Robe da chiodi

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Guarda chi c’era al matrimonio futurista

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Livio Mannocci, Gino e Jeanne

«Il Quartiere Latino, sul quale si era spalmato il consueto languore delle lunghe vacanze è tornato oggi alla vita e alla sua vivacità: al Municipio del 14esimo arrondissement il Futuro e il Presente si univano nelle persone del signor Gino Severini e Jeanne Fort. Lo sposo è il pittore futurista, la sposa è la figlia di Paul Fort, il Principe dei Poeti».

Così riportava una delle tante cronache dedicate ad un matrimonio che aveva incuriosito ed eccitato Parigi: era il 28 agosto 1913 e come sottolineava il giornalista inglese del “Northern Advocate”, la platea degli invitati evocava simbolicamente altri possibili matrimoni: quello tra Italia e Francia e soprattutto quello tra cubisti e futuristi. In effetti Severini, innamoratissimo della sua Jeanne, aveva organizzato tutto mettendo a punto una strategia ben calibrata. Innanzitutto aveva neutralizzato l’offensiva di Umberto Boccioni, autore di un telegramma dai toni minatori, firmato anche da Carrà, Russolo e Marinetti. «Se persisti a sposarti ti ritireremo la nostra solidarietà», era il messaggio. Ma Severini aveva abilmente convinto Marinetti a essere addirittura da testimone, facendogli sapere che l’altro testimone sarebbe stato Apollinaire. A marzo di quello stesso 1913 Apollinaire aveva accettato di scrivere un Manifesto dell’Antitradizione Futurista. «Il manifesto è importantissimo», scriveva lo stesso Marinetti ad un riluttante Ardengo Soffici. Più del contenuto contava il peso politico dell’intellettuale francese, che si offriva in questo modo di proporre un ponte tra cubismo e futurismo. Il tentativo non era destinato a fare grande strada, ma Marinetti si sentì obbligato ad accogliere l’opportunità offertagli da Severini. Arrivò a Parigi a bordo di una bella automobile bianca che prestò agli sposi nel giorno delle nozze. Del resto era stato proprio il padre del futurismo a causare l’incontro tra Severini e la sua futura moglie, portando l’amico artista nel 1911 al Closerie de Lilas, il caffè dei poeti simbolisti a Montparnasse dove teneva banco Paul Fort. Jeanne era sempre presente a questi appuntamenti anche se non aveva ancora 15 anni. Così tra lei e Gino era scattato presto il colpo di fulmine. 

Livio Mannocci, Gino e Jeanne

Di questo suo matrimonio d’amore e anche di convenienza, Severini ha raccontato diffusamente nella sua autobiografia “La vita di un pittore”, pubblicata nel 1946. Ed è da lì che Lino Mannocci, artista toscano, da tanti anni di stanza a Londra, ha preso il la per un percorso intelligente e curioso. Prima una mostra al Museo del Novecento di Firenze a cura di Sergio Risaliti, esponendo una serie di quadri-cartolina dedicati a sposi e invitati a quel matrimonio. Poi un libro in cui Mannocci passa in rassegna i protagonisti di quella giornata festosa, provando anche a ricostruire “la scena“ dei possibili dialoghi (Lino Mannocci, “Scene da un matrimonio futurista”, Affinità elettive, 220 pag, 20 euro). È un libro dal sapore evocativo che insegue la strana umanità convocata per quella festa e se ne lascia conquistare: le immagini con le opere di Mannocci accompagnano i singoli incontri, come esercizi di memoria, affettuosa ed insieme ancora eccitata dall’evento.

Livio Mannocci, Jacob dipinge

Anche i testimoni della sposa, «abbagliante di gioventù e di grazia» (Severini), erano stati frutto di una scelta ben calibrata. Il primo era Alfred Vallet, fondatore del “Mercure de France”, l’altro Stuart Merril un poeta americano molto stimato da Mallarmé. Proprio quest’ultimo si trovò certamente al centro di una discussione che aveva infiammato la festa. Poche settimane prima infatti Apollinaire aveva pubblicato sul “Mercure de France” una bizzarra ricostruzione del funerale di Walt Whitman, decisamente offensiva. Merril, che viveva nel mito di Whitman, aveva inviato una lettera di protesta al giornale. L’incontro al matrimonio futurista fu occasione per un chiarimento, tra i protagonisti della polemica davanti a Vallet, direttore del “Mercure”. Apollinaire, con assoluta nonchalance, poche settimane dopo pubblicò una rettifica in cui ammetteva che il suo articolo era frutto di una confidenza fattagli da Blaise Cendrars, senza nessun altro riscontro. 

