Robe da chiodi

Archive for the ‘Fabio Mauri’ tag

Fabio Mauri, a occhi sbarrati davanti all’Apocalisse

leave a comment

Fabio Mauri è un artista che amava sempre procedere sottotraccia. Negli anni 80 aveva lavorato attorno ad una serie di carte che ha lasciato “senza titolo” ma che palesemente rappresentano una riflessione a partire dall’Apocalisse. Sono carte a tecnica mista di straordinaria bellezza, quasi dei fogli segreti, nati da un sostrato sofisticato di pensiero. Usciti dai cassetti dello Studio Fabio Mauri, l’archivio che gestisce intelligentemente la sua eredità, hanno permesso la realizzazione di una mostra, che come spiega la curatrice Francesca Alfano Miglietti è la sua «prima grande mostra di disegni… opere che si lasciano spiare nel loro farsi» (Fabio Mauri. Opere dall’Apocalisse, Galleria Viasaterna, Milano, fino al 1 aprile).

I lavori di Mauri, per loro natura, sollecitano sempre domande: scaturiscono da percorsi di coscienza assolutamente personali, ma sfociano ogni volta su un orizzonte pubblico, come lui stesso aveva spiegato in un’intervista del 2007 a Stefano Chiodi, pubblicata su Doppiozero: «L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza, sono operazioni pubbliche ma fortemente individuali, quasi private. Diventano politiche nella lunga durata».

Anche nel caso di questa serie di disegni, le domande possono essere molteplici. Ad esempio, da dove è scaturita la necessità di questo confronto con il testo più enigmatico della Bibbia? Va precisato che si tratta di un confronto linguisticamente strutturato. Nei fogli gli echi delle parole di San Giovanni risuonano nella forma di spezzoni di oggetti, le trombe in particolare, ma soprattutto nella dimensione spaziale che evoca un dopo-storia, un mondo sul ciglio di una rivelazione finale. L’intensità della luce di questi disegni è un altro fattore che richiama l’intensità folgorante e senza appello delle parole del testo biblico. Mauri non agisce per suggestioni, ma accetta di farsi permeare da questa febbre visiva, senza mai smarrire il controllo del suo lavoro. Se il dettato di partenza può apparire enigmatico, il suo intento è sempre quello di approdare ad una esplicitezza, ad un’evidenza. «Procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce anziché di buio è il mio personale Not Afraid of the Dark», diceva di sé. Sono perciò disegni che deflagrano davanti ai nostri occhi con i loro colori e le loro forme; disegni visionari ma mai cifrati, segnati da una chiarezza di senso che non lascia mai nulla nell’indeterminatezza. 

Da dove dunque scaturisce la necessità di questo confronto con l’Apocalisse? Certamente il ciclo è parte della riflessione sulla storia, portata avanti in tutta la sua opera. È un’indagine sul destino e sul mondo («L’arte che si politicizza in realtà è l’arte che approfondisce la coscienza e la conoscenza del mondo», sosteneva). Il ciclo di carte ripropone anche l’importanza che la riflessione religiosa ha sempre avuto nella sua vita e nel suo lavoro, pur restando, come nel suo stile, sottotraccia; una riflessione tanto più profonda quanto meno veniva proclamata. Se ne può trovare l’origine nell’esperienza giovanile a Civitavecchia, nel Villaggio dei Ragazzi, dove con un sacerdote si era preso cura per otto anni di ragazzi rimasti orfani per la guerra, facendo l’istruttore. Con loro aveva mantenuto i contatti, come ha testimoniato il fratello Achille, chiamandoli sempre i suoi “fratellastri”. «Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?», gli aveva chiesto Chiodi nell’intervista del 2007. «La fede. Io ormai so che Dio c’è», era stata la sua risposta, dove è significativo il persistere del tempo verbale al presente. Era stato importante per lui anche il rapporto con padre Davide Turoldo, di cui aveva illustrato nel 1948 un libro di poesie, “Io non ho mani”. Personalmente ho il ricordo di un meraviglioso disegno con “Cristo in bicicletta”, verosimilmente di quello stesso periodo, visto alla retrospettiva milanese di Palazzo Reale del 2012. Erano gli anni in cui un altro grande amico di padre Davide, Giovanni Testori, concepiva il suo racconto d’esordio, “Il Dio di Roserio”, ancora un “dio” in bicicletta…

Risale invece agli anni ’80 “Dio in scena”, la performance-conferenza tenuta a Milano alla Galleria Marconi, nella quale Mauri aveva condensato, come sua abitudine, gesto, pensiero, scrittura e visione, non senza una punta di ironia. In quell’occasione il suo obiettivo era anche quello di capire se «a Dio piace l’arte moderna e se per caso gli era piaciuto quello che faccio io». La risposta “trovata” era aperta a più possibilità: «A Dio piaceva Picasso. Certe cose che ho fatto forse gli sono piaciute…». 

