Sono stato all’Hangar Bicocca. Quasi alle nove di sera, con la luce che cominciava a calare quel pezzo di Milano, dagli spazi immensi, dava l’impressione di una grande contemporaneità ordinata. Anche l’antipaticissima università di Gregotti, appare bella nella scansione precisa e regolarissima delle finestre quadrate e bianche sull’intonaco rosso. Il tutto fa davvero grande metropoli globale, ma attraccata all’eleganza interiore del proprio passato. Milano davvero a volte lascia a bocca aperta.
L’Hangar s’innesta perfetto in questo tessuto, con la grande Sequenza, monumento musicale di Melotti che è la cifra di questo ordine contemporaneo. Dentro la location è grandiosa. E le sette torri di Kiefer sembrano un inno tragico urlato sotto le capriate immense del capannone. Sono giganteschi spezzoni da day after. Sembrano traballare sotto il peso della loro stessa grandezza, ma alla fine l’insieme s’impone, come fossero le note di un ultimativo Dies Irae. Davvero una delle grandi cose dell’arte degli ultimi decenni, senza nulla di calligrafico e senza orpelli politicamente corretti.
Il brutto dell’Hangar vien per chi deve reggere il confronto. Se poi chi ci prova è uno che punta tutto sulla retorica scenografica e sentimentale come Boltanski, il disastro è fatto. L’arte di B. si dimostra tutta letteraria, evocativa nell’ipotesi e velleitaria nelle forme. Boltanski incorpora il limite per me più insopportabile di tanta arte contemporanea: quella di non farsi i fatti suoi e di voler fare le prediche al mondo (che siano prediche anche del tutto corrette nelle intenzioni, non cambia la sostanza. Le prediche ai preti). Oltretutto questo è anche un Boltanski di risulta…
Ultima osservazione: tanta energia di questo luogo è gestita in modo farraginoso. Dalle scelte dei curatori, all’organizzazione del luogo (chiude alle sette di sera, pur ospitando all’interno un bellissimo bar), tutto sembra non all’altezza. Meno male che c’è Kiefer. (Comunque andateci, magari il giovedì sera, unica sera di apertura sino alle 22…)