Robe da chiodi

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La diagonale di Caravaggio

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Articolo scritto per Tracce, numero dicembre 2019.

Una diagonale. Una semplice diagonale. Il senso dell’Adorazione dei Pastori, capolavoro dei tempi estremi di Caravaggio, si riassume in quella linea che fa da architrave compositiva e poetica del quadro. La linea parte in alto dal pastore appoggiato al bastone e scende con mola chiarezza passando per la testa del pastore calvo sino ad arrivare alla Madonna che stringe tra le braccia il Bambino in fasce. Nel triangolo inferiore tracciato dalla diagonale Caravaggio ammassa tutti i protagonisti, in quello superiore invece non ha problemi a dipingere, qualcosa di complementare, un grande spazio fatto di niente, tale è la povertà che lo contraddistingue («La capanna rotta e disfatta d’assi e di travi», descrisse l’opera Giovan Pietro Bellori nel 1672). La forza della linea tracciata nell’artista sta soprattutto nell’evidenza della sua direzione: punta decisamente verso il basso. E proprio qui sta il dato decisivo del capolavoro di Caravaggio. I pastori arrivati per vedere il Bambino sembrano precipitarsi con il loro sguardo verso quel punto che sta ai loro piedi. O, per dirla con più aderenza alle cose, verso quel punto posato sulla nuda terra. In genere si adora qualcosa che sta in alto, e che è accarezzato dalla luce del cielo. Qui invece il parametro è capovolto, perché il quadro di Caravaggio è un quadro che affettivamente e compositivamente punta in direzione della terra, scabra e nuda. Naturalmente la geometria immaginata dal grande artista si popola di una straordinaria densità umana. È quella dei pastori, sospinti da un impeto appena trattenuto a piegarsi verso il Bambino; a loro si unisce anche il vecchio Giuseppe, sulla destra, identificabile dall’aureola, tracciata in modo molto leggero. Hanno sguardi semplici; sguardi conquistati da ciò che hanno davanti a loro: pieno di stupore il primo a sinistra, commosso il secondo, semplice e devoto quello di Giuseppe. A terra c’è Maria, sdraiata, con il gomito appoggiato sulla mangiatoia, il volto in penombra tutto dedito al figlioletto che protende le sue braccia vero di lei. È una Madonna dell’umiltà, dato che la radice della parola umiltà ha a che vedere con “humus”, terra; ha un mantello di un rosso vermiglio acceso, che sembra metafora o espansione di un cuore acceso da un infinito amore.

Il nuovo allestimento delle due opere di Caravaggio nel Museo regionale di Messina

È un’iconografia che a Caravaggio potrebbe essere stata suggerita dai committenti di area francescana; infatti il quadro, oggi custodito nel bellissimo Museo regionale di Messina rimesso a nuovo, era destinato all’altare maggiore di Santa Maria della Concezione, chiesa dei Cappuccini, distrutta dal terremoto del 1908. Tra l’altro, in quegli anni nella città dello Stretto, come rilevato da Antonio Spadaro, gesuita messinese, oggi direttore della Civiltà cattolica, era arcivescovo un personaggio di grande prestigio, fra’ Bonaventura Secusio, dei minori osservanti. Insomma il cupo Caravaggio, «uomo di cervello inquietissimo, contenzioso e torbido», come lo aveva descritto il messinese Francesco Susinno, aveva disciplinatamente accettato le indicazioni che gli erano arrivate dalla committenza francescana ma le aveva poi decisamente sopravanzate, con quella geniale semplicità che lo portava sempre a toccare il cuore della realtà e a mettere a nudo le attese degli uomini. Come aveva scritto un grande studioso dell’artista lombardo, Ferdinando Bologna Caravaggio in quadri come questo «operava un adeguamento del sacro all’esistente, per mettere il sacro all’effettiva portata degli uomini… Dimostrarlo accessibile per via di “somiglianza” significa per lui liberarlo dalle contemplatività astratte e discriminanti e rivelarlo agli uomini nell’aspetto profondamente costruttivo di forza vicina». Proprio così: il Natale secondo Caravaggio è davvero “forza vicina”.

