Robe da chiodi

Chi ha paura del corpo e chi no. Il Vaticano, Courbet e un po’ di teatro

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Due pagine del Corsera parlando delle possibili scelte del Vaticano per la prossima Biennale. Niente di particolarmente nuovo, se non la conferma di questo punto di mediazione tra istituzione ecclesiale e arte: escludere la “fisicità” per trovare un terreno d’incontro. Quindi fuori tutti i provocatori e largo agli “aniconici”. A naso nulla di nuovo e quindi anche poco di interessante. Speriamo in uno scarto dell’ultim’ora… «La volgarità delle forme non è un problema, è l’inutilità del pensiero ad essere abominevole», diceva Eugéne Delacroix per difendere i primi libertari dalle accuse feroci da parte dell’accademia. Non è la vecchia insulsa divisione tra figurativi e astratti, ma tra un’arte tutto sommato accomodante e un’arte che rischi e crei sommovimento, con qualsiasi linguaggio lo ricerchi. Siccome la Biennale è un terreno che ha senso per essere terreno di sfide, io avrei provato a mettere a tema una narrazione contemporanea del fatto cristiano. Magari affidandola a uomini dei mondi nuovi e uscendo da questo occidentalismo che sta mostrando tanta cerebralità e una pericolosa vocazione all’anoressia espressiva. Per non ritrovarci ancora una volta in afasica compagnia con i pur eccellenti Spalletti, Parmeggiani o chi per loro…


È stata la settimana del presunto scoop di Paris Match sul ritrovamento della parte mancante del celebre quadro di Courbet L’origine du monde. Sarebbe la testa della modella che Courbet usava in quegli anni, l’irlandese Joanna Hiffernan, fidanzata di un altro artista, James Whistler. L’ipotesi ha incontrato molto scetticismo e comunque non aggiunge molto a quel quadro che evidentemente Courbet ha immaginato come un omaggio all’organo genitale femminile, “sparato” senza timidezza in primo piano. Non si sa se questa tela sia frutto di un progetto di Courbet o richiesta del diplomatico turco che ne fu il primo possessore. Ma anche in questo caso le cose cambiano poco. Il fattore decisivo e dirompente del quadro è a monte: è nella capacità di Courbet di trasformare un soggetto pornografico in qualcosa di assolutamente naturale. La scelta del titolo gioca un ruolo in questo senso: l’organo genitale femminile prima che terminale di un desiderio e di un’attrazione viene visto come finestra spalancata sulla vita. Come potente scaturigine del futuro. È un “luogo sorgivo”, e mi viene in mente la vocazione di Courbet a cercare luoghi sorgivi come soggetti della sua pittura: quante vole ha dipinto ad esempio les Sources de la Loue, il fiume che attraversa Ornans, suo paese natale? Per questo non c’è nulla di vizioso né tanto meno di pruriginoso in questo quadro, che io vedo come un grande atto d’amore, grande anche per la sua spregiudicatezza e libertà. Per questo non si può non amare un pittore come Courbet, grande alleato della realtà. Certamente non a rischio di anoressia umana…

Più che di mostre è stata una settimana di teatro. Ho incrociato in tv il Macbeth verdiano con la regia di Bob Wilson al Comunale di Bologna: una messa in scena da restare a bocca aperta, per la pulizia con cui riesce a governare quel dramma truce e a renderlo contemporaneo (guardate qui una sequenza delle scene) Dal vivo ho invece visto Il panico, regia di Ronconi dal testo di un autore argentino, Rafael Spregelburd («Si tratta di costruire un’opera sulla Trascendenza usando solo mattoncini della Banalità», ha spiegato). Visto dalla Galleria del Piccolo, quindi molto in verticale sul palcoscenico, è stata un’esperienza visiva indimenticabile. L’immenso palcoscenico lasciato sostanzialmente vuoto chiuso da due enormi velari bianchi messi ad angolo e scandito da geometrie oblique ma perfette. Una somma di asimmetrie insistite, inquiete per accompagnare il tema (il panico) ma sempre perfettamente controllate. Credo che un artista avrebbe molto da assimilare da due messe in scena così.