Indiscusso animatore della festa era stato Max Jacob. Con Paul Fort «rivaleggiava nei “jeux des mots”, in aneddoti scherzosi, in ogni specie di trovate, una più divertente dell’altra», ricorda Severini. Lui così riflessivo, era sempre disposto a perdonare gli accessi dell’amico Jacob che durante la festa si era reso protagonista di una delle sue bravate. Dopo aver messo al centro del tavolo una copia in gesso in miniatura della “Vittoria di Samotracia”, regalo di un artigiano italiano, l’aveva fracassata a colpi di bottiglia al grido di «in una tale assemblea di futuristi questa vecchia statua è un non senso». Severini la prese a male, ma poi perdonò l’amico e invitò tutti a continuare a divertirsi. «Jacob ogni volta mi abbagliava con la sua cultura e la sua vivissima immaginazione», confessa nella sua autobiografia. Sulla festa aleggiava il fantasma di Picasso, grande amico di Jacob (due anni dopo gli avrebbe fatto da padrino, in occasione della conversione di Max al cattolicesimo). Tra gli invitati c’era André Salmon, poeta e amico di Pablo fin dai tempi del Bateau Lavoir. Tra i meriti di Salmon quello di aver convinto Picasso ad esporre finalmente in pubblico la grande tela che da anni teneva girata nello studio, con la scusa che spaventava chi entrava: erano “Les Demoiselles d’Avignon”. 

Impossibile non notare tra i tavolini del Café Voltaire dove si era tenuta la festa, un personaggio come Rachilde Emery, moglie di Alfred Vallet. Bisessuale e iconoclasta, aveva ottenuto per prima dalle autorità francesi il permesso di potersi presentare in pubblico vestita da uomo. Nel 1884 aveva pubblicato un romanzo, “Monsieur Vénus“, che era stato sequestrato e che le aveva causato una condanna a due anni di reclusione  a 2mila franchi di multa. «Dominava tutte le conversazioni con la sua “verve” indiavolata», ricorda Severini. Eppure “mademoiselle Baudelaire”, come era stata ribattezzata da Maurice Barrés, aveva ceduto alla corte ostinata e paziente di Alfred Vallet, un uomo dal carattere opposto al suo. Si erano sposati e insieme avevano fondato il “Mercure de France”, la rivista letteraria più autorevole nella Parigi di quegli anni. Durante la festa Rachilde fu molto colpita dalle canzoni di uno degli invitati. Si chiamava Francis Carco, ed era scrittore. Lo volle conoscere. Scoprì che un anno prima aveva mandato un suo romanzo al “Mercure” senza ricevere risposta. Pochi mesi dopo “Jesus la caille”, questo il titolo, era nelle librerie.

L’articolo è uscito su Alias del 21 giugno 2020 con il titolo “Livio Mannocci e i confetto dell’avanguardia”

Written by gfrangi

Luglio 3rd, 2020 at 6:03 pm

Ultimissima su Picasso

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Questa sera ultima visita guidata a Picasso. È stata anche per me un’esperienza, perché il cercare di spalancare alle persone l’orizzonte vero di Picasso diventa un esercizio che costringe a capire meglio e ad avere più chiare le idee in testa.
Mi sono mosso su due linee. Una più aneddotica: scandire le stagioni di Picasso seguendo il filo dei suoi rapporti con le varie donne della sua vita. C’è una relazione tra l’operare artistico e questi amori che non è da sottovalutare: ogni donna suscita in Picasso un approccio diverso alla realtà. La sala ipersensusale della mostra milanese con i nudi di Marie Thérese Walter parla da sola (diceva Hockney che Picasso per aver dipinto quadri come questi deve aver passato davvero tanto tempo a letto con lei). La passione successiva con Dora Maar provoca un cambio di registro, nella direzione di una drammaticità a tratti quasi ossessiva.

La seconda linea invece è stata quella di insistere molto sugli anni cruciali della genesi e dell’affermazione del cubismo. Una stagione breve, ma oltremodo decisiva. È quella la stagione in cui Picasso combatte la sua vera e decisiva battaglia, dopo la quale si ritroverà forte di una libertà e di una spavalderia che gli permetteranno di andare al galoppo per il resto della vita, facendo tutto e anche a volte il contrario di tutto.
Ma quale fu questa battaglia? Innanzitutto non fu battaglia metaforica, perché i testimoni profondi di quella stagione, Gertrude Stein e Guillaume Apollinaire ne parlano proprio in questi termini. È una lotta ci dicono. Un combattimento. Di una prova eroica scrive addirittura Gertrude. «I grandi poeti e i grandi artisti hanno come funzione sociale quella di rinnovare senza requie l’apparenza che riveste la natura agli occhi degli uomini. Senza i poeti e senza gli artisti gli uomini si annoierebbero rapidamente della monotonia naturale… e ogni ordine svanirebbe», scrive Apollinaire.

