Robe da chiodi

Le valigie di Mauri, esercizio di umanità

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In fuga dalla monumentale depressione di Boltanski, ecco che mi viene “offerta” quest’altra installazione (merci!), sempre realizzata con resti di oggetti vissuti. È di Fabio Mauri, figura affascinante e trasversale («turista di tutte le arti possibili» lo ha definito Lea Vergine), morto lo scorso anno. A Venezia alla Fondazione Cini è stato esposta questa sua opera, Muro Occidentale o del Pianto, presentata nel 1993 alla Biennale. È un muro di quattro metri per quattro, composto da una catasta di valigie di cuoio e legno di varie dimensioni. Nella parte anteriore, le valigie compongono una struttura architettonica geometrica e regolare, il retro, invece, è mosso, molto plastico con una serie di dislivelli. «È un collage a piombo», aveva spiegato Fabio Mauri in una delle sue ultime interviste. «Ne deriva la possibilità di far quadrare e convivere qualsiasi tipo di diversità. Siamo dissimili, ma tutto si può comporre, è solo questione di pazienza e umanità esercitata».

Diceva che l’artista è come un buon soldato, che combatte la sua guerra per il mondo mantenendo uno «stato di coscienza esercitato». E che crea opere che sono «partiture, strutture capaci di vivere di per sé, nel mutare degli uomini e delle donne che l’incarnano» (è bello imbattersi in artisti che hanno una così profonda e seria autocoscienza: le loro parole si applicano perfettamente alle loro opere).

Written by giuseppefrangi

Febbraio 1st, 2010 at 11:44 pm

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Gli stracci di Efeso

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A proposito di vestiti-stracci alla Boltanski, l’amica Paola Marzoli mi manda questa mail con foto allegata.

Mi ha molto colpito e ve la propongo (con la sua autorizzazione): «Boltanski è specchio fedele del mondo  visto appunto dal Grand Palais. Dalla vetta del successo. Subito mi ha ricordato un passaggio densissimo della mia vita. Nel 2003  ero andata ad Efeso… Ho seguito un po’ controvoglia gli amici  che sopra la  città romana, per dovere di turisti superpartes, sono  andati alla ‘casa della Madonna’.  C’erano molti pellegrini sia  cristiani ma soprattutto mussulmani.  La Madonna è venerata dai  mussulmani e mi sembra che chiamino il santuario di “marien manà”   circa “maria mamma”.   Allora ero molto infastidita dalle espressioni  del pellegrinaggio popolare.  Davanti alla casetta ho fotografato  quello che vedi sotto in diversi ravvicinamenti. Graticci all’aperto su  cui ogni pellegrino annoda uno straccetto con la sua preghiera.  Ho  messo uno straccetto anch’io. Così.  A questi straccetti votivi appesi alla pietà di “marien manà” mi ha  riportato Boltanski.
Anche esteticamente molto più belli del suo mucchio. Ma così è.  Boltanski non dice bugie.
A Efeso i frammenti, gli stracci della nostra miseria di poveri  pellegrini turchi  stesa ad asciugare davanti alla Madonna. Boltanski come un Prometeo deluso e non arreso gonfia i suoi stracci  esponendo se stesso alla gloria del pubblico e della fama personale al Grand Palais».

Non so a voi, ma a me sembra che qui emerga quella dimensione che manchi a Boltanski: il senso che nulla può essere ostacolo alla bellezza.

Written by giuseppefrangi

Gennaio 30th, 2010 at 11:56 am

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Boltanski, tristissima grandeur

