Robe da chiodi

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Gabriele, due Michelangeli e Giovanni

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Venerdì è stata una giornata per Basilico. Il momento dell’addio è sempre rivelatore della statura e della ricchezza di chi ci ha lasciato. Nel caso di Basilico prima c’è stato un funerale a Sant’Ambrogio: una scelta nient’affatto scontata. «Per lui la chiesa più bella», mi aveva confidato la moglie Giovanna. Poi dalla predica (semplice e molto bella) ho scoperto che Gabriele regalava a Giovanna, ad ogni compleanno, non un fiore ma una foto di Sant’Ambrogio. Un gesto che dice tantissimo della persona, della sua delicatezza, di un amore che definirei religioso per la compagna di una vita. Don Jacopo, nella predica, indica la bellezza delle navate sotto le quali Gabriele ha convocato gli amici. E sottolinea che gli studenti quando vengono a studiarla armati di computer e collegati ai satelliti, scoprono come quelle arcate che sembrano così misurate e giuste in verità siano tutte storta. Metafora della vita, che non segue mai le linee rette che sogneremmo, ma che alla fine ha ricchezza proprio sa questi imprevisti.
Al pomeriggio, commemorazione alla Triennale. Tante voci davanti ad una platea fittissima. Voci sobrie. Pochi minuti per ciascuna. Ma quello che colpisce è la coralità che attorno a Basilico si esprime. Una coralità che viene allo scoperto, rivelando una cultura capace di intessersi di affettività (bello quel che dice a proposito Alberto Garutti), che lascia da parte lamenti, che confessa una nuova passione per la città: Milano. Qui si vede quel che ha generato Basilico con il suo lavoro e l’intreccio sempre aperto dei suoi rapporti: una vocazione a cercare il positivo, a lasciarsi alle spalle ogni fatalismo. Ricordo la dedica che ci lasciò nel 2009 sull’albo di Giorni Felici: «È stato un grande onore. Con la speranza di un futuro condiviso».


Scopro questo filmato di Michelangelo Antonioni, realizzato nel 2004, per celebrare il restauro del Mosé del genio suo omonimo. 15 minuti di silenzi solitari sotto le navate di San Pietro in Vincoli, rotti solo da musiche di Michael Nyman e dal Magnificat di Palestrina nel finale. È bella l’intensità dello sguardo del vecchio Antonioni, che indaga la statua come specchiandosi in un destino. È un’intensità attraversata come da un fremito muto. Poi si vede la cinepresa che indaga, proprio come fosse l’occhio del regista, le pieghe della statua. Poi nell’indagine entra in gioco anche la mano, che accarezza, s’incunea, sfiora, con la pelle avvizzita al perfezione misteriosa della pietra.


Bella la visita guidata da Antonio Mazzotta alla piccola mostra che raduna quattro Pietà di Bellini attorno a quella appena restaurata del Poldi Pezzoli. Manca quella di Brera, a sua volta in restauro, e questo purtroppo è spia dell’irrazionale mancanza di coordinamento che affligge la politica museale milanese: fare una mostra unica a restauri conclusi non era pensabile? Comunque la mostra raccoglie quattro capolavori, attestando quel bilanciamento che Bellini attua tra l’estremo patetismo del soggetto e la capacità di costruzioni formali impeccabili. Stupefacente ad esempio nel particolare qui sopra, l’intreccio tra gambe degli angeli e braccio di Cristo nella Pietà di Rimini, quindi dipinta sotto influsso Pierfancescano. Ma anche nella Pietà del Poldi Pezzoli, Mazzetta ha giustamente sottolineato come le braccia di Cristo si facciano quasi architrave del paesaggio retrostante. Una geometria ricercata che non raffredda la dolcezza ma la struttura, creando una fusione tra figura e natura.

Written by gfrangi

Febbraio 17th, 2013 at 4:54 pm

Appunti di Natale, tra San Vittore e Bellini

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Ieri Messa a San Vittore, celebrava il Cardinale. Davvero emozionante, con il coro (il Coro amatoriale del Reparto Trattamento avanzato La Nave di San Vittore) che cantava a squarciagola i canti di Natale, e i detenuti che venivano aldiqua delle sbarre per prendere la comunione con una semplicità da bambini. Sono le occasioni in cui capisci che se l’arte non sa misurarsi con tutto l’umano che pulsa e incalza lì dentro, è solo inutile e un po’ cinica accademia. In quel posto arriverà la Pietà Rondanini, e non c’è posto più “giusto” per quel capolavoro. Non è solo un piccolo atto di riparazione verso un luogo e un’istituzione che questa presunta civiltà ha abbandonato in modo indegno a se stesso. È anche un richiamo a capire quale sia il senso del fare arte, ma anche il senso del fruirne (questo secondo ci riguarda tutti). Sarà, speriamo, uno dei grandi temi dell’anno che verrà.

