Mi dicono voci amiche che i miei pensieri sulle mostre milanesi sono stati troppo cattivi. E che in fondo, con tutte i limiti oggettivi, rappresentano pur sempre occasioni per vedere e per conoscere: un “più” di cui tenere conto.
Provo a spiegarmi.
Amando orgogliosamente la città in cui vivo, la vorrei più ambiziosa, anche e soprattutto nel momento in cui entra in gioco la cultura.
Per questo non mi basta riconoscere che nella massa di quadri di Chagall c’è ne sono alcuni bellissimi, come quelli dettati dall’amore per Bella, come quel grande mazzo di fiori in cui c’è tutta la sorpresa della facilità dei fiori, che si rivela ai suoi occhi all’arrivo in Francia. Mi piacerebbe che dietro una mostra ci fosse un disegno, la messa a fuoco di un’idea, un lavoro che dice quanto a Milano si sa ancora pensare e studiare. Un qualcosa che faccia dire a chi abita a Lugano: questa di Milano non devo perdermela. Com’era capitato a chi interessa Chagall in occasione della mostra dello scorso anno di Zurigo, sui suoi primi anni. (Il fatto che Chagall non mi entusiasmi perché ci veda sempre una punta di infantilismo di troppo, è punto di vista del tutto personale).
Non penso che la mostra di Giacometti era meglio che non ci fosse. Giacometti vale il biglietto anche solo per la monumentale testa che chiude il percorso. Ma quando vedo che Giacometti non è entrato nel magnifico Pac di Gardella, mi viene da pensare che la ragione sia che non c’è stato tempo di preparare una mostra che reggesse quegli spazi. Che si è fatto un Giacometti un po’ di risulta. È allora che mi scattano i cattivi pensieri… Milano merita un Giacometti da Pac. Cioè da serie A. E poi perché non lavorare sul rapporto tra Giacometti e Milano. Bastava una saletta documentaria, avrebbe dato un connotato alla mostra…
Su Segantini insisto, l’allestimento è completamente sbagliato. E credo che sia lesivo di Segantini, perché lo chiude, lo ghettizza. Allontana da lui invece che avvicinarlo. Lo oscura. Guardate invece com’è esposto a St. Moritz. Lui si voleva così (foto sotto). E poi la font usta, che è font cubitale del ventennio, non c’entra nulla con lui. Guardare la sua firma per capire. È un peccato: amo Segantini e lo avrei voluto vedere liberato da ottocentismi e stereotipi.
Ora arriva Van Gogh. Non mi aspetto fuochi d’artificio. Ma almeno mi consolo con il fatto che l’allestimento è stato affidato a Kengo Kuma. Almeno con lui la luce è assicurata…
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Pensieri un po’ meno cattivi sulle mostre di Milano (2)
Bellezza e pietà all’ombra del Monte Rosa
Mi chiedevo un paio di sere fa, salendo un sentiero innevato alle pendici del Rosa per raggiungere un agriturismo, chi mai fosse riuscito a dipingere qualcosa di simile allo spettacolo che avevo davