Mi chiedevo un paio di sere fa, salendo un sentiero innevato alle pendici del Rosa per raggiungere un agriturismo, chi mai fosse riuscito a dipingere qualcosa di simile allo spettacolo che avevo davanti agli occhi. A 180 gradi stava spalancato l’immenso anfiteatro del Monte Rosa. Emergeva dal buio perché, non ancora non vista da noi, da dietro le montagne alle nostre spalle, una luna piena gettava la sua luce su quelle immense pareti a strapiombo, che fasciavano tutto l’orizzonte: coprendole di lamine d’argento che emergevano dalla texture nera delle rocce. Era una meraviglia da cui era difficile staccare lo sguardo, prova senza necessità di appello della stupefacente bellezza del creato (aggiungo che cantare, come la Chiesa indica per stasera, ultimo dell’anno, l’inno del Te deum avendo negli occhi quello spettacolo, risulta cosa, più che dovuta, naturalissima: “Te Deum laudamus… Pleni sunt caeli et terra majestatis gloriae tuae.”)
Per tornare alla domanda di partenza, non ho in mente pittori che abbiano reso quello spettacolo. Ci avrebbe potuto provare Segantini, con il suo grande cuore, ma le sue montagne alla fine erano troppo zavorrate di una malinconia che ne opacizzava lo sguardo. Ci aveva provato, da lontano, anche Leonardo, disegnando il Rosa visto dalla pianura e in questo evidenziando qualcosa di particolare che è proprio del Rosa: il suo ergersi protettivo rispetto all’immensa quantità di vita che si dipana al di sotto. Non c’è nessun’altra montagna che si scopre, che si lascia vedere così da lontano e così da ogni parte, come il Rosa. Una montagna che nelle giornate belle ti sa commuovere anche se sei nel tran tran della vita, cento chilometri distante. Una montagna non segreta, ma materna.
Scendendo, con la luna che era ormai uscita allo scoperto, disegnando con le nuvole leggere incredibili arabeschi (questi Adam Elsheimer li aveva dipinti…), non sapevo che a poca distanza da lì si stava cercando un ragazzo di 18 anni che sciando fuoripista era purtroppo caduto in un burrone. E ho poi pensato all’immenso, insostenibile, dolore di quella madre. E mi son chiesto che relazione ci potesse essere tra tanta bellezza e tanto dolore. E ho forse capito che l’arte ha proprio un grande senso, che va oltre la semplice e pur meravigliata rappresentazione del creato. L’arte racconta il nesso misterioso tra la bellezza e il dolore. Tante Pietà, che siano Bellini o che siano Michelangelo, sono lì a suggerirci, a farci intravvedere quel nesso misterioso ma così fisico e reale, da cui non si era sottratto un giorno (“…non horruisti Virginis uterum…”, canta sempre quell’inno) neanche colui a cui stasera rivolgiamo il Te Deum.