Tra i libri ricevuti per Natale, ne spicca uno. È “Giovanni Bellini’s Dudley Madonna” di Antonio Mazzotta. È dedicato a una Madonna dipinta da Bellini intorno al 1508, la cui storia viene tutta ricostruita con un’affascinante dovizia di particolari. Ma il bello di questo libro è l’intelligenza con cui è stato costruito, con una serie di particolari e di confronti emozionanti, enfatizzati dal formato grande che ai libri d’arte certamente giova. La Madonna che in dolcezza fa la gara con il paesaggio dello sfondo, tiene tra le braccia un Bambino eretto, tenero ed energico nello stesso tempo. Ha una posa strana ma non del tutto inedita per Bellini, con la gamba sinistra tesa e quella destra contratta, come se fosse pronto a scattare in piedi. La Madonna con una mano sembra pronta a far da “scalino”al piede, con l’altra, più protettiva, già si prepara a tenere il Bambino comunque stretto a sé. È una dialettica stupenda quella che Bellini sa creare in questa tavola, tra la posa delicatamente fluida della Madonna (con quel movimento a spirale sottolineato da Mazzotta) e quella invece forte tutta rettilinea del Bambino. Sono i particolari, oltre alle parole, a raccontare il quadro: quello di pagina 10, con la mano della Madonna che sfiora il piedino di Gesù; quello di pagina 16, dove un close up ardito e molto efficace conferma la forza del Bambino, che ha una saldezza quasi pierfrancescana; a pagina 72, dove il confronto tra il volto della Madonna Dudley e quella di Detroit (1509) svela il mestiere di Bellini, che nella costanza trova sempre più profondità: stesso taglio delle labbra, stesso punto di luce negli occhi, stesse ombre soffuse, stessa impercettibile inclinazione che comunica una calma dolcezza.

Written by gfrangi

Dicembre 25th, 2012 at 10:30 pm

Il capolavoro incamminato del giovane Tiziano

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Tiziano, La Fuga in Egitto, 1509, Ermitage

La prima cosa che colpisce di questo quadro sono le dimensioni: 336 cm di base per 206 di altezza. In secondo luogo colpiscono le proporzioni, con quell’orizzontalità così accentuata e così genialmente sfruttata dal giovane Tiziano. Sto parlando della Fuga in Egitto che dopo un lunghissimo restauro da parte dell’Ermitage è di scena a Londra alla National Gallery e che poi sosterrà a Venezia, città per il quale era stata dipinta, su commissione di Andrea Loredan titolare del palazzo che attualmente ospita il Casinò. Sarà a Venezia dal 29 agosto, prima di tornare definitivamente in Russia. Il dipinto studiato da Antonio Mazzotta, un giovane studioso che è curatore della mostra londinese, è un dipinto favoloso. L’aggettivo non riguarda tanto la qualità quanto la capacità di invenzione di Tiziano, che s’immagina una rappresentazione del tutto asimmetrica, in cui le figurine entrano da sinistra con il loro passo affaticato, lasciando la centralità della scena a quell’immenso paesaggio che Tiziano aveva “rovesciato” sulla tela quasi a rivendicare le proprie radici cadorine e “montane”. C’è dappertutto un brulicare di animali, di foglie, di erba, di vento agitato: Giuseppe, Maria e il Bambino guidati dal giovanotto che fa da angelo, transitano senza che nulla di quel brulichio venga sospeso. È questa la bellezza dell’invenzione di Tiziano, che si permette di soprassedere sugli effetti speciali e inserisce quel viaggio nel flusso normalissimo della vita del mondo (come diceva in una bella poesia Auden, le grandi cose che segnano la storia avvengono in momenti che non hanno nulla di particolare: il tran tran non si ferma..). Il transito poi ha un altro effetto, direi quasi filmico: ci aspettiamo i prossimi passi, quasi che invece di esser davanti ad una tela fossimo davanti ad un video. È una tela “incamminata” questa di Tiziano: nel segno del passo di Giuseppe, del passo dell’asinello e di quello del ragazzo angelo. E noi che la guardiamo siamo quasi indotti a seguirla, non solo con lo sguardo ma con i nostri passi.
Poi ci sono i particolari, come il cielo alpino intriso d’acqua, il verde tenero dei prati, l’ordine obbediente degli animali; e quel tenero gesto di Maria che protegge con il volto il bambino addormentato…

Written by gfrangi

Giugno 21st, 2012 at 12:36 pm