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Sta raccogliendo consensi entusiastici la gigantesca installazione che Christian Boltanski ha realizzato sotto le volte del Grand Palais di Parigi. La materia prima sono i vestiti dismessi: disseminati sul pavimento a comporre quadrati regolari tra i piloni di ferro e poi ammucchiati alla fine del percorso in un’enorme montagna che si alza sotto la cupola del Grand Palais. Lì c’è una gru che continua ad “azzannare” i vestiti e a ributtarli in cima al mucchio. Non ho visto l’installazione che s’inserisce nel ciclo Monumenta. Ma girano tantissime immagini (qui ne vedete di belle) e mi permetto di osare qualche idea. Il titolo che Boltanski ha dato all’opera è volutamente ambivalente: “Personne”, che in francese sta per “persona” e per “nessuno“. Mi sembra che la seconda accezione sia più decisiva per la comprensione dell’opera, che racconta una riduzione a nessuno delle persone. È l’idea di un’umanità depredata, svuotata. Ridotta a straccio. Il freddo che Boltanski ha imposto nel palazzo trasmette (immagino) quella sensazione sulla propria pelle. C’è come un desiderio di castigazione e forse anche di autocastigazione. Ne deduco che quella di Boltanski è arte depressa. Al visitatore non resta che farsi auscultare il cuore alla fine del percorso, per accrescere quell’altra opera strana dell’estroso Boltanski: raccoglie (per conto di una fondazione giapponese) le registrazioni dei battiti dei cuori: è già arrivato a 30mila. Evidentemente siamo all’ultima stazione dell’intimismo. Siamo in un  cerchio senza uscite. Scusate, ma godere di starci dentro non è segno di buona salute mentale…

Stracci per stracci molto più interessante il cortocircuito della Venere di Pistoletto. Lui confondeva i registri, abbassava Venere o forse innalzava davvero gli stracci. Comunque creava una novità estetica vera. Lasciava e lascia spiazzati. Io ho sempre pensato che se Venere si vestisse di quegli stracci sarebbe elegantissima. Gli stracci di Boltanski invece ti mettono addosso tristezza e non ti scaldano neppure…


Written by giuseppefrangi

Gennaio 26th, 2010 at 11:32 pm

Ma la street art resti al posto suo

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Dalla newsletter sempre molto ben fatta di Exibart, veniamo a sapere che uno dei nuovi alberghi di extralusso aperti in questi ultimi tempi a Milano, il Boscolo di corso Matteotti, si appresta ad ospitare una rassegna di opere di street art. I nomi degli invitati sono tutti rigorosamente rockettari, punk, alternativi: FlyCat, Airone, KayOne, Mambo, Sea Creative, El Gato Chimney, Ericsone, Tak, Mr. Wany, Raptuz. Ma diciamoci: che ci fanno negli ambienti tardo pop progettati da Italo Rota per quell’albergo da milionari? È il solito vezzo dei ricchi, che vogliono restare ricchi ma darsi una patina ribellistica. Nossignori, i ricchi facciano i ricchi. Sono meglio quelli che coltivano gusti aristocratici. Come sono meglio gli artisti di strada che accettano la sfida della strada.

A proposito dei quali: molti mi hanno chiesto informazioni sul Murales di Lambrate realizzato a Milano da Blu. Lo si trova al lato della stazione, ma aldilà del tunnel che passa sotto i treni (lato via Rombon). Affrettatevi, perché sta molto soffrendo per l’umidità. E a fianco ne vedrete un altro sorprendente, realizzato da un altro writer che merita attenzione e che si firma Ericailcane (bolognese pure lui). Eccolo qua sotto, intanto.

Written by giuseppefrangi

Gennaio 21st, 2010 at 1:54 pm

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Gio Ponti come Ettore Spalletti

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Ieri un po’ per caso sono capitato a Milano davanti alla chiesa di San Luca costruita da Gio Ponti. È in una posizione molto defilata, zona via Porpora. Non è su una piazza, ha un lotto non grande in mezzo a condomini dai sei piani in su. Insomma una chiesa mangiata dalla città. Ponti ha dovuto lavorare con pochi mezzi e pochi spazi. Ha innalzato il piano della chiesa per fare stare sotto tutte le strutture di servizio, ha pensato una pianta elemenare a capanna che si annuncia nella facciata, di una semplicità straordinariamente accogliente: infatti è leggermente convessa e arretrata di pochi metri e protetta da una tettoia a capanna che scende a chiudere anche i lati. Devo dire che poche chiese del 900 mi ha subito comunicato l’idea di essere “semplicemente” chiesa, senza nessun sovraccarico di altri significati. Anche l’interno è semplice  (a parte il presbiterio rifatto e un po’ pasticciato, stile marmi levigati): con le fasce bianche e azzurre della grande parete absidale, su cui domina un semplice crocifisso in legno di olmo. Una cosa un po’ francescana e un po’ neo romanica senza passatismi (del romanico a fasce di Pisa). Ma quello che più sorprende è la grande volta della chiesa dipinta tutta di un azzurro intensissimo. Una volta color Madonna. Sembra un Ettore Spalletti ante litteram (qui trovate un po’ di foto).

