Robe da chiodi

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Fabio Novembre, Burri e Gibellina

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Il Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina, 1985-89

Ho incontrato Fabio Novembre nel suo studio. Vagando per il suo sud, il discorso ad un certo punto fa capolino su Gibellina. Mi dice che il cretto di Burri è una delle cose che più hanno lasciato il segno su di lui. Nella desolazione di quel paese dimenticato da tutti, sembra che Burri avesse intuito il rischio che incombeva e quindi aveva pensato a quella crosta di cemento inespugnabile. Cemento bianco, che inghiotte le immense rovine del terremoto del 1968. Città morta che custodisce se stessa. Burri ci lavorò tra 1984 e 1989. Ecco come tante volte aveva ricordato la genesi di quell’intuizione: «Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento».
Ha ragione Novembre. Il Grande Cretto di Gibellina è land art nel senso più completo del termine. Forse è la cosa più bella e più grande che la Land art abbia mai prodotto. Ma è così perché è un’opera che si confronta con la storia, con la sua drammatica oggettività. Non mette in scena l’osmosi con la natura, come succede in tutta la Land art, perché non può nascondersi che la natura qui è stata terribilmente nemica. Per cui la sua è un’opera dialettica, costretta ad essere armonica e insieme titanica, quasi volesse imbrigliare per sempre quel demonio che aveva scatenato l’inferno nella vecchia Gibellina.
E, visto dall’alto, il Grande Cretto svela la sua griglia così giusta e piena di armonie. Sono quelle inventate dall’uomo quando sapeva rendere umano il proprio habitat.

Le foto del Grande Cretto

Written by gfrangi

Maggio 23rd, 2012 at 9:06 pm

Dessì, la nostra serenità perduta

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Ho letto questa intervista a Gianni Dessì su Repubblica. Mi è piaciuta per l’intelligenza nei giudizi e per la franchezza sulle difficoltà di oggi.

«Burri e Fontana sono i nostri padri fondatori. Rappresentano la fase aurorale di un nuovo modo di identificare lo spazio e la materia. Sono il big bang da cui è partita l’esplosione. Con loro l’arte ha perso la sua dimensione consolatoria ed è nata come linguaggio. Un linguaggio polisemico, fecondo di trasformazioni». Si può rintracciare una linea evolutiva? «Dall’arte povera in poi, c’è stata una proiezione fantastica di ferite, torsioni, scansioni dello spazio. Non solo in Italia. Si pensi a Yves Klein. Torna il fuoco. Tornano i sacchi. Si pensi a Kounellis, che metaforicamente ne esibisce il contenuto. Dalla sequenza di pensiero che si tramanda da Burri e Fontana è poi scaturita una linea emancipatoria dalla pittura nella direzione dell’uscita dal quadro, fino all’arte dell’environment e, paradossalmente, anche alla possibilità di un nuovo accesso». C’è un filo rosso che tiene insieme queste esperienze? «L’eros è il collante di tutte queste esperienze, ciò che le lega al vitalismo originario delle avanguardie storiche. Ma l’eros di Fontana e Burri è “canto” , ha una definizione ordinata, compatta, direi “classica”. Quella serenità ormai è perduta. Le ferite di Burri erano ferite ricucite, suturate. Non c’era l’abisso della perdita. Lo stesso vale per Fontana, un maestro del disegno, del gesto ampio, limpido». Dopo la cosiddetta uscita dal quadro oggi che cosa rimane? «Ho fatto il percorso inverso. Sono andato alla ricerca del luogo in cui la pittura potesse dispiegare nuovamente quelle sue armi di forma, luce, colore, superficie. Le Camere picte, sono questo, un luogo per la pittura che ridisegna lo spazio reale. Consapevole, però, che oggi il luogo dell’ arte, la sua immagine, è qualcosa che bisogna strappare con i denti»