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Febbraio 10th, 2013 at 12:43 pm

La storia dell’arte e il tacco di Dolce e Gabbana

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Tra i quesiti proposti nel recente sondaggio del Fai per le Primarie della cultura, c’era anche l’idea di investire nell’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole. Inutile dire che la cosa mi trova d’accordo, per motivi non solo sciovinistici, anche se la proposta non ha trovato consensi massicci come altre, certamente più scontate. La Storia dell’arte è una sorta di dio minore nei programmi scolastici: scelta vagamente suicida di una scuola plasmata da Croce e Gentile e quindi orientata sull’asse filosofia-letteratura. Ma come diceva Longhi, la lingua italiana conosciuta in tutto il mondo non è quella letteraria bensì quella figurativa. Non conoscerla e non farla conoscere è quindi un atto autolesionistico. Ne va della consapevolezza di chi siamo e ne va anche quanto ad opportunità di lavoro, di investimento rispetto ad un patrimonio e quindi ultimamente anche di lavoro.

Ma c’è dell’altro, e qui vengo alla parte eterodossa del mio ragionamento. La Storia dell’arte ha come componenti costitutive, conoscenza della storia, conoscenza delle forme, conoscenza della storia materiale (l’arte, per quanto sublime, ultimamente è sempre un manufatto): cioè è la disciplina sintetica per eccellenza di quell’uomo artigiano che secondo Richard Sennett sarà il vero motore del terzo millennio.
A questo proposito segnalo una bella intervista che Gian Antonio Stella ha realizzato per Sette a Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Dice Dolce, per spiegare cos’è davvero la macchina della moda: «Manca qualcuno che si interessi. Che studi. Che capisca cos’è il nostro settore. La considerano una cosa effimera e invece è il contrario. È un patrimonio enorme, tutto italiano, tutto nostro. Che si appoggia sugli artigiani, sulla manualità. Parli di moda e ti guardano come se parlassi di una cosa evanescente… Non capiscono che per esempio il tacco di una scarpa da donna è un capolavoro di ingegneria: chi porta quella scarpa deve stare in equilibrio perfetto. Non ha idea di quanto studio ci siano dietro particolari come questi ai quali non viene dato peso».
Ecco io penso che lo studio della Storia dell’arte non sia ben di più che un laboratorio di futuri specialisti dei beni culturali (che sarebbe già una cosa salutare, vista la quantità di beni che abbiamo la fortuna di avere), ma sia un modo per alimentare a 360 gradi questa vocazione alla bellezza (sfogliate l’ultimo catalogo primavera estate Dolce e Gabbana e capirete che non è un discorso retorico).

Ps: mi ha colpito che anche Anna Coliva, festeggiando la riapertura della Hertziana di Roma ha sottolineato questa trasversalità (seppur con amarezza): «..la perizia del genio italiano si riscontra nell’abilità raggiunta nella tecnica del trasporto delle opere d’arte, forse l’unico campo in cui manteniamo primato mondiale indiscusso».

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Febbraio 2nd, 2013 at 7:14 pm

Ultimissima su Picasso

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Questa sera ultima visita guidata a Picasso. È stata anche per me un’esperienza, perché il cercare di spalancare alle persone l’orizzonte vero di Picasso diventa un esercizio che costringe a capire meglio e ad avere più chiare le idee in testa.
Mi sono mosso su due linee. Una più aneddotica: scandire le stagioni di Picasso seguendo il filo dei suoi rapporti con le varie donne della sua vita. C’è una relazione tra l’operare artistico e questi amori che non è da sottovalutare: ogni donna suscita in Picasso un approccio diverso alla realtà. La sala ipersensusale della mostra milanese con i nudi di Marie Thérese Walter parla da sola (diceva Hockney che Picasso per aver dipinto quadri come questi deve aver passato davvero tanto tempo a letto con lei). La passione successiva con Dora Maar provoca un cambio di registro, nella direzione di una drammaticità a tratti quasi ossessiva.

La seconda linea invece è stata quella di insistere molto sugli anni cruciali della genesi e dell’affermazione del cubismo. Una stagione breve, ma oltremodo decisiva. È quella la stagione in cui Picasso combatte la sua vera e decisiva battaglia, dopo la quale si ritroverà forte di una libertà e di una spavalderia che gli permetteranno di andare al galoppo per il resto della vita, facendo tutto e anche a volte il contrario di tutto.
Ma quale fu questa battaglia? Innanzitutto non fu battaglia metaforica, perché i testimoni profondi di quella stagione, Gertrude Stein e Guillaume Apollinaire ne parlano proprio in questi termini. È una lotta ci dicono. Un combattimento. Di una prova eroica scrive addirittura Gertrude. «I grandi poeti e i grandi artisti hanno come funzione sociale quella di rinnovare senza requie l’apparenza che riveste la natura agli occhi degli uomini. Senza i poeti e senza gli artisti gli uomini si annoierebbero rapidamente della monotonia naturale… e ogni ordine svanirebbe», scrive Apollinaire.