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Dicembre 18th, 2019 at 2:36 pm

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Settis e Prada, l’antichità si fa pop

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La mostra Serial Classic di Salvatore Settis alla Fondazione Prada è una mostra che cambia il modo di fare mostre sull’arte antica. L’idea è semplice: indagare sulla produzione di copie “seriale” da una parte per reimmaginare gli originali perduti, dall’altra per capire meglio i meccanismi della committenza e della ricezione delle opere d’arte nell’antichità. La mostra ha un approccio spettacolare, filologico e didattico. La filiera “originale – copie – “ricostruzione” dell’originale” viene proposta con molta chiarezza, accuratezza filologica e spettacolarità espositiva. C’è una sana desacralizzazione estetica delle opere, che permette di approcciarle nel loro status di manufatti materiali, permettendo così di immaginarle avendo più dati a disposizione. La mostra si avventura anche in percorsi spregiudicati, come una fusione in bronzo dell’Apollo di Kassel, o nel completamento e coloritura di una copia fatta oggi del Bronzo A di Riace. Il risultato è ovviamente smaccatamente pop, ma avvicina psicologicamente ad una produzione che per la sua straordinaria abbondanza, aveva aspetti da “catena di montaggio” delle statue in bronzo. Nella sola Olimpia pare ci fossero tra le 1000 e le 3000 statue da fusione. A Rodi c’erano 100 colossi. Quando Demetrio Falereo governò Atene tra 317 e 308 aC gli furono innalzate 360 statue, sempre in bronzo, per la maggio parte equestri. È un fenomeno di dimensioni impressionanti, che il Medioevo si divorò per il bisogno di metalli. Oggi i bronzi conservati di età greca non sono che un centinaio.
Che marmi e bronzi fossero poi molto diversi dai monocromi di oggi lo sapevamo. Tentare di farli vedere così com’erano serve a inclinare il nostro immaginario verso una visione meno improbabile della classicità. Il Bronzo A di Riace, presente con una copia appositamente realizzata sulla base di una stampa in 3D, grazie ad un trattamento delle superfici «eseguito con criteri scientificamente e filologicamente corretti», ci appare dotato di elmo, lancia e scudo, e con la carnagione resa bruna dagli unguenti, la barba vistosamente nere, e le labbra rimarcate da un passaggio di rosso.
Al secondo piano poi spicca la presenza della Penelope, originale greco proveniente da Teheran, di cui esistono tantissime repliche. Ma anche l’originale scopriamo dalla lettuare delle schede era “sdoppiato”. La statua era un dono di Atene al re di Persia per celebrare la fine delle guerre contro i Persiani. Una versione restò in Grecia, l’altra andò a Persepoli, dove si è conservata perché nel 331 aC finì sotto le rovine del palazzo reale distrutto da Alessandro Magno. La storia, a volte, ha molta ironia…

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Maggio 9th, 2015 at 7:30 am

Bonificando Bonifacio. Un arci libro per Bembo

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Questo è un libro goloso e che ingolosisce. Innanzitutto per confezione, titolo e cover. Arcigoticissimo Bembo di Marco Tanzi è un libro che anche solo a maneggiarlo ti porta nel clima magico della stagione del tardivo gotico lombardo. Il suffisso “arci” rende bene l’idea di quell’esperienza portata avanti baldanzosamente ad oltranza, quando attorno il mondo stava precipitosamente stringendosi attorno alle certezze nuove dell’umanesimo e della prospettiva.

La cover, scintillante al punto da apparire divertita e quasi ironica, è come il coperchio di una scatola: appena ce l’hai tra le mani, sai che aprendola ti aspetta qualche sorpresa. Nel libro che Tanzi dedica al suo amato Bonifacio Bembo (20 anni e oltre di studi e una conterraneità che tra le righe si sente), le sorprese non mancano. La prima riguarda il metodo. Non una monografia, ma un libro che si impone di fare un’opera di bonifica su quel si è detto e scritto attorno a questo maestro, bresciano di nascita ma cremonese per destino, la cui importanza è inversamente proporzionale alle certezze che lo riguardano. Così, ad esempio, il saggio dedicato alle tre stupende tavole con storie “immacoliste” di Maria (oggi due a Denver e una Cremona) non è altro che una lunga scheda che ripercorre gli studi fatti sino ad ora, che passa al setaccio le certezze, che divide il grano dal loglio. Il percorso a tratti è impietoso (quante cose approssimative diventano automaticamente certezze che nessuno discute e che a valanga disseminano confusione) a tratti avvincente, a tratti anche divertente. Una per tutti: la storia del profeta Eliseo presente nella prima delle tavolette, quella con il Bacio di Gioacchino ed Anna sotto la Porta d’Oro, è al centro oltre che di un equivoco iconografico, anche di un piccolo giallo ecclesiastico. Nella chiesa di Sant’Agostino il parroco non sa neppure che in quella chiesa è custodita la reliquia con la testa del profeta (tassello importante per la ricostruzione delle tre tavole): quella stessa chiesa era passata all’Osservanza dopo che due frati avevano ammazzato di botte nel 1449 il priore…

Alla fine setacciando, setacciando la prospettiva si ricompone più coerente e persuasiva. La storia critica delle tre tavole, innescata dalla solita intuizione di Longhi (intuizione precocissima: 1928) trova la sua probabile collocazione originaria che è molto omogenea alle ragioni iconografiche: «Mi piace così immaginare che alla metà del Quattrocento, entrando in sant’Agostino si potesse ammirare sulla destra, un altare mariano con dipinti che affrontano in maniera dotta ed esplicita il tema della Concezione di Maria…» scrive Tanzi. Concludendo: «Tutto così si incastrerebbe a meraviglia…».

Il libro procede, cambiando ogni volta stile di racconto e modello di approccio, cercando nuovi «incastri a meraviglia» per sistemare le cose su altri capolavori bembeschi. Sino al regolamento di conti finale sulla Madonna con il bambino e due angeli, oggi al Museo di Cremona e un tempo in Duomo. I toni aspri in queste pagine non mancano contro la tesi avanzata nell’improvvida scheda del catalogo del Museo. Ma è tutto sale che rende molto “arci” questo libro anche ai non addetti ai lavori.
PS: Il libro, edito da Officina Libraria, ha anche un prezzo molto “clemente”: 20 euro. Finalmente un libro “arci accessibile”…

Bonifacio Bembo, Incontro di Gioacchino ed Anna alla Porta Aurea, con il profeta Eliseo e san Nicola da Tolentino, Denver, Art Museum

Written by gfrangi

Febbraio 13th, 2012 at 11:31 pm

Il Leonardo di Ballarin, un libro che è come un mondo

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Ho approfittato della sosta ferragostana per una lettura che durante l’anno sarebbe complicata: il Leonardo a Milano di Alessandro Ballarin. Ovviamente è solo un inizio di lettura di un’opera immensa (quattro volumi, 2900 pagine, 2700 illustrazioni, 22 chili di peso…). Ho letto le 200 e passa pagine dedicate alla questione delle due Vergini delle rocce e la prima parte della Corte e il castello. È raro che la lettura così specialistica riesca a prendere l’attenzione anche di un non specialista. Ballarin attorno a questa vicenda, che fotografa un momento straordinario della vita di Milano ma non solo di Milano, avanza con una completezza di sguardo che lascia stupefatti. Non lresta inevaso niente e non restano zone d’ombra nel suo percorso. Se è il caso apre capitoli di dimensioni tali che da soli costituirebbero affascinanti saggi (ad esempio quello sul battistero di san Johannes ad fontes a Milano, che sorgeva dove poi Azzone costruì la cappella palatina – oggi san Gottardo in Corte: affondo importante per scavare nelle ragioni e nell’iconografia della prima Vergine delle Rocce, quella parigina. Qui il significato battesimale è molto esplicito).
Ma ci sono due aspetti dello “stile Ballarin” che da profano non specialista mi piace sottolineare. Primo, la scelta di procedere senza note. Tutto è testo, e tutto è necessario. Una scelta inedita, ma che non inficia la leggibilità del testo: infatti il contenuto delle note sono trasformati in incisi che scorrono nella lettura senza soluzione di continuità. La scelta è dettata dall’idea che tutto è necessario per arrivare a uno sguardo completo sulla vicenda. Ma la scelta credo sia motivata anche da un altro fattore, che coincide con la seconda osservazione che da profano mi sento di fare. Si avverte leggendo che Ballarin, mentre scrive, ha davanti una platea di studenti e deve rendere ragione loro, ad ogni passo, delle tesi che presenta. Non c’è spazio per le note mentre si fa una lezione… E Ballarin da questo punto di vista si dimostra un maestro perfetto che usa uno stile piano, un andamento persuasivo, che non lascia ombre nei suoi interlocutori, anche se chiede loro la pazienza di seguirlo nei percorsi che non conoscono scorciatoie. Porta i suoi interlocutori dentro “quel” mondo, passo dopo passo, pensiero dopo pensiero. Mi piace, ad esempio, come a volte gli capiti di infilare nel testo raccomandazioni che sono proprie da “maestro”. Ne ho in mente due.
“Chiunque a proposito, dovrebbe conoscere le pagine nelle quali Pier Desiderio Pasolini, scrivendo dell’adolescenza di Caterina Sforza, racconta l’assassinio del padre, quel giorno, attingendo ai testimoni oculari ed alle fonti: pagine di bellissima scrittura e di forte tensione drammatica” (pag. 293; Caterina è figlia di Galeazzo Maria Sforza, il primogenito di Francesco, ucciso nel 1476).
“… rimando il lettore alla lettera 426 della citata raccolta di Rubinstein, del 18 settembre ( 1479) al medesimo Morelli, dove Lorenzo (il Magnifico), ancora febbricitante per un attacco di terzana, svolge una serie di riflessioni generali sulla nuova situazione che si è venuta a creare a Milano e in Italia con il rientro di Ludovico a Milano. È una pagina che dovrebbe essere antologizzata nei manuali di storia e che tutti dovrebbero conoscere. È una sapienza politica che egli spera di poter mettere a disposizione di Ludovico attraverso il suo ambasciatore” (pag. 285).

Written by gfrangi

Agosto 16th, 2011 at 1:29 pm

Divertitevi con la Sistina

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È un tour virtuale della cappella, spettacolare, anche se con effetti un po’ da ottovolante. Il Vaticano lo ha fatto realizzare dall’Università di Villanova, in Pennsylvania. Ci hanno impiegato tre anni… Dedicategli cinque minuti… Qui (con pazienza, ci impiega un po’ a caricare)

Written by gfrangi

Ottobre 28th, 2010 at 6:10 pm

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Un Medioevo piene di tenerezze

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Quante sorprese tra le pagine del libro di Chiara Frugoni cui ho già fatto accenno qualche post fa.  Lei le definisce “pillole” di iconografia: in effetti sono centinaia di sguardi gettati su immagini generate dalla grande cultura medievale. E sguardo dopo sguardo poco alla volta cade la presunzione ci si è posti rispetto a quelle immagini: guardate con l’occhio nostro, che è un occhio superficiale, se non ha la pazienza di capire cosa vedeva davvero l’occhio degli uomini di quella stagione. Nelle immagini dell’arte medievale niente è mai messo a caso o per istinto di chi le ha realizzate. Tutto ha una ragione, e tutto obbedisce a una rigorosa struttura concettuale.

Ma ci sono particolari, che svelati, sorprendono anche per la loro geniale semplicità. Me ne sono rimasti impressi due e hanno per filo conduttore la tenerezza del rapporto tra Maria e suo figlio. La prima è relativa alla Crocifissione di Giotto agli Scrovegni. L’occhio medievale notava subito che Maria è senza il velo, elemento d’obbligo nella sua iconografia: infatti pietosamente lo ha prestato per coprire le nudità del Cristo crocifisso. Infatti il perizoma dipinto da Giotto è stranamente trasparente. Nessun Vangelo cita questo particolare, ma la Frugoni ha scovato molte fonti medievali che invece nel riraccontare la Crocifissione, immaginano questo particolare, che rende l’infinito strazio della madre che vuole evitare al figlio la vergogna della nudità a cui l’hanno obbligato i suoi carnefici. Un  gesto di semplice pudore che fa capire a quale dolente finezza possa arrivare l’amore di una madre.

Da Giotto, un salto indietro a Cimabue. Nella scena oramai quasi illeggibile dell’Assunzione ad Assisi, Maria e il figlio sono come legati da un abbraccio dentro la mandorla. Addirittura i loro piedi nudi si accavallano, come svela un disegno realizzato da un visitatore del secolo scorso (quando l’immagine era molto più leggibile). Questo motivo è ripreso da un minore, il Maestro di Cesi, del primo 1300, con un’opera che è unvero  trionfo della tenerezza. Maria infatti appoggia la testa sulla spalla del figlio, come colta in un momento di intimità. Lui, a sua volta la stringe a sé, abbracciandola. Mentre le loro mani s’incrociano e si sfiorano. È sorprendente come la ieraticità della scena non censuri per nulla il contenuto affettivo.

Non aggiungo altro alle parole di Chiara Frugoni su quest’opera: «Il Maestro di Cesi si mostra particolarmente felice nel rendere, con il fiducioso e intento abbandono della Vergine, a testa china fra le braccia di Cristo, l’intima dipendenza della madre-sposa verso il Figlio divino ritrovato, quasi Maria sussurrasse: “Infine!”»


Written by giuseppefrangi

Giugno 9th, 2010 at 12:12 am

Beato Angelico, e noi pensavamo che fossero fiori…

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Ti sembra di averli guardati a sufficienza e invece non li hai mai guardati abbastanza. L’altro giorno leggendo un affascinante libro appena tradotto in italiano (Abscondita, 2009; ma il libro è del 1990) di Georges Didi-Huberman dedicato a Beato Angelico ho scoperto che nell’affresco bellissimo del Noli me tangere a San Marco, i fiori del prato non sono buttati lì per caso. Lo studioso francese si è incuriosito dal modo con cui Beato Angelico li aveva dipinti: «sono macchie, più o meno regolari, fatte con il bianco di San Giovanni e, al di sopra, con il rosso. È un colore vivace, una terra rossa, che produce sulla parete leggerissimi rilievi; l’effetto ritmico di scansione ne risulta accentuato». Un modo strano di dipingere i fiori, nota Didi-Huberman. Che poi nota come anche le stimmate sul piede di Cristo appoggiato su quel prato, siano dipinte «esattamente alla stessa maniera». Continuando l’osservazione nota che i fiori sono a gruppi di cinque, proprio come le stimmate. Beato Angelico opera quello che Didi-Huberman definisce uno «slittamento del segno iconico». Cioé «posso senz’altro affermare che le stimmate di Cristo, secondo il BA, sono i fiori del suo corpo». Ma altrettanto legittimamente si potrebbe affermare che «Cristo è qui rappresentato nell’atto emblematico di “seminare” le sue stimmate nel giardino del mondo terreno».

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La cosa mi sembra di per sé stupefacente, per la poesia che evoca. Ma c’è un’altra sottolienatura che mi sembra ancora più importante: è stupefacente l’intelaiatura concettuale che regge questi capolavori del nostro passato. Nulla è a caso. Il problema è che il nostro sguardo è viziato dall’istintività e non sa più affondare nella verità di queste immagini. E questo accade anche se lo sguardo è di simpatia o di sintonia religiosa con le immagini che guardiamo.

Written by giuseppefrangi

Settembre 28th, 2009 at 10:37 pm

Delacroix, naturaliter cristiano

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C’è un tratto comune in due libretti che ho letto quest’estate. Sono  Mon Histoire, raccolta un po’ sconclusionata di testi di e su Monet, e Verso l’Immateriale dell’arte, di Yves Klein. Il tratto comune è rappresentato dal comune amore per Eugène Delacroix. Un amore strano, perché a prima vista le relazioni sembrano inconsistenti. Eppure Delacroix ha questo potere, di essere un artista padre, sotto le cui ali ciascuno si sente libero e protetto. Bella, a proposito, la frase di D. che Klein cita nella sua conferenza alla Sorbona del 1959: «Guai al quadro che non mostri niente aldilà del finito! Il merito del quadro è l’indefinibile: ciò che sfugge appunto alla precisione».

20061110164946Ovviamente Delacroix ha attraversato anche la strada della vacanza. A Parigi, per due volte a messa Saint-Sulpice, mi sono ancora una volta lasciato agganciare dai due grandi affreschi del Delacroix estremo. C’è in lui una strana capacità di essere antico senza pregiudicare la propria modernità. Di dipingere quadri sacri in assoluta naturalezza, senza imbarazzi e senza sentirsi un “fossile”. Non lo percepisci mai “obbligato”: lo slancio dell’angelo che punisce Eliodoro, o la grinta del Giacobbe che lotta con l’angelo sono figli di una passione per il mondo, per la vita, per la Chiesa. Nel visitare il suo atelier a Place Furstenberg (chi non sogna un atelier così?) si vede un quadro affascinante. Il soggetto è di quelli che i pittori non dipingono più da 300 anni: l’Educazione della Vergine. La genesi del quadro è emblematica, come racconta Delacroix in una lettera, scritta da Nohant dov’era ospite di George Sand: «Ho visto rientrando dalla passeggiata un motivo superbo per un quadro, una scena che mi ha profondamente toccato. Era una contadina con la sua nipote. Ho potuto guardarle con agio, da dietro un cespuglio senza che lor mi vedessero. Tutt’e due erano sedute su un tronco. La vecchia teneva una mano posata sulla spalla della bambina che imparava con attenzione la lezione di lettura». Da quel “motif” Delacroix trasse il quadro, agganciando lo squarcio di vita al soggetto sacro con assoluta naturalezza. Attorno c’è il consueto “incendio” di cieli e di alberi.