Written by giuseppefrangi

Novembre 13th, 2009 at 7:40 pm

Piero, Burri e le gite scolastiche

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Reduce da una due giorni tra Arezzo e Città di Castello, tiro queste conclusioni: c’è una continuità ben visibile tra Piero e Burri. La tenda della Madonna del Parto torna tale e quale come movimento nelle lamiere che Burri ha messo in testata al capannone 3 dei Seccatoi del Tabacco. E il senso della terra sereno e inglobante anche il più alto dei cieli è di Piero come di Burri. Questo per dire che sulla rotta Arezzo – Città di Castello si capisce cosa sia l’Italia: la vastità profonda e tersa dei cieli di Piero, il senso di pacificazione profonda tra l’uomo, il luogo e l’eterno che trapassa da Piero a Burri. È una dimensione poetico-umana-intellettuale che non ha paragoni. Longhi ci aveva visto giusto, assegnando a Piero lo snodo decisivo di tutta la cultura figurativa italiana.

Da qui una conclusione molto pragmatica. Mio figlio andrà in viaggio scolastico a Budapest. Frotte di altri studenti stanno partendo per Barcellona, Parigi o Praga. Fosse per me metterei come obbligo che le gite scolastiche liceali abbiano solo mete italiane, e in partiicolare che una volta nei cinque anni facciano rotta su Arezzo e Città di Castello. Una volta che quelle immagini sono entrate nella testa e nella memoria dei ragazzi qualcosa di buono certamente sviluppano (è da secoli che funziona così…)

Infine: non andate ad Arezzo per la mostra di Della Robbia: c’è pochissimo di Luca e tanto, troppo della bottega di mestieranti che ne discendono. Occasione buttata.

Written by giuseppefrangi

Marzo 9th, 2009 at 12:21 pm

I tabernacoli di Burri

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Per giudicare se una mostra è ben fatta o invece è sciatta basta tener d’occhio alcuni piccoli particolari. Prendete la rassegna che la Triennale ha dedicato a Burri. Gran parte delle opere, provenienti dalla Fondazione di Città di Castello, sono degli ultimi anni. E sono tutti Cellotex, anche nei titoli. Ebbene, vi sfido a trovare anche una sola didascalia in cui si spieghi che cosa sia questo materiale decisivo per il grande maestro umbro.
Intanto rimediamo: il cellotex è un materiale povero, anonimo, di uso industriale: particelle di segatura e colla pressate insieme. Burri vi interviene «spellandone» a tratti la superficie fino a mettere a nudo le fibre, di colore naturale simile alla iuta.
I Cellotex rappresentano un apice di purezza per Burri, perché lo accompagnano verso quella semplificazione estrema cui anelava. Sono supporti e superfici poveri. Ma di una povertà che prepara il campo, con calma, a veri inni di splendore. Il ciclo Nero e oro, da questo punto di vista, parla da solo: quadri, tra i pochi moderni, che non stonerebbero dietro ad un altare. Pezzi di cielo bizantino depositati sulla nuda terra. È un’ascesi francescana quella di Burri, iniziata sui sacchi-saio. E culminata sulla soglia di questi tabernacoli…. Scriveva Emilio Villa: «Burri rende contenuti maestosi con mezzi addirittura trasandati, consunti, acidi… Egli ha il sentore delle materie in disuso… Elabora un’articolata, flessibile, lucida litania».  (nell’immagine Nero e oro, 1993)

burri

Qualche domanda cattiva ai curatori: perché far navigare i piccoli multipli nella grande sala centrale del primo piano? Perché nell’ultima sala dello stesso piano, quella con i meravigliosi quadri estremi orizzontali non sono state messe le didascalie? Perché alcune frasi di Burri sono state ripetute più volte (non se ne trovavano altre?)? Perché non osare una mostra sul secondo Burri, dando una fisionomia più sensata e ragionata a questa mostra?

Written by giuseppefrangi

Dicembre 10th, 2008 at 12:50 am