Il cantiere delle Demoiselles conferma la drammaticità della prova che Picasso affronta: sono centinaia i disegni e i bozzetti preparatori; sei mesi di lavoro per arrivare a quel quadro che nessuno gli aveva commissionato e che solo doveva far nascere come per obbedire a una spinta che dentro lo dominava («la pittura mi ha sempre preso per mano e mi ha fatto fare quello che lei voleva», diceva Picasso). Picasso deve dare struttura a una visione nuova, vergine cioè contemporanea, della realtà. Qualcosa che non si era mai visto. L’epicentro della battaglia è il corpo; il corpo della donna, in particolare, forza generatrice di vita e polo di irresistibile attrazione. Picasso si taglia i ponti alle spalle, cala quei tendaggi alle spalle delle cinque creature selvagge. Non c’è più una possibilità di rifugiarsi nello spazio comunque sicuro prodotto dalla prospettiva. C’è solo la superficie della tela su cui si gioca tutto.

«Le pose violente delle figure sembrano vogliano rompere lo spazio scialbo del dipinto, si scagliano l’una contro l’altra per ferirsi, come se volessero superarsi reciprocamente in durezza e impeto… Picasso è interessato soprattutto all’intensità corporea» (Werner Hofmann). Vuole arrivare a mettere più oggettività, più realtà dentro la tela: far sì che le forme non siano rappresentazione di quelle presenze, ma siano tutt’uno con esse. Per questo sono forme convulse, spezzate che però per rompere il velo devono emergere con una chiarezza nuova e senza confronti. Sono loro stesse il soggetto del quadro: non un tema, non una narrazione. Loro stesse nel loro bisogno feroce di rompere il velo, di mostrarsi al mondo, di “essere”. Lo sguardo selvaggio delle cinque donne dice questo, parla di una sfida lanciata: dice che non c’è altra ragion d’essere di quel quadro se non mostrare che loro ci sono. Mettono pressione, irrompono senza essere state chiamate. Non c’è più nessuno scollamento tra le forme con cui appaiono sulla tela e le forme che le fanno essere.

La dinamica delle Demoiselles perciò è una dinamica che rovescia i punti fermi. Senza più spazio alle spalle, il loro sguardo di un’intensità selvaggia traccia un punto di fuga che sta fuori dal quadro: è come un proiettile tracciante che perfora lo spazio. Così Picasso embrionalmente concepisce il cubismo, che sarà proprio il compimento di questo ribaltamento. «Non ci si rivolta contro le consuetudini dell’illusionismo per girare le spalle al mondo delle cose; si vuole oltrepassarlo, con un contributo di realtà più grande e più preciso». «Si tratta di portare nel quadro la stratificazione spaziale degli oggetti». «Il corpo, fino ad allora chiuso, viene aperto, comunica con ciò che gli attorno e quel che gli sta attorno entra nella forma chiusa ma ormai spezzata» (Hofmann). Picasso ha consapevolezza di quello che accadendo, che non si tratta dell’invenzione di un nuovo stile “moderno” (sarà questo alla fine l’orizzonte di Braque). Si tratta di aprire un terreno nuovo per la rappresentare (mettere in scena) la densità del reale, in senso libero, aperto, contemporaneo.ù

Come spesso i grandi balzi si generano da intuizioni semplici: è quel che racconta Gertrude Stein, quando dice che Picasso ha l’ambizione di restituire sulla tela lo sguardo proprio di un bambino quando è in braccio a sua madre. Quello sguardo totale che si può generare fissando un particolare; totale perché così ravvicinato (fisicamente e affettivamente). Uno sguardo che genera una visione straordinariamente coerente: perché i quadri della stagione breve del cubismo analitico mostrano una coerenza formale indiscutibile, che sfiora una perfezione. A chi guarda (noi) il compito di inoltrarci dentro quelle immagini, senza la pretesa “passatista” di ricomporle ma inseguendo quella quantità di piani, di prospettive, di strati, di forme. Non c’è più una leggibilità univoca. Ma non c’è una complicazione: il cubismo riduce la molteplicità dei dati visibili a poche famiglie di forme a cui riesce poi ad attribuire una certa realtà: si tratta di cose che “comunicano” tra loro per affinità. Ecco perché alla fine l’approdo è altamente poetico. «La chiarezza che ne accende le forme interne, li fa nuovi oggetti, veri oggetti» (Pasolini su Picasso)

