un’impronta ancor più prorompente al cibo, quel cibo che abitualmente a loro manca. C’era un che di selvaggio in quel rito, che faceva da contrappeso all’eleganza visiva e lungilinea dell’insieme. Rispetto alle altre perfomance di VB, c’è qualcosa di nuovo. I soggetti non sono come “robotizzati” e tenuti sotto stretta regia, come accade nelle perfette perfomance con le modelle. In questo caso i clandestini sono soggetti liberi, in un certo senso fuori controllo: e questo dava all’insieme un che di drammatico. Come se da un istante all’altro potesse accadere l’imprevisto, o addirittura l’irreparabile su quel l’immenso tavolo-zattera. La vita di quei 22 clandestini, per quanto disposta ordinatamente come apostoli di un’ultima cena, era vita in bilico. E così VB ha lasciato che fosse. Facce abbrutite da giornate (e notti) impossibili, giacche mal portate. Piedi nudi. Occhi un po’ persi. Sono un punto misterioso di umanità, approdato nel nostro mondo, una presenza che non parla, ma che ti arriva inevitabilmente addosso, con quel senso potente, quasi implacabile di attesa. Raramente il grande fenomeno dell’immigrazione ha avuto una rappresentazione così a filo di realtà, cioè drammatica senza essere retorica. E davanti a loro, noi, ammirati, spaesati, attoniti. (Per dirla tutta: dubito che VB stavolta finisca su Vogue. Stavolta s’è messa di traverso)

Poi mi viene un’ultima annotazione: VB riesce a tenere fede al proposito annunciato di mirare comunque a un senso complessivo di bellezza. Basta scorrere le foto per constatare come la brutalità di ogni storia non ne rinneghi la bellezza. Queste sono le mie impressioni, di uno che non ha visto, ma ha sentito nell’aria la scossa partita da VB.

(la foto è di Vanessa Beecroft. L’intera sequenza sul sito Vita.it)

Written by giuseppefrangi

Marzo 18th, 2009 at 8:37 pm

Lotto e gli angeli trapezisti del Pignolo

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02berga1Domenica mattina a Bergamo. Con Matteo entro a San Bernardino, via del Pignolo. Appena si varca la soglia vieni risucchiato da quel vorticante capolavoro di Lotto che giganteggia dietro l’altare. È un quadro che ha qualcosa di inaudito, con quelle trovate luministiche e di disegno che s’intrecciano e si rimandano segnali l’una all’altra. È un capolavoro-flipper, perché appena ti fermi su un particolare c’e n’è un altro che ti rapisce. Guardi il volto dell’angelo occhieggiante verso lo spettatore (quanto altdorferiano, qui soffiano venti del nord… o forse è già prerembrandt…) e lo sguardo ti cade subito sul suo piede nudo e impertinente, e sull’ombra che getta sullo zoccolo di marmo bianco patinato. E poi lo sguardo rimbalza sull’incredibile manto rosso arancio elettrico della Madonna (di sicuro piacerebbe a Pipilotti Rist…). Poi l’occhio si appoggia sulla mano languida di Maria che sembra allungarsi per fare un bagno di luce. E poi viene risucchiato da quel gioco degli angeli trapezisti che tengono teso il telo del baldacchino, di un verde che sembra essere il condensato di tutti i boschi del mondo. È un quadro geniale anche nelle dimensioni, così largo e così profondo. Il formato quasi quadrato (300 x 275) gli dà un’ampiezza, pari solo allo sfondamento visivo che il paesaggio suggerisce. Per questo è un quadro che respira e che vola con quel baldacchino a fare da vela…

Ma è anche un quadro formicolante, senza pace, inquieto di un’inquietudine un po’ adolescenziale. Come se fosse popolato da un’infinità di microrganismi in continuo movimento e mutamento. Forse sono proprio loro a generare quella luce che viene da dentro e da dietro, quasi fosse una tela retroilluminata. Se vi capita, fatevi spegnere e poi riaccendere il riflettore messo dietro l’altare. È a incandescenza e fa uscire il quadro poco alla volta, come una meravigliosa bolla di colore che non smette mai di crescere e dilatarsi…

Lotto è questo: un eclettico che non si smarrisce, che si tiene alle spalle sempre una porta aperta per tornare a casa. Si lascia prendere dall’ebrezza dell’ambiguità, ma all’ultimo evita sempre la deriva con un colpo d’ala. E l’ambiguità all’attimo finale si trasfigura in un’esagerazione di dolcezza.

Per curiosa coincidenza, domenica nelle edicole di Bergamo era in vendita il quinto volumetto dei Pittori Bergamaschi, una bella inziativa curata da Simone Facchinetti per l’Eco di Bergamo: ed era proprio quello dedicato a Lotto. In copertina, gli angeli trapezisti del Pignolo, con quel perizoma ciclamino che vola felice e con un non so che di adolescenziale nel cielo terso.