Written by giuseppefrangi

Gennaio 17th, 2010 at 5:56 pm

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A me Brera piace così

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Stavolta sembra su Brera si faccia sul serio. Carlo Resca, direttore del Ministero dei Beni culturali, è stato delegato a seguire il progetto della Grande Brera dentro le inistiave per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Al centro della questione c’è il trasferimento dell’Accademia, su cui tutti sembrano d’accordo, tranne i diretti interessati, che ne fanno una questione di metri quadrati: gli spazi delle caserme di via Mascheroni, destinazione futura dell’Accademia sarebbero inadatti e troppo scarsi. Più che una questione di spazi io ne farei una questione di contiguità. Il valore aggiunto di Brera (Accademia) sta nello stare al piano di sotto di Brera (Pinacoteca). È un filo diretto che crea disordine, che limita gli spazi ma che ha fatto la storia di Milano. Ha fatto contaminazione tra passato e presente. So che è un’idea controcorrente, ma io l’Accademia non la sposterei mai da lì. E non so se gli spazi davvero manchino, visto che il grande Palazzo Citterio dal 1972, acquistato da un previdente Franco Russoli, sono ancora lì che attendono la loro destinazione. A me sembra che il problema sia la volontà di fare una pinacoteca pulita e asettica, su misura per un turismo che a Milano in realtà non esiste. Un luogo turistico a tutti gli effetti, secondo gli standard un po’ demenziali del turismo culturale di massa di oggi. Invece amo lo sporco di Brera, le scritte, il disordine. Mi dicono che lì c’è vita. E che un po’ di quella vita è risultante della luce dei capolavori che stanno al piano di sopra. E non credo davvero che sia romanticismo…

Written by giuseppefrangi

Gennaio 13th, 2010 at 3:07 pm

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Quel bellissimo murales di Lambrate

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Qualche giorno fa passando per la stazione di Lambrate, a Milano, ho visto un murales sorprendente. Lo ha realizzato un writer di Bologna che poi ho scoperto essere un nome molto conosciuto, che si firma con lo pseudonimo Blu (c’è anche una monografia su di lui). Il murales di Lambrate (qui le foto) è immenso e si allunga su un muro ribaltando, in modo immaginifico, la gerarchia quotidiana del traffico cittadino: una marea di piccole macchine vengono schiacciate dalle ruote di ciclisti “ciclopi”. L’effetto è spiazzante, il segno grafico è molto efficace ed insieme evocativo, come quello di un William Kentridge nostrano. Decisamente questo è un modo di sfondare un muro, di dare una visione che che fa pensare e insieme fa divertire. Una riscossa simbolica di cui tutti ci sente parte.

Che cosa distingue questo murales dai mille altri che colorano (o appestano) i muri di Milano? A parte la differente qualità degli esiti, credo che la differenza vera stia nella genesi. Qui i murales sono capacità di rendere pubblico e visibile un sentimento diffuso. Di creare immagini provocatorie, ironiche, ma ultimamente partecipate. Diventano un  fatto pubblico nel senso pieno del termine. Invece la deriva che la street art ha preso specie in una città come Milano è una deriva di narcisismo (non per niente era stata celebrata due anni fa con una tremenda mostra al Pac dal principe dei narcisisti, Vittorio Sgarbi). È espressione ombelicale; pura istintività che parla tutt’al più ai compagni d’avventura e infastidisce tutti gli altri. Se li guardate, vedrete che nella gran parte sono solo varianti, più o meno bello, dei “tag”,  cioè delle loro firme. In sostanza il murales coincide con la firma. Non si va al di là di questo. In sostanza è ripetizione infinita di un solo motivo. Per fortuna c’è anche Blu…

Il murales di Lambrate è anche merito della volontà di una gallerista (Patrizia Armocida) e di un dirigente di Trenitalia (Marco Vincenzo Raimondi).