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Gennaio 27th, 2013 at 11:25 pm

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Michelangelo in Duomo e altri pensieri domenicali

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C’è una ragione anche storica perché la Pietà Rondanini faccia tappa in Duomo, dopo San Vittore e prima della sua nuova sistemazione, all’Ospedale degli Spagnoli. Sarà posizionata, sempre che nessuno si metta di traverso, nel transetto destro davanti alla tomba di Gian Giacomo de’ Medici, detto il Medeghino. Figlio di un ramo minore dei Medici, si costruì con spregiudicatezza una straordinaria carriera politica e militare. Quando morì suo fratello che era diventato papa, Pio IV (loro sorella era invece la mamma di san Carlo, Margherita Medici di Marignano), aveva chiesto a Michelangelo, come racconta Vasari, di progettare la tomba da sistemare nel Duomo milanese. Michelangelo non riuscì a realizzare la commessa, ma in compenso avrebbe realizzato il disegno della tomba monumentale, a cui l’autore. Leone Leoni, si è attenuto. Quindi la presenza seppure per breve tempo, della Pietà, coeva al monumento del Medeghino, risarcisce in un certo senso per quella mancata realizzazione.


Vista la piccola, bella mostra in omaggio a Giulio Einaudi realizzata dal nipote Malcom nelle sale laterali di Palazzo Reale a Milano. Una sala è tappezzata da tutte le copertine dei Coralli, la collana di narrativa iniziata con Pavese nel 1947. 312 libri (non solo copertine) incorniciati e sistemati con grande ordine.
A parte la bellezza grafica che contrassegna senza cadute 40 anni di storia, è affascinante l’intuizione, dopo che l’inizio era stato affidato a un illustratore, di abbinare un’opera d’arte a ciascuno titolo. Con scelte a volte di grande ricercatezza: come il meraviglioso e millimetrico particolare preso dal quadro dei Proverbi di Brueghel per Il Coltello di pietra di José Revueltas (1948)

Bello l’estratto dall’introduzione del nuovo libro di Camille Paglia uscito negli Usa (Glittering Images: a Journay Throught Art from Egypt to Star Wars), di cui avevamo già letto un’intervista sul Corriere. Riporto: «Benché sia atea, rispetto tutte le religioni e le prendo seriamente, come vasti simboli che contengono una verità profonda sull’esistenza umana. Anche se nel suo nome si è fatto del male, la religione stata una forza enorme di civilizzazione nella storia del mondo. Schernire la religione è una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione rachitica. Eppure, questa posizione cinica è diventata di rigore nel mondo artistico, un ulteriore sintomo della banale superficialità di tanta arte contemporanea». Dall’altra parte «i conservatori a loro volta, hanno peccato contro la cultura. Nonostante i loro squilli di tromba per un ritorno dell’educazione al canone occidentale, si sono comportati come filistei di provincia rispetto alle arti visive».

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Gennaio 20th, 2013 at 3:29 pm

Mostre d’inizio d’anno. Degas, Canova, Carrà e altro ancora

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A Torino, Degas dal Musée d’Orsay. Una mostra abbastanza deludente, che non serve a capire la forza contemporanea di un gigante come Degas. Peccato non aver potuto vedere quella di Basilea (L’Ultimo Degas) o quella parigina (Degas et le nu) che potevano far capire molto meglio la sua grandezza. La mostra torinese inquesto modo perpetua l’immagine per bene di Degas, l’impressionista che voleva tenere i piedi nella classicità, quando invece la forza di Degas è al contrario la sua “impresentabilità”. Oserei dire, che a guardarlo bene, è un pittore repulsivo (non per nulla Bacon lo teneva in enorme considerazione). È un artista che sotto l’apparenza dei buoni modi, in realtà fa a pezzi i suoi soggetti. I tagli sui nudi di donne sono quasi degli stupri fatti con la carezza apparente del pastello. Li dipinge con una rabbia tenuta sotto traccia, attento a non farla mai trapelare. Ma il risultato è quello di corpi la cui bellezza e il cui erotismo è passato sotto la falce di una sottile quanto inesorabile ferocia. Banalizzando si potrebbe dire che c’entri la sua impotenza, su cui ironizzò persino Van Gogh (in una lettera del 1988 insinuò che possedeva quelle signorine disegnandole con il pastello). In realtà Degas come spesso diceva, polemizzando con il resto della banda impressionista, lottava contro la “tirannia della natura”. Vedeva nella pittura un esercizio mentale. Come diceva Vollard, lui dipingeva voltandosi dall’altra parte.