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Written by giuseppefrangi

Marzo 17th, 2009 at 12:07 am

Gaudenzio, la pittura come una carezza

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gaudenziookGaudenzio, Gaudenzio: questo volto è davvero difficile da dimenticare. È un particolare della pala di Guadenzio Ferrari, conservata nel Duomo di Novara ma che è rinata sorprendemente con il restauro realizzato per la mostra che si apre il 19 marzo prossimo alla Basilica di San Gaudenzio, sempre a Novara (qui i particolari). La Pala è un Matrimonio mistico di Santa Caterina, e secondo Rossana Sacchi che ha scritto la scheda in catalogo, è da datare intorno al 1527. Due riflessioni attorno a questa volto Madonna: difficile parlare del suo autore come di un minore. Qui siamo ad un’intensità espressiva che può essere solo nelle corde di un grande. È un Gaudenzio correggesco, ma rispetto a Correggio il sublime di Gaudenzio non è mai autoreferenziale. Questa Madonna ha lo sguardo puntato verso un qualcosa (il Bambino) ed è la tensione sentimentale che questo rapporto determina a strutturarne l’espressione. È un sublime che si genera dentro un rapporto, che nasce da uno scambio. Questo volto vibra di commozione in ogni cellula e dissemina una dolcezza che invade anche il cuore piuttosto disilluso di un uomo d’oggi. Non credo di esagerare, ma la carne di questa Madonna è una carne “bambina”.

Ci aveva visto Testori, citato nella scheda del catalogo: «la qualità umana della materia di Gaudenzio […], quel suo incarnar le figure piano, piano, come al tepore d’una continua carezza».

Written by giuseppefrangi

Marzo 12th, 2009 at 8:09 pm

Aldo Rossi raccontato da vicino

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L’amica Paola Marzoli, che è stata stretta collaboratrice di Aldo Rossi, mi manda queste schegge di ricordi e di pensieri. Sono schegge che raccontano il personaggio, così profondo e così irrisolto. Gli schemi delle controversie ideologiche e culturali evidentemente non raccontano tutti. Un grazie sincero a Paola.

«Azzurro. Ricordo che quando sono entrata nel ‘nuovo’ studio di Rossi in via Maddalena sono rimasta colpita dalle pareti azzurro intenso, profilate da cornici bianche neoclassiche. Allora per gli architetti c’era solo il bianco. il primo studio era in via lanzone. dentro il cortile della casa subito prima dello gnomo (venendo da sant’ambrogio). Li mi ricordo che avevo dipinto di azzurro il piccolo plastico della fontana di segrate, primo progetto realizzato da rossi. Credo di averlo ridipinto 4 o 5 volte. non era mai abbastanza azzurro, abbastanza pieno. Mi sembra che l’azzurro (questo intenso, questo che è dei cieli quando non si capisce se sono senza nube o quasi neri di tempesta) sia il colore più carico. e poi mai abbastanza carico. Saturo. dopo averlo visto non so se oserò metterlo dietro i rami dell’ulivo. tanto non lo decido io. se c’è c’è. Certo non so interpretarlo. Certo non mi appare un colore ‘sereno’. Per essere sereno deve essere chiaro. I greci dicevano il cielo sidereo (di ferro). E il mare color del vino e il sangue nero».

«Anni fa quando ho fatto in facoltà  di architettura una comunicazione su Rossi mi  ricordo che avevo detto qualcosa del tipo che ‘la sua disperazione lo  teneva abbrancato alle gambe del tavolo della nonna. E poi Boullè e  Ledoux a tenerlo  dritto in piedi.
L’azzurro del cielo (il titolo della piccola mostra che si è tenuta il mese scorso a Milano)  è il titolo di un romanzo  di  Bataille. Abbastanza inquietante.   Era il motto che Rossi aveva usato  per il concorso del Cimitero di Modena. Che ha vinto nel 1971 e che  è tutt’ora in esecuzione.  Chissà perché se lo sono quasi dimenticato.  Oggi l’oscuro, il dramma,  va di moda. Ma esposto, sbandierato raccontato. Oggi niente martirio  caldo e concentrato  e tutto esibizione fredda tirata in lungo e in  largo.   L’esplosività interna, concentrata rattenuta  di Rossi  non si  capisce nemmeno cosa sia».

(Nota bene: il romanzo di Bataille è stato ripubblicato da Einaudi lo scorso anno. In copertina ha una Venere blu di Yves Klein).

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Nella foto: il muro di casa Alessi a Suna di Verbania. Rossi si definiva un “laghista”

Written by giuseppefrangi

Marzo 11th, 2009 at 11:13 am

Piero, Burri e le gite scolastiche

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Reduce da una due giorni tra Arezzo e Città di Castello, tiro queste conclusioni: c’è una continuità ben visibile tra Piero e Burri. La tenda della Madonna del Parto torna tale e quale come movimento nelle lamiere che Burri ha messo in testata al capannone 3 dei Seccatoi del Tabacco. E il senso della terra sereno e inglobante anche il più alto dei cieli è di Piero come di Burri. Questo per dire che sulla rotta Arezzo – Città di Castello si capisce cosa sia l’Italia: la vastità profonda e tersa dei cieli di Piero, il senso di pacificazione profonda tra l’uomo, il luogo e l’eterno che trapassa da Piero a Burri. È una dimensione poetico-umana-intellettuale che non ha paragoni. Longhi ci aveva visto giusto, assegnando a Piero lo snodo decisivo di tutta la cultura figurativa italiana.

Da qui una conclusione molto pragmatica. Mio figlio andrà in viaggio scolastico a Budapest. Frotte di altri studenti stanno partendo per Barcellona, Parigi o Praga. Fosse per me metterei come obbligo che le gite scolastiche liceali abbiano solo mete italiane, e in partiicolare che una volta nei cinque anni facciano rotta su Arezzo e Città di Castello. Una volta che quelle immagini sono entrate nella testa e nella memoria dei ragazzi qualcosa di buono certamente sviluppano (è da secoli che funziona così…)

Infine: non andate ad Arezzo per la mostra di Della Robbia: c’è pochissimo di Luca e tanto, troppo della bottega di mestieranti che ne discendono. Occasione buttata.

Written by giuseppefrangi

Marzo 9th, 2009 at 12:21 pm