Si può stabilire anche un raccordo tra il ciclo dell’Apocalisse e una delle sequenze che più hanno segnato il suo percorso, le serie “End”, avviata nel 1966 e replicata fino alla sua morte. Mauri ha preso in prestito il linguaggio del cinema per catturare quel momento finale a cui aggrapparsi prima che lo schermo diventi nero. Come ha ricordato Ivan Barlafante, suo assistente e oggi tra i promotori dello Studio Fabio Mauri, l’ultima versione di questa lunga serie era stata realizzata nella casa dell’artista, poco prima che morisse. L’aveva voluta incisa nel cemento, tanto che per l’occasione era stato necessario proteggere dalla polvere i libri e gli arredi con teloni di plastica. Lo stesso Mauri aveva osservato il lavoro sbucando da un foro fatto in quei teloni… “The End” rappresenta un modo di mettersi come sempre su una linea di confine e forse di agganciare l’inesprimibile, l’altrove.

Il ciclo esposto a Milano fino ad ora era sempre rimasto nel cassetto. Eppure alcune delle carte erano state incorniciate da Mauri stesso, con una scelta calcolata circa le misure e il colore del passepartout. È difficile pensare che lui potesse realizzare opere destinate a restare confinate in un ambito privato: il rapporto con il mondo è un fattore costante e anche portante della sua riflessione artistica. Questo non toglie che, come sottolinea Francesca Alfano Miglietti nel testo scritto per la mostra, in Mauri «il disegno sembri fungere da metodo di ricerca e parallelamente da zona franca della visionarietà». C’è quindi una differenza tra l’artista delle installazioni e delle performance e quello delle opere su carta, ed è una differenza che ha una sua ragion d’essere, come evidenzia la curatrice: infatti «è proprio questa dualità, ancora una volta, ad evidenziare l’attitudine di Mauri a non irreggimentarsi in nulla di dogmatico e di definitivo».

Certamente oggi è difficile non mettere in relazione questa serie di disegni di Mauri con quanto sta accadendo nel mondo. Qualunque forma prenda, la sua arte finisce con l’incrociare la storia, con le sue tragiche costanti. Ogni lavoro funziona in particolare come presa di coscienza rispetto al demone dell’ideologia totalitaria, «quel modo in cui l’uomo pone attorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo». Anche se i disegni dell’Apocalisse rappresentano uno sporgersi sul dopo-storia, la scena resta sempre ingombra delle rovine della storia. A questo proposito, la mostra presenta anche un’altra serie di disegni folgoranti, quella degli “Scorticati”. Sono disegni, riferibili sempre agli anni ’80, realizzati con colori fluo. L’aspetto abbagliante va in contrasto con il soggetto, evidenziato dal titolo del ciclo: volti spettrali, che sembrano trafitti e quasi arsi da radiazioni. Mauri fa memoria delle immagini dei genocidi novecenteschi, ma come sempre il suo sguardo non si chiude sul passato e continua con piena evidenza a interpellare il presente. Come lui diceva, opere che «diventano politiche nella lunga durata».

Written by gfrangi

Aprile 23rd, 2022 at 11:06 am

Posted in Mostre

Tagged with

Il bagno di Fabro nella fontana di Bernini

leave a comment

Il 16 marzo 1978, giorno drammatico del rapimento Moro, uno strano corteo si mosse per una Roma deserta e militarizzata. Era partito da via Gregoriana, dove Luciano Fabro era andato a prelevare da un collezionista una sua scultura: “Io (L’uovo)”, un bronzo concavo all’interno, realizzato sulle misure dell’artista in posizione fetale. Imbracciando quel suo alter ego di bronzo, Fabro era sceso lungo via Veneto per andare a deporre la sua opera nelle acque della Fontana delle Api di Bernini in piazza Barberini. Non era solo, perché dietro di lui si era accodato un nutrito stuolo di amici, come Mario e Marisa Merz, Yannis Kounellis, Vettor Pisani con, Mimma, Francesco Clemente e tanti altri.