Ad Alba per la mostra di Carrà. Entro staccando il biglietto (gratuito) numero 30195. Non male per una mostra dedicata a un artista da tempo abbastanza in ombra, a 155 km da Milano e 60 da Torino. È una mostra che merita di essere raccontata per il contesto: la fondazione Ferrero è un edificio sobrio e senza spocchia, a pochi passi dall’azienda madre, circondato dai campi della scuola calcio (altra attività della Fondazione) dove frotte di ragazzini di ogni nazionalità giocano e gridano. L’accoglienza in mostra è garantita dai cortesi pensionati della Ferrero. Il colpo d’occhio entrando nella sala del video è sorprendente: non la solita saletta stipata di panche, ma un vero cinema auditorium. Il filmato semplice ma molto utile per capire l’artista dura una ventina di minuti. Ogni volta la sala si svuota e si ri-riempie. Questo per dire che un’operazione di dignità culturale e civile alla fine serve anche per collocare nella giusta luce un artista: Carrà è figlio di quest’Italia, bella, amica, senza nessuno complesso di essere provincia. Un’Italia consapevole delle proprie virtù. (Certo Alba ha avuto la fortuna di dare i natale al più grande storico dell’arte del 900, Roberto Longhi: e anche in mostre e iniziative come queste il suo imprinting ancora si sente).

A Milano, le Gallerie d’Italia. Che dire di un museo del 900 che spunta a 400 metri da un altro museo del 900 aperto appena tre anni fa? Il nuovo museo di IntesaSanPaolo, aperto nei saloni dove un tempo regnava Raffaele Mattioli (era la sede della Banca Commerciale), ha qualcosa di irragionevole: una raccolta non del massimo livello (per quel che mi riguarda ho registrato una sola grande opera, Concetto spaziale. La luna a Venezia di Lucio Fontana, 1961) disposta in locali faraonici. È un’operazione sopra le righe e non riusciamo ad immaginarci la vita normale di un museo come questo una volta finito l’appeal della gratuità. Già s’è visto cos’è successo all’altro museo del 900 e quanta fatica si deve fare per conquistare pubblico, pur essendo affacciati su Piazza Duomo. Un po’ più di pensiero condiviso tra pubblico e privato in una città come Milano non sarebbe un male…

A Milano, in fila per Canova. C’è da chiedersi perché una scultura non delle più belle di Canova accompagnata da un quadro non straordinario di un pittore (François Gérard) certo non molto noto, possa attirare 200mila visitatori in un mese. Non basta dire che è l’attrazione dell’opera feticcio. In questo caso c’è un meccanismo di richiamo e un modello di proposta che funziona. È come entrare in una stanza delle meraviglie, in cui voci ben collaudate accompagnano in un breve viaggio che transita dalla storia al mito, dall’arte alla filosofia dell’amore. Non basta chiamare tutto questo “visita guidata”. È qualcosa di diverso: nel buio fasciato da proiezioni piranesiane, il pensiero stacca e si naviga trasognati nella favola di Amore e Psiche sollecittai da quei corpi così fluidi a dispetto del marmo e un po’ transgender.

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Gennaio 13th, 2013 at 7:06 pm

Epifania, il Re di Gaudenzio è come un fratello

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Gaudenzio Ferrari, Cappella dei Magi, particolare di uno dei Re. Sacro Monte di Varallo, Cappella 5

Se c’è una cappella del Sacro Monte di Varallo che mi ha sempre colpito e commosso è quella dei Magi, all’interno del complesso della Natività. Ragionando, ho trovato alcune spiegazioni per questa “preferenza”. Innanzitutto è geniale la strategia che Gaudenzio Ferrari segue per farci partecipare all’evento: la disposizione della cappella è laterale e non frontale rispetto al visitatore. Così, entrando nel complesso, ci sorprendiamo a camminare avendo al fianco il corteo dei Magi, che sono alla nostra sinistra, divisi da noi solo dalla lunga grata-balaustra (che forse una volta neppure c’era). Siamo noi parte di quell’avvicinamento guidato dalla stella. Quel senso si essere parte viene favorito dalla festosità dell’insieme di sculture ed affreschi, che sembrano sollevare un’onda che ci avvolge. Del resto quella di Gaudenzio un’arte amorosamente espansiva, un’arte che si allarga e non sta mai in se stessa. È arte che nasce per essere condivisa. Se ne avessimo dubbi, basta aspettare, qualche passo più in là, il vero colpo di scena di Gaudenzio. Infatti, entrati nel cuore del complesso della Natività scopriremo di avere a sinistra il primo dei Magi, che arrivato alla meta si sta togliendo il turbante, e punta lo sguardo verso la grotta con Giuseppe, Maria e il Bambino, che sta alla nostra destra. Noi, insomma, siamo in mezzo al raggio di quello sguardo. Più partecipi di così…
Infine c’è l’immagine davvero memorabile di quel Re che si toglie il turbante, un insieme di dolcezza, di semplicità, di umiltà che non ne inficia la regalità. Per Gaudenzio non esiste un’umanità alta e una popolare, così anche il Re arrivato al cospetto del Bambino ha lo stesso sguardo stupito, semplice e grato del pastore (sembra addirittura di scorgere un occhio umido…). Mi viene così in mente una stupenda osservazione fatta da don Giacomo Tantardini nel corso di una Meditazione natalizia del 2006: i Magi si muovono per un semplice indizio (la stella), lo seguono, ma ad un certo punto ne perdono la traccia. E allora ricorrono allo stratagemma più umano che ci sia: domandano. Domandano dove fosse quel Bambino, domandano persino ad Erode… Naturale che una volta trovata una risposta alla domanda posta, si sia pieni di gratitudine. Forse questa è la ragione per cui quell’immagine del Re che si toglie il turbante è un’immagine che rimane così profondamente impressa nel cuore.

Written by gfrangi

Gennaio 6th, 2013 at 10:04 am

Bellezza e pietà all’ombra del Monte Rosa

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Mi chiedevo un paio di sere fa, salendo un sentiero innevato alle pendici del Rosa per raggiungere un agriturismo, chi mai fosse riuscito a dipingere qualcosa di simile allo spettacolo che avevo davanti agli occhi. A 180 gradi stava spalancato l’immenso anfiteatro del Monte Rosa. Emergeva dal buio perché, non ancora non vista da noi, da dietro le montagne alle nostre spalle, una luna piena gettava la sua luce su quelle immense pareti a strapiombo, che fasciavano tutto l’orizzonte: coprendole di lamine d’argento che emergevano dalla texture nera delle rocce. Era una meraviglia da cui era difficile staccare lo sguardo, prova senza necessità di appello della stupefacente bellezza del creato (aggiungo che cantare, come la Chiesa indica per stasera, ultimo dell’anno, l’inno del Te deum avendo negli occhi quello spettacolo, risulta cosa, più che dovuta, naturalissima: “Te Deum laudamus… Pleni sunt caeli et terra majestatis gloriae tuae.”)
Per tornare alla domanda di partenza, non ho in mente pittori che abbiano reso quello spettacolo. Ci avrebbe potuto provare Segantini, con il suo grande cuore, ma le sue montagne alla fine erano troppo zavorrate di una malinconia che ne opacizzava lo sguardo. Ci aveva provato, da lontano, anche Leonardo, disegnando il Rosa visto dalla pianura e in questo evidenziando qualcosa di particolare che è proprio del Rosa: il suo ergersi protettivo rispetto all’immensa quantità di vita che si dipana al di sotto. Non c’è nessun’altra montagna che si scopre, che si lascia vedere così da lontano e così da ogni parte, come il Rosa. Una montagna che nelle giornate belle ti sa commuovere anche se sei nel tran tran della vita, cento chilometri distante. Una montagna non segreta, ma materna.
Scendendo, con la luna che era ormai uscita allo scoperto, disegnando con le nuvole leggere incredibili arabeschi (questi Adam Elsheimer li aveva dipinti…), non sapevo che a poca distanza da lì si stava cercando un ragazzo di 18 anni che sciando fuoripista era purtroppo caduto in un burrone. E ho poi pensato all’immenso, insostenibile, dolore di quella madre. E mi son chiesto che relazione ci potesse essere tra tanta bellezza e tanto dolore. E ho forse capito che l’arte ha proprio un grande senso, che va oltre la semplice e pur meravigliata rappresentazione del creato. L’arte racconta il nesso misterioso tra la bellezza e il dolore. Tante Pietà, che siano Bellini o che siano Michelangelo, sono lì a suggerirci, a farci intravvedere quel nesso misterioso ma così fisico e reale, da cui non si era sottratto un giorno (“…non horruisti Virginis uterum…”, canta sempre quell’inno) neanche colui a cui stasera rivolgiamo il Te Deum.

Written by gfrangi

Dicembre 31st, 2012 at 10:04 am

I miei 12 libri (più uno) del 2012

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I dodici libri d’arte del 2012, uno al mese (solo edizioni italiane). È una selezione assolutamente personale di libri a cui ho guardato con molto interesse, con curiosità e che hanno acceso in me un certo amore. I cataloghi sono in netta minoranza, e questo vuol dire qualcosa. Non segnalo i prezzi, perché non siano condizionanti. Mi limito agli italiani, per ovvia coscienza dei limiti di un’operazione di questo tipo. Allargarla sarebbe velleitario. L’ordine dei libri è casuale: non è una classifica. Resta fuori un libro che raccomando, ma non avendo immagini non può essere annoverato tra i libri d’arte, quello di Luca Doninelli, Salviamo Firenze, più che un pamphlet sul degrado della città, un viaggio sui luoghi genetici del Rinascimento, come ipotesi di lavoro per l’oggi.

Andrea Carandini, Atlante di Roma antica (Electa)
Sfogliarlo è un come fare un viaggio. Un libro innovativo, come per Bramantino (vedi maggio) capace di tenere insieme massima erudizione e massima divulgazione.

Marco Tanzi, Arcigoticissimo Bembo (Officina libraria)
Un libro poco accademico (con tanto di sana dose di polemiche) che fa il punto su un artista che è stato oggetto di studi, ma anche di amori di una vita.

Massimo Cacciari, Doppio ritratto (Adelphi)
San Francesco in Dante e Giotto. Ovvero come un santo incalza e mette sotto scacco la cultura, anche la più grande. Un libretto, che ho sottolineato quasi per intero…

Pasolini a Casa Testori (Silvana)
Palese conflitto di interesse, ma il libro- catalogo della mostra è un punto di orgoglio: un approccio visivo preciso, didattico e profondo a PPP

Bramantino (Officina libraria)
Il miglior catalogo dell’anno. Un punto di riferimento di come, in un’epoca di spaesamento come questa, vanno fatti (e si possono fare) buoni cataloghi.

Luca Ronchi, Mario Schifano. Una biografia (Johan & Levi)
Una biografia a spezzoni, come a spezzoni fu la sua vita. Un modo per rincontrare Mario Schifano, pittore dalla grande anima.

David Hockney, The Big Message (Einaudi)
Un libro libero. Dal grande vecchio della pittura inglese, una lezione di giovinezza. Bella anche l’edizione.

Matisse, Jazz (Electa)
Per me Jazz è quasi un libro “biblico”. Una cattedrale messa su carta. Meraviglioso insieme di immagini e di testi.

I vetri di Scarpa (Skira)
Uscito in occasione della mostra alla Fondazione Cini di Venezia, è più che un catalogo, un regesto preciso e completo di quegli oggetti meravigliosi che chiunque sognerebbe di avere.

Matisse, Genesi (Jaca Book)
Un altro grande vecchio sempre giovane. Il libro un po’ tradizionale nel formato, ma ottimo per completezza e le immagini sono gioia per gli occhi

Max Seidl, Padre e figlio. Nicola e Giovanni Pisano (Marsilio)
Due volumi (il secondo solo di immagini, in b/n, spettacolari), una ricerca affascinante, anche sotto il profilo storico e sociale.

François Boespflug, Le immagini di Dio (Einaudi)
Affascinante (e incontrovertibile) dimostrazione del bisogno degli uomini di raffigurare Dio. Sotto forma di dizionario.

Written by gfrangi

Dicembre 29th, 2012 at 10:35 am

Appunti di Natale, tra San Vittore e Bellini

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Ieri Messa a San Vittore, celebrava il Cardinale. Davvero emozionante, con il coro (il Coro amatoriale del Reparto Trattamento avanzato La Nave di San Vittore) che cantava a squarciagola i canti di Natale, e i detenuti che venivano aldiqua delle sbarre per prendere la comunione con una semplicità da bambini. Sono le occasioni in cui capisci che se l’arte non sa misurarsi con tutto l’umano che pulsa e incalza lì dentro, è solo inutile e un po’ cinica accademia. In quel posto arriverà la Pietà Rondanini, e non c’è posto più “giusto” per quel capolavoro. Non è solo un piccolo atto di riparazione verso un luogo e un’istituzione che questa presunta civiltà ha abbandonato in modo indegno a se stesso. È anche un richiamo a capire quale sia il senso del fare arte, ma anche il senso del fruirne (questo secondo ci riguarda tutti). Sarà, speriamo, uno dei grandi temi dell’anno che verrà.