Il cantiere delle Demoiselles conferma la drammaticità della prova che Picasso affronta: sono centinaia i disegni e i bozzetti preparatori; sei mesi di lavoro per arrivare a quel quadro che nessuno gli aveva commissionato e che solo doveva far nascere come per obbedire a una spinta che dentro lo dominava («la pittura mi ha sempre preso per mano e mi ha fatto fare quello che lei voleva», diceva Picasso). Picasso deve dare struttura a una visione nuova, vergine cioè contemporanea, della realtà. Qualcosa che non si era mai visto. L’epicentro della battaglia è il corpo; il corpo della donna, in particolare, forza generatrice di vita e polo di irresistibile attrazione. Picasso si taglia i ponti alle spalle, cala quei tendaggi alle spalle delle cinque creature selvagge. Non c’è più una possibilità di rifugiarsi nello spazio comunque sicuro prodotto dalla prospettiva. C’è solo la superficie della tela su cui si gioca tutto.

«Le pose violente delle figure sembrano vogliano rompere lo spazio scialbo del dipinto, si scagliano l’una contro l’altra per ferirsi, come se volessero superarsi reciprocamente in durezza e impeto… Picasso è interessato soprattutto all’intensità corporea» (Werner Hofmann). Vuole arrivare a mettere più oggettività, più realtà dentro la tela: far sì che le forme non siano rappresentazione di quelle presenze, ma siano tutt’uno con esse. Per questo sono forme convulse, spezzate che però per rompere il velo devono emergere con una chiarezza nuova e senza confronti. Sono loro stesse il soggetto del quadro: non un tema, non una narrazione. Loro stesse nel loro bisogno feroce di rompere il velo, di mostrarsi al mondo, di “essere”. Lo sguardo selvaggio delle cinque donne dice questo, parla di una sfida lanciata: dice che non c’è altra ragion d’essere di quel quadro se non mostrare che loro ci sono. Mettono pressione, irrompono senza essere state chiamate. Non c’è più nessuno scollamento tra le forme con cui appaiono sulla tela e le forme che le fanno essere.

La dinamica delle Demoiselles perciò è una dinamica che rovescia i punti fermi. Senza più spazio alle spalle, il loro sguardo di un’intensità selvaggia traccia un punto di fuga che sta fuori dal quadro: è come un proiettile tracciante che perfora lo spazio. Così Picasso embrionalmente concepisce il cubismo, che sarà proprio il compimento di questo ribaltamento. «Non ci si rivolta contro le consuetudini dell’illusionismo per girare le spalle al mondo delle cose; si vuole oltrepassarlo, con un contributo di realtà più grande e più preciso». «Si tratta di portare nel quadro la stratificazione spaziale degli oggetti». «Il corpo, fino ad allora chiuso, viene aperto, comunica con ciò che gli attorno e quel che gli sta attorno entra nella forma chiusa ma ormai spezzata» (Hofmann). Picasso ha consapevolezza di quello che accadendo, che non si tratta dell’invenzione di un nuovo stile “moderno” (sarà questo alla fine l’orizzonte di Braque). Si tratta di aprire un terreno nuovo per la rappresentare (mettere in scena) la densità del reale, in senso libero, aperto, contemporaneo.ù

Come spesso i grandi balzi si generano da intuizioni semplici: è quel che racconta Gertrude Stein, quando dice che Picasso ha l’ambizione di restituire sulla tela lo sguardo proprio di un bambino quando è in braccio a sua madre. Quello sguardo totale che si può generare fissando un particolare; totale perché così ravvicinato (fisicamente e affettivamente). Uno sguardo che genera una visione straordinariamente coerente: perché i quadri della stagione breve del cubismo analitico mostrano una coerenza formale indiscutibile, che sfiora una perfezione. A chi guarda (noi) il compito di inoltrarci dentro quelle immagini, senza la pretesa “passatista” di ricomporle ma inseguendo quella quantità di piani, di prospettive, di strati, di forme. Non c’è più una leggibilità univoca. Ma non c’è una complicazione: il cubismo riduce la molteplicità dei dati visibili a poche famiglie di forme a cui riesce poi ad attribuire una certa realtà: si tratta di cose che “comunicano” tra loro per affinità. Ecco perché alla fine l’approdo è altamente poetico. «La chiarezza che ne accende le forme interne, li fa nuovi oggetti, veri oggetti» (Pasolini su Picasso)

Written by gfrangi

Gennaio 27th, 2013 at 11:25 pm

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