Written by giuseppefrangi

Gennaio 8th, 2010 at 11:58 am

Caravaggio, lasciamolo nudo

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Prepariamoci al profluvio caravaggesco per il centenario.  La mostra romana si annuncia molto sotto le aspettative, una delle tante viste in questi anni, con poco di più. Mi sarebbe piaciuto vedere i grandi quadri di San Matteo fuori dalla cappella, ma non sarà così (uscirono per la grande mostra longhiana a Milano del 1951: bei tempi, mostre serie…). Tra le prime uscite giornalistiche dell’anno centenario dobbiamo registrare l’articolessa di Antonio Paolucci, uscito domenica 3 gennaio su Avvenire. Un articolo da tuttologo cravaggesco: niente di che. Ma mi ha colpito il finale, in cui Paolucci cita Longhi, dai Quesiti Caravaggeschi del 1928-29: «Il dirompersi delle tenebre rivelava l’accaduto e nient’altro che l’accaduto». Citazione straordinaria Peccato che Paolucci la chiosi in modo disgraziatissimo: «Occorre aggiungere tuttavia che il mondo svelato dalla luce con inesorabile obiettività per Caravaggio è (può essere) un mistero ontologico abitato dai segni del Sacro». Punto primo: mi tengo istintivamente alla larga dal Sacro con la S maiuscola. È un cappello indebito e anche un po’ ambiguo messo sull'”accaduto”. L'”accaduto” basta e avanza, come emergere di Dio nella storia. Punto secondo: quella di Longhi è un’intuizione straordinaria per capire Caravaggio dal punto vista critico; la sua è capacità di fissare in modo fulminante l’accaduto, di non farne una rievocazione ma un “accaduto” che accade nel suo presente. Non è un caso che Longhi nella presentazione alla mostra milanese aveva scritto che la categoria chiave di Caravaggio, quella che dà ragione della sua novità, è quella dell’“oggi”. E per chiarezza aveva messo “oggi” in corsivo.

Sempre a proposito del nostro segnalo l’intervento di Marco Bona Castellotti su Il sole della domenica (3 gennaio). Nell’articolo si anticipa una “scoperta” di Rossella Vodret in un libro  di prossima uscita: i dipinti a muro sull volta del Casino Ludovisi a Roma (gli unici che si conoscano di Caravaggio) sono tre autoritratti, fatti mettendo lo specchio sotto i piedi. Si vede Caravaggio, spavaldo, nudo, con il sesso in vista, che si rappresenta in tre scorci arditi. Sotto, nella stanza, il cardinal Del Monte faceva i suoi esperimenti alchemici in questo suo rifiugio defilato. Caravaggio risponde con l’unica alchimia che gli appartenga: quella del corpo e della realtà messa a nudo (letteralmente). Il tutto, sempre, alla luce del sole.

Written by giuseppefrangi

Gennaio 6th, 2010 at 3:35 pm

Van Gogh non dipingeva con l'orecchio

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Curiosamente si è riaccesa nell’arco di poche settimane la querelle sull’orecchio (auto)mutilato di Van Gogh. Prima un’ipotesi che mette sul banco degli imputati Paul Gauguin, ora una più intrigante che scova in una lettera al fratello “dipinta” sul tavolo di una Natura morta con tavolo da disegno, pipa, cipolla e cera (al Kröller-Müller di Otterlo) del gennaio 1889, il casus scatenante la scelta autolesionista di VG. Nella lettera VG metterebbe in guardia il fratello dal matrimonio: insomma una scena di gelosia verso la prossima cognata, Johanna Bonger. In realtù sul tavolo c’è una lettera con ben in evidenza il destinatario. L’ipotesi è curiosa e mostra una certa coerenza con le lettere note di VG  sul tema matrimonio del fratello. Ma la rivelazione di Martin Bailey, pubblicata The Art Newspaper, sembra una classica operazione di lancio della mostra che a gennaio si aprirà alla Royal Accademy dedicata alle lettere di VG. Lettere di cui è uscita un’edizione straordinaria che oltre ad essere completa è corredata dalle immagini dei quadri e dei disegni di cui VG parla nelle singole lettere (in sei volumi, in tre edizioni, inglese, francese e olandese).
Sul fattaccio del dicembre 1888, mi resta impressa l’idea lasciatami dalla straordinaria mostra di qualche anno fa ad Amsterdam, tutta dedicata al sodalizio VG- Gauguin. Quel sodalizio di 66 giorni esplose per un approccio radicalmente opposto tra i due sulle questioni chiave del fare artistico. E l’opposizione ha segnato un solco profondo che segna anche buona parte del 900 (realtà vs visione). Quindi quel conflitto, così preciso e così dettagliato, mi sembra ragione più che sufficiente per spiegare il gesto di VG. Detto questo, come scrive in una pagina di un suo racconto Foster Wallace, «non è che VG dipingesse con l’orecchio». Perciò occhio a non dar troppo peso al fattaccio. VG dipingeva con un’altra energia: e ho trovato una buona sintesi in un libretto di John Berger, appena tradotto in italiano e dedicato al Disegno. Scrive Berger, che l’energia di VG è un’energia di amore verso le cose che dipinge. È questo che lo muove e che commuove (commosse ad esempio Francis Bacon, che a Van Gogh ha dedicato una celebre “suite” ispirata a un quadro che per altro non c’è più, l’Autoritratto sulla strada di Tarascona. Un inno alla foga innamorata che muove ogni mattina l’artista verso la propria vocazione).