Nel gruppo c’era anche una giovanissima Laura Cherubini, allieva di Giulio Carlo Argan e già molto attiva sulla scena romana. È proprio lei a rievocare questo episodio in un libro appena pubblicato, in cui ha raccontato più che da vicino, “da dentro”, sei protagonisti dell’arte italiana di fine secolo (“Controcorrente. I grandi solitari dell’arte italiana”, Christian Marinotti edizioni, 198 pag., 20 euro).

Non è un libro di memorie. È una sorta di diario di bordo dove amicizia, simpatia, complicità, non intaccano quello che è il focus dell’attenzione di Cherubini: le opere. Quello stesso episodio raccontato nel capitolo dedicato a Fabro, poi si chiude arrivando al punto che più preme all’autrice. «Un’opera per me meravigliosa», scrive a proposito di quel lavoro di Fabro, «un uovo di bronzo tornito fuori, invece cavo, dorato e levigato all’interno, dove nella cavità si intravvedevano in rilievo le impronte delle mani dell’artista». È sempre l’opera che calamita l’attenzione e il ragionamento dell’autrice, e quindi anche la rievocazione di quel rito e intenso e così “irrituale” in una «Roma raggelata dalla paura», è funzionale a sottolineare la forza maieutica del bronzo di Fabro. 

Gli altri autori affratellati da questa identità “controcorrente” sono Alighiero Boetti, Gino De Dominicis, Fabio Mauri, Vettor Pisani e Marisa Merz. Il libro aggrega testi scritti tra 2004 e 2016, che Cherubini ripropone senza ulteriori interventi, ma operando in molti casi sulle note, in modo inedito e anche sorprendente. Le note sono usate infatti per ripescare dalla cassetta degli attrezzi altre informazioni e per operare nuovi agganci. Così quei testi storicizzati prendono la forma viva di file ancora aperti. 

Fabio Mauri fotografato da Elisabetta Catalano, 1968 © Eredi Fabio Mauri

A proposito di storia c’è una data che può essere presa come punto di non ritorno: Fabio Mauri la indica in quel 1964 con il grande lancio della Pop Art a Venezia e il Leone d’oro a Robert Rauschenberg. Qualcosa si spezza: Cherubini scrive che Mauri «vede in loro intelligenza e talento e riconosce la forza delle cose». Ma queste “cose” vanno nella direzione di fare del lavoro artistico un’esperienza «organica alla loro mentalità e allo loro società». Di fronte a questo “tutto unico” (così Pasolini a proposito della Pop Art) Mauri ed amici non possono fare altro che continuare in percorsi che nel titolo del libro vengono per questo definiti “solitari”, anche se alcuni di loro si aggregano in un primo tempo in quel tentativo di risposta organizzata all’egemonia a stelle strisce che è stata l’Arte povera. 

Sono percorsi nei quali l’intercapedine tra arte e vita si fa sottilissima («Creare un’opera avviene continuamente, non c’è differenza tra l’arte e la vita», ha detto Marisa Merz): il gesto di Fabro che immerge l’altro sé stesso nel liquido amniotico delle acque berniniane è ben emblematico di questa continua e necessaria fusione di piani. 

Solitari dunque, perché tenacemente fedeli a se stessi senza temere di essere fuori dai flussi forti della storia: per loro più che una scelta è un destino. Solitari non vuol dire affatto che siano isolati, come dimostra lo spontaneo aggregarsi per quella processione del 16 marzo 1978. Solitari va letto nell’accezione di un’eccentricità che li caratterizza tutti, ciascuno con un accento personale. D’altronde, come aveva lucidamente sentenziato Gino De Dominicis, «non è mai esistito un “mondo dell’arte”, ma solo opere d’arte nel mondo».

Alighiero Boetti (fotografia di Isabella Gherardi)

