Robe da chiodi

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La gara tra Mazzoni e Gaudenzio

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Maurizio Cecchetti recensisce su Avvenire la mostra modenese dedicata a Guido Mazzoni e Antonio Begarelli. Un vero festival della scultura,  con qualcosa che però non convince e che, almeno mi sembra, non convinca anche il “corregionario” Cecchetti. Mi spiego.

mazzoniMazzoni vien giù dal modello inimitabile del compianto “tarantolato” di Nicolò dell’Arca a Santa Maria della Vita a Bologna. Ma Mazzoni addomestica la “bestia” (cioé la scultura), la riporta dentro il perimetro della sopportazione. Il Compianto di Busseto, arrivato in mostra, è un capolavoro laddove riesce ad essere trattenuto (la figura delle Marie allineate e come incapsulate nei loro manti, nella foto). Lo è meno dove cerca di innescare l’alta tensione, in stile Nicolò. Una mostra da vedere, nonostante quel titolaccio che rimanderemmo immediatamente al mittente: “Emozioni in terracotta”. Un titolaccio traditore, che riduce la scultura a mess’in scena di cartapesta. Non è così evidentemente, perché il grande mistero della scultura sta nell’interiorizzazione della materia, che non è più mezzo della rappresentazione, ma corpo stesso della rappresentazione. Mazzoni, sotto questo profilo, ci prende quando la sua terracotta si fa lacrima non quando si fa grido. Quando si ritrae, non quando si esagita. Detto questo, non solo in quanto lombardo, rivendico con convinzione che gli scultori del Sacro Monte di Varallo, Gaudenzio in primis, hanno un qualcosa che a Mazzoni manca. Non hanno bisogno di quell’intenzionalità che invece è sempre così esplicita nello scultore modenese. E la differenza la cogli là dove non te ne accorgi: nel corpo del Cristo morto. Lì Mazzoni sembra improvvisamente diventare inerte, quasia che l’inespressività di quel corpo lo paralizzasse. In Gaudenzio succede il contrario, vedasi il capolavoro della cappella 32, il Cristo di legno, dimesso e quasi appartato, che si prepara a salire le scale del pretorio. Non dà nell’occhio, quasi lo passi senza accorgertene. Ma se lo guardi lo scopri immenso nella sua umiltà, con il legno che sanguina come la carne.

In un ideale classifica delle (per me) più belle sculture del secondo millennio, quel Cristo ci sta di sicuro. Prossimamente la stileremo…

Written by giuseppefrangi

Marzo 25th, 2009 at 11:55 pm

Canova, fu vera carne?

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Con una bella recensione alla mostra di Forlì su Avvenire (martedì 27)Maurizio Cecchetti tenta di riscattare Antonio Canova dal feroce e definitivo de profundis che Roberto Longhi gli affibiò nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana: «Lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove». Cecchetti tenta il recupero, accusando l’obbrobrio di un Canova «cucinato alla Winckelmann» con i restauri alla candeggina dei capolavori dell’Ermitage. All’opposto non c’è Canova senza le patine che stendeva sui suoi marmi per renderli vivi (sino all’aneddoto del rossetto steso sulle labbra di Ebe). «…nelle sue levigatissime sculture, mostrando il marmo una leggera vena, ecco che lui, disperato, la copre con le patine, perché la bellezza della carne gloriosa, la carne del paradiso deve essere più desiderabile della carne terrestre». La chiave di lettura è suggestiva e intellettualmente generosa. Ma a me resta una invincibile ritrosia davanti a Canova. Le mani non affondano mai nel marmo come se fosse carne. Tutt’al più danzano. Della carne scorgo solo un simulacro. Canova si tiene sempre fuori con un’abilità e un eclettismo invidiabili. Molto più vicino a Jeff Koons che a Bernini. E son certo che se avesse avuto a disposizione la plastica, non l’avrebbe di sicuro disdegnata.
Per dirla tutta, amo più il Canova mattatore culturale tra papi e imperatori che il Canova scultore (e poi non riesco a perdonargli l’idea tetra delle tombe a piramide in cui, tra l’altro, è finito anche il suo cuore…)

canova_grazie

Written by giuseppefrangi

Gennaio 30th, 2009 at 12:19 am

Bellini in periferia

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Mi ha commosso vedere spuntare sull’invito di una mostra che si terrà alla Pinacoteca provinciale di Bari il volto di questo San Pietro Martire di Bellini. La mostra viene organizzata in occasione del restauro della tavola. Dobbiamo immaginarla nelle sue dimensioni ragguardevoli: 194 x 84 cm. Non era la prima volta che Bellini affrontava san Pietro Martire: lo aveva fatto in quel “verde” capolavoro con la rappresentazione della scena del martirio, oggi conservato al Courtauld Institute di Londra. Intorno al 1487 questa tavola di Bari, anche firmata “Ioannes Bellinus”, venne imbarcata da Venezia e raggiunse le coste pugliesi per arrivare alla sua meta, la chiesa di San Domenico a Monopoli (Pietro Martire era santo domenicano). Oggi “riappare”, con questo suo volto di un patetismo solenne, con questa dolcezza potente negli occhi. Come disse Longhi: «Una calma che spazia tra i sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso».

La mostra apre l’11 ottobre, con tanto di catalogo per illustrare il restauro e di convegno con intervento di Carlo Bertelli, su «Giovanni Bellini dalla laguna all’Adriatico».

La mostra romana di Bellini oggi è oggetto di una bella recensione di Maurizio Cecchetti su Avvenire.  Ancora una volta Mauro Lucco, che avvea già curato la mostra su Antonello sempre alle Scuderie del Quirinale, usa dell’occasione per attaccare la lettura di Longhi («L’argo­mentazione del Lucco è serrata, si abbandona in certi momenti a u­na prosa sarcastica e stucchevole»). Ancora una volta nel mirino è la centralità di Piero della Francesca, affermata da Longhi e già spiegata da Ferdinando Bologna. Scrive Cecchetti: «Ferdi­nando Bologna dava di ciò una spiegazione apparentemente lo­gica, ma certo non meno ipoteti­ca della stessa forza argomentati­va della prosa longhiana: “Il pro­blema dell’orma di Piero non è già di natura appunto morfologica e grammaticale, bensì di ordine sin­tattico e strutturale” . È come so­stenere che Piero rivive in Bellini per un transfert che si palesa nel­la mente dello spettatore quasi per telepatia. Va invece colta la pre­gnanza del discorso longhiano, considerandone le forzature di ta­glio ideologico- critico, come quando per vedere in profondità occorre sfocare il particolare in primo piano».

Written by giuseppefrangi

Ottobre 7th, 2008 at 8:22 am