Sempre all’atelier si scopre un’altra vicenda strana. Delacroix nel 1821 aveva dipinto un quadro che era stato commissionato a Géricault, ma di fronte al quale Géricault era rimasto paralizzato. Il tema era la Devozione del Sacro ciore di Gesù e di Maria, destinato alla cattedrale di Nantes. La tela non venne ritenuta adatta e nel 1827 fu dirottata alla cattedrale di Ajaccio. Ma tutti credevano si trattasse di Géricault, perché Delacroix non ne aveva preteso la paternità. L’opera è ancora lì. Nell’atelier se ne vede il bozzetto.

Written by giuseppefrangi

Agosto 18th, 2009 at 11:27 pm

Divertitevi con Michelangelo

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1. La Cappella Paolina restaurata: scorrete le immagini. Notate lo sguardo furente di Pietro, che si fa un baffo dei suo aguzzini e sembra prendersela con gli inquilini della Cappella (o l’Inquilino?)

2. Al Metropolitan esposta la tavola acquistata dal Kimbell Museum di Fort West. È una copia dall’incisione di Schongauer con le Tentazioni di Sant’Antonio, e riferita da Ascanio Condivi nella sua biografia di Michelangelo, obbediente ai desiderata del maestro. Keith Christiansen, in Nuovi Studi, ha dettagliato le ragioni della sua certezza, riassunte in un’intervista rilasciata a Repubblica ad Anna Ottani Cavina. Intanto anche in questo caso siate curiosi, guardate l’opera (inattesa) dettaglio per dettaglio (le ha messe sul suo sito il Guardian). Condivi raconta che per rappresentare i mostri Michelangelo se ne andava in pescheria: il mostro slla destra ha le squame di pesce, che in Schongauer non ci sono.

Written by giuseppefrangi

Luglio 13th, 2009 at 10:27 pm

Che notte con Gaudenzio!

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Serata di rovesci a Varallo. Sul piazzale del Sacro Monte con Valter Malosti a preparare una serata su cui si riverserà la tempesta. La voce riempie lo spazio, che è fatto per essere abitato dal calore degli uomini. L’occasione è l’inaugurazione delle bussole alla cappella della Crocifissione: soluzione un po’ rude, ma efficace per tornare “dentro” quella cappella che resta una delle cose più emozionanti che si possano vedere. L’inginocchiatoio e le tende per stornare i riflessi, restituiscono uno stile di fruizione antico, ma quanto adatto a questo luogo. Un luogo che ti fa palpitare il cuore, con quella giostra di figure a 360 gradi che ti fan sentire subito un amico. È un grande capolavoro inclusivo, questo di Gaudenzio. Fuori si sentono le parole di Testori, che riempiono il piazzale come fossero arrivate esattamente a casa loro: «…storia di carne, storia, intendo di una carne che si fa creta, pur restando carne»; «quest’evento dove, come non mai, l’intridersi, l’identificarsi della materia dell’arte nella materia della vita, e di questa in quella, per uno scambio che ha il calore dell’umano respiro, si fa materia unica e sola».

buonladroneMi chiedevo che cosa avesse la cappella della Crocifissione di diverso da tutte le altre Crocifissioni. E mi sono dato questa risposta: qui dentro respiri la certezza che questo non è l’ultimo atto. Il popolo di Gaudenzio è fatto, fisicamente fatto, della consapevolezza che una festa attende tutti, dopo l’atto tragico. È una persuasione che leggi nei volti, dipinti o scolpiti, e che immediatamente ti conquista. Verrebbe voglia di rileggere la storia di quel popolo contento che al rintocco delle campane sciama per le strade ad aspettare il cardinale Federico nella più bella pagina dei Promessi Sposi. Eppure questa è una Crocifissione…: «il cuore di un uomo che ha perforato ogni estetica con l’onda piena e immensa di una coscienza fattasi amore». Grazie Gaudenzio (e a chi non ci fosse ancora stato raccomando: è uno spettacolo che umanamente non si può perdere: nell’immagine il Buon ladrone – di creta o di carne?).

La serata si chiude in bellezza, con un manipolo di felici coraggiosi, la voce di Valter che riempie di dolcezza la notte tempestosa, le immagini immense che corrono proiettate sul grande muro della cappella della Crocifissione. Si capisce che può essere l’inizio di un bellissimo film…

Written by giuseppefrangi

Luglio 6th, 2009 at 10:01 pm