Written by giuseppefrangi

Dicembre 30th, 2009 at 11:24 am

Le sventole del 2009

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Dicasi “sventola”, quel coup de foûdre che arriva quando non te l’aspetti. Quell’effetto di sopravanzamento che ti dà una cosa ovviamente non prevista ma che va oltre ogni attesa preventivata e preventivabile. Il dinamismo della “sventola” è espresso bene in questa definizione di Damien Hirst: «Che cos’è la grande arte? La grande arte è quella che ti fa fermare quando giri l’angolo e dire, “cazzo, cos’è?” È quando ti trovi davanti ad un oggetto col quale hai un rapporto personale fondamentale, stretto e capisci qualcosa sull’essere vivi che non avevi mai capito prima». Andando a vedere mostre o luoghi in cui ho messo piede per la prima volta nel 2009 le sventole non sono mancate.

Non è una classifica qualitativa, piuttosto disordinatamente cronologica. Classifica in fieri.

1.  La sala finale con gli acquerelli di Morandi al Mambo di Bologna. Pittura fatta con il fiato, ma di una consistenza indicibile.

2.  La sala cripta alla Biennale di Nathalie Djurberg. Una  foresta di fiori di carne

3.  La sala di Sigmar Polke alla Punta della Dogana. Un’ambizione di grandezza e di solennità dimenticata, un’enigma che si scioglie nell’immensità di uno spazio di caramello.

4.  Il salone d’ingresso alla mostra di Cy Twombly a Roma, con le sculture totem delicatamente sfarinati dal tempo, con la grande tela rossa a fare da scenario.

5.  La sala blu della mostra di Yves Klein a Lugano. La sua preghiera a Santa Rita è tra le cose più belle lette quest’anno. I busti blu sulle lastre d’oro sembrano pezzi dell’oggi accarezzati dall’eternità.

6.  La villa Poiana di Palladio, a sud di Vicenza. Vista in una giornata di primavera, la solennità di un tempio greco adattato alla dimestichezza della campagna.

7.  Il grande crocefisso barbarico a San Domenico a Chioggia. L’enorme testa di spine, che si regge non si sa come su un corpo scheletrico e “rachitico“.

8.  Il San Sebastiano di Mantegna nel tempietto allestito dal barone Franchetti alla Ca’ d’Oro di Venezia. Un bombardamento nucleare di frecce. “Cetera fumus”, sul cartiglio della candeletta accesa alla base.

9.  I due disegni di Michelangelo con la pianta di San Giovanni dei Fiorentini, alla mostra su Michelangelo architetto a Roma. Come tenere sotto controllo, una spasmodica energia centrifuga che si sprigiona sulla carta (immagine qui sotto).

10. Il colpo d’occhio davanti agli affreschi della Farnesina nella prima sala della mostra della Pittura Romana alle scuderie del Quirinale. Geografie e geometrie di un Boetti di qualche decina di secoli fa… (il più bell’allestimento dell’anno: Ronconi-Palli).

11. Bacon alla Borghese. In particolare il Trittico per George Dyer (il vuoto della modernità dentro una gabbia architettonica impeccabile) e l’omaggio a Van Gogh (un incendio improvviso, una deflagarazione di passione, una breccia nel destino, in fondo al corridoio).

Written by giuseppefrangi

Dicembre 26th, 2009 at 11:58 am