Tra i libri ricevuti per Natale, ne spicca uno. È “Giovanni Bellini’s Dudley Madonna” di Antonio Mazzotta. È dedicato a una Madonna dipinta da Bellini intorno al 1508, la cui storia viene tutta ricostruita con un’affascinante dovizia di particolari. Ma il bello di questo libro è l’intelligenza con cui è stato costruito, con una serie di particolari e di confronti emozionanti, enfatizzati dal formato grande che ai libri d’arte certamente giova. La Madonna che in dolcezza fa la gara con il paesaggio dello sfondo, tiene tra le braccia un Bambino eretto, tenero ed energico nello stesso tempo. Ha una posa strana ma non del tutto inedita per Bellini, con la gamba sinistra tesa e quella destra contratta, come se fosse pronto a scattare in piedi. La Madonna con una mano sembra pronta a far da “scalino”al piede, con l’altra, più protettiva, già si prepara a tenere il Bambino comunque stretto a sé. È una dialettica stupenda quella che Bellini sa creare in questa tavola, tra la posa delicatamente fluida della Madonna (con quel movimento a spirale sottolineato da Mazzotta) e quella invece forte tutta rettilinea del Bambino. Sono i particolari, oltre alle parole, a raccontare il quadro: quello di pagina 10, con la mano della Madonna che sfiora il piedino di Gesù; quello di pagina 16, dove un close up ardito e molto efficace conferma la forza del Bambino, che ha una saldezza quasi pierfrancescana; a pagina 72, dove il confronto tra il volto della Madonna Dudley e quella di Detroit (1509) svela il mestiere di Bellini, che nella costanza trova sempre più profondità: stesso taglio delle labbra, stesso punto di luce negli occhi, stesse ombre soffuse, stessa impercettibile inclinazione che comunica una calma dolcezza.

Written by gfrangi

Dicembre 25th, 2012 at 10:30 pm

La Rondanini a San Vittore. Risposta a Bertelli

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(Queste mie righe sono state pubblicate sul Corriere del 23 dicembre)

Spiace che un personaggio autorevole come Carlo Bertelli non abbia capito l’importanza della scelta di portare la Pietà Rondanini a San Vittore. Bertelli giustamente vede nella Pietà un’opera simbolo, come lo sono la Primavera del Botticelli per gli Uffizi e la Gioconda per il Louvre, ma tralascia una differenza sostanziale: mentre quelle due opere citate attraggono e sono viste ogni anno da milioni di visitatori, la Pietà è un capolavoro dimenticato: quanti milanesi l’hanno vista? Quanti sanno dov’è? Questo accade anche per una scelta espositiva di grande eleganza ma molto escludente, che ha isolato la Pietà in un angolo del percorso espositivo del Castello invece di farne un perno, anche in funzione di richiamo. Portare la Pietà a San Vittore quindi serve a riaccendere i riflettori dell’attenzione e della coscienza collettiva su questo capolavoro, mettendola in connessione con un altro luogo ferito e dimenticato della città. È vero, la Primavera e la Gioconda non verrebbero mai mosse dalle loro sedi espositive. Ma anche la Pietà non viene portata via da Milano: e lo spostamento è funzionale a restituirla alla città in senso finalmente pieno. Quanto ai rischi, proprio in queste settimane abbiamo visto un’altra opera di Michelangelo, il Davide Apollo del Bargello, volare Oltreoceano senza che nessuno abbia protestato. E lo stesso Louvre in un anno ha «prestato» due capolavori di Leonardo: la delicatissima tavola con la Vergine delle Rocce per la grande mostra londinese e, proprio in queste settimane, la Vergine con Sant’Anna, altra tavola reduce da un complicato restauro, in occasione dell’apertura della nuova dependance del grande museo a Lens, nel Nord della Francia.Quanto al tema della ricezione da parte dei detenuti che affollano le celle di San Vittore, credo che la risposta migliore sia venuta dalle lettere pubblicate proprio dal Corriere qualche giorno fa: dimostrano una consapevolezza sul valore della Pietà e sul suo senso che spesso manca a critici e intellettuali. Per quanto riguarda i tanti musulmani detenuti, è bene ricordare che la figura di Maria e di Gesù sono presenti nel Corano e che per la figura di Maria l’Islam nutre rispetto e anche venerazione: è l’unica donna a cui viene dato l’appellativo di «Siddiqah», colei che è sempre veritiera. Quindi la Pietà nel cuore di San Vittore può diventare anche un vero punto di dialogo, di incontro.

Written by gfrangi

Dicembre 24th, 2012 at 1:40 pm