Robe da chiodi

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Primo giorno di scuola. La bella scuola di Ceruti

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Ci sono pochi artisti che abbiano un così profondo sentimento dell’umano come Giacomo Ceruti (un artista su cui Giovanni testori ha scritto cose inarrivabili). Oggi, primo giorno di scuola, mi torna sotto gli occhi questo suo quadro straordinario che fa parte del Ciclo di Padernello. Si intitola Donne che lavorano ed è custodito alla Tosio Martinengo di Brescia: in uno spazio che sembra quasi un esterno, un gruppo di donne cuce, sedute su belle sedie impagliate è intenta a cucire con il tombolo. Non tutte però lavorano. La donna al centro infatti con un abito blu indossato con imprevista regalità, tiene un libro nel grembo e guida la mano di una bambina tra le righe, evidentemente per insegnarle a leggere. Infatti il quadro come titolo completo ha questo: “Donne al lavoro (con bambina che impara leggere)”. In realtà a guardare bene il quadro, il titolo potrebbe anche essere ribaltato, visto che la scena presunta marginale, occupa in realtà il centro della composizione e sembra proprio quella su cui Ceruti vuole portare il nostro sguardo. Immagino che don Milani avrebbe potuto fare un manifesto di un quadro come questo, che esprime in modo così giusto, così consapevole, la centralità dell’istruzione. In un mondo che aveva il problema del pane, il sapere leggere viene vissuto come una priorità.
Non si sa come e perché Ceruti fosse arrivato a realizzare questo straordinario ciclo dedicato al mondo popolare. E può essere che il modo con cui oggi noi ne fruiamo non tenga conto di fattori che oggi ci sfuggono. Ma a volte le opere vanno prese anche come vengono: e questa arriva a noi con molta dolcezza, come rappresentazione di un microcosmo di straordinaria dignità. Quella di Ceruti è quasi un’antropologia compiuta, per equilibrio, dignità e intelligenza. Un mondo che nella coscienza del bisogno ha trovato anche la pazienza di costruire delle risposte. Un mondo tutto al femminile, e questo rende ancor più sorprendente, rispetto ai tempi, il quadro di Ceruti.
C’è un altro dettaglio da sottolineare: ed è l’ordinato disordine con cui Ceruti dispone i personaggi. C’è un senso di libertà nella casualità con cui i personaggi si presentano. Non c’è la retorica dei buoni e dei semplici, ma c’è un mettersi di fronte alla la realtà con determinazione e con intelligente naturalezza.

Written by gfrangi

Settembre 12th, 2017 at 3:58 pm

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La storia dell’arte e il tacco di Dolce e Gabbana

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Tra i quesiti proposti nel recente sondaggio del Fai per le Primarie della cultura, c’era anche l’idea di investire nell’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole. Inutile dire che la cosa mi trova d’accordo, per motivi non solo sciovinistici, anche se la proposta non ha trovato consensi massicci come altre, certamente più scontate. La Storia dell’arte è una sorta di dio minore nei programmi scolastici: scelta vagamente suicida di una scuola plasmata da Croce e Gentile e quindi orientata sull’asse filosofia-letteratura. Ma come diceva Longhi, la lingua italiana conosciuta in tutto il mondo non è quella letteraria bensì quella figurativa. Non conoscerla e non farla conoscere è quindi un atto autolesionistico. Ne va della consapevolezza di chi siamo e ne va anche quanto ad opportunità di lavoro, di investimento rispetto ad un patrimonio e quindi ultimamente anche di lavoro.

Ma c’è dell’altro, e qui vengo alla parte eterodossa del mio ragionamento. La Storia dell’arte ha come componenti costitutive, conoscenza della storia, conoscenza delle forme, conoscenza della storia materiale (l’arte, per quanto sublime, ultimamente è sempre un manufatto): cioè è la disciplina sintetica per eccellenza di quell’uomo artigiano che secondo Richard Sennett sarà il vero motore del terzo millennio.
A questo proposito segnalo una bella intervista che Gian Antonio Stella ha realizzato per Sette a Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Dice Dolce, per spiegare cos’è davvero la macchina della moda: «Manca qualcuno che si interessi. Che studi. Che capisca cos’è il nostro settore. La considerano una cosa effimera e invece è il contrario. È un patrimonio enorme, tutto italiano, tutto nostro. Che si appoggia sugli artigiani, sulla manualità. Parli di moda e ti guardano come se parlassi di una cosa evanescente… Non capiscono che per esempio il tacco di una scarpa da donna è un capolavoro di ingegneria: chi porta quella scarpa deve stare in equilibrio perfetto. Non ha idea di quanto studio ci siano dietro particolari come questi ai quali non viene dato peso».
Ecco io penso che lo studio della Storia dell’arte non sia ben di più che un laboratorio di futuri specialisti dei beni culturali (che sarebbe già una cosa salutare, vista la quantità di beni che abbiamo la fortuna di avere), ma sia un modo per alimentare a 360 gradi questa vocazione alla bellezza (sfogliate l’ultimo catalogo primavera estate Dolce e Gabbana e capirete che non è un discorso retorico).

Ps: mi ha colpito che anche Anna Coliva, festeggiando la riapertura della Hertziana di Roma ha sottolineato questa trasversalità (seppur con amarezza): «..la perizia del genio italiano si riscontra nell’abilità raggiunta nella tecnica del trasporto delle opere d’arte, forse l’unico campo in cui manteniamo primato mondiale indiscusso».

Written by gfrangi

Febbraio 2nd, 2013 at 7:14 pm