Laura Cherubini ha ricavato da questo giudizio un metodo di lavoro. Il suo infatti è un libro che si posiziona sempre sul piano delle opere e attraverso le opere cuce trame che portano a comporre “da dentro” i profili dei singoli artisti. È attraverso le opere, con quel loro denso carico di vissuto, che arriva a stabilire una relazione di intimità e quindi a consegnarci una narrazione aperta; storie che avvertiamo ancora capaci di implicarsi con il tempo che stiamo vivendo. Boetti, che nel 1971 sposta il suo baricentro affettivo e mentale in Afghanistan, disegna nuove mappe, ampliando gli orizzonti del mondo. Lo fa con dolcezza, cioè con il linguaggio di opere che sono sussulti poetici. L’io dell’artista si lascia prendere per mano con il candore di un neofita. Quel mondo diventa per lui la “casa”. E la casa assume la forma di un albergo, “One Hotel”, da lui aperto nel 1971 a Kabul. Sono 11 camere, spesso occupate da amici. Racconta Cherubini come Ali Ghiero (così lo chiamavano in Afghanistan) si portasse sempre dietro la cassetta delle chiavi, non se ne separava mai, neanche quando tornava a Roma: «Quell’albergo era una performance permanente, un ulteriore contributo al rapporto tra arte e vita». Il legame con Kabul lo portava a seguire con apprensione le gesta del comandante Massud, prima contro i talebani e poi contro i sovietici. La terra d’elezione di Gino De Dominici era quella dei Sumeri, la civiltà che secondo lui aveva inventato tutto, quella dell’“originarietà”: la Mesopotamia. E anche a De Dominici era toccato vivere la ferita dello sfacelo di quella terra ai tempi della prima guerra in Iraq. Solitari, eccentrici dunque, ma ben connessi con la storia.

A parte le amicizie incrociate che legano questi “solitari”, c’è un’altra predisposizione che li accomuna. È il bisogno di reinventarsi una casa. Di Boetti abbiamo detto. Fabio Mauri nel 1990 trasloca parti della propria abitazione alla Galleria D’Ascanio e le mette in vendita. Scrive Cherubini: «L’opera è un luogo d’identità, una casa». Ancora una volta arte e vita abitano sotto lo stesso tetto. «Ogni mostra è un caso personale», dice Mauri, «è una casa personale». Vettor Pisani invece trova nella cava di travertino di Serre di Rapolano, il luogo dove accasare i suoi fantasmi. Lo circonda con un recinto facendone un vero hortus conclusus. «La trasformazione della sua rêverie in un sito reale costituisce uno spartiacque nella sua opera», sottolinea Cherubini. Le testimonianze su Marisa Merz sono concordi nel dire che la sua casa fosse il suo vero lavoro. Ester Coen l’ha definita “un grande guscio” dove lei dispone e le cose e appaiono e scompaiono opere in continuo divenire. Infine Fabro, specialista di tautologie gentile, nel 1966 presenta “In cubo”: una struttura di legno e metallo, rivestita di tela bianca, che lasciava filtrare una luminosità soffusa. Un luogo da abitare con il proprio corpo, offerto ai visitatori per tagliare fuori il mondo. 

A proposito di case, Fabro aveva presentato alla Galleria Nazionale di Palma Bucarelli un’opera che consisteva in un pavimento tirato a cera e ricoperto di giornali, proprio come facevano le donne nella sua infanzia friulana, perché non si sciupasse il lavoro fatto. Cherubini ricorda che sentire parlare Fabro di quella sua opera era stato uno dei fatti che la convinsero a passare dagli studi dell’arte classica all’arte contemporanea, «perché capii che spessore e che profondità poteva avere l’arte contemporanea».

Written by gfrangi

Aprile 7th, 2021 at 3:25 pm

Le valigie di Mauri, esercizio di umanità

3 comments

In fuga dalla monumentale depressione di Boltanski, ecco che mi viene “offerta” quest’altra installazione (merci!), sempre realizzata con resti di oggetti vissuti. È di Fabio Mauri, figura affascinante e trasversale («turista di tutte le arti possibili» lo ha definito Lea Vergine), morto lo scorso anno. A Venezia alla Fondazione Cini è stato esposta questa sua opera, Muro Occidentale o del Pianto, presentata nel 1993 alla Biennale. È un muro di quattro metri per quattro, composto da una catasta di valigie di cuoio e legno di varie dimensioni. Nella parte anteriore, le valigie compongono una struttura architettonica geometrica e regolare, il retro, invece, è mosso, molto plastico con una serie di dislivelli. «È un collage a piombo», aveva spiegato Fabio Mauri in una delle sue ultime interviste. «Ne deriva la possibilità di far quadrare e convivere qualsiasi tipo di diversità. Siamo dissimili, ma tutto si può comporre, è solo questione di pazienza e umanità esercitata».

Diceva che l’artista è come un buon soldato, che combatte la sua guerra per il mondo mantenendo uno «stato di coscienza esercitato». E che crea opere che sono «partiture, strutture capaci di vivere di per sé, nel mutare degli uomini e delle donne che l’incarnano» (è bello imbattersi in artisti che hanno una così profonda e seria autocoscienza: le loro parole si applicano perfettamente alle loro opere).

Written by giuseppefrangi

Febbraio 1st, 2010 at 11:44 pm

Posted in art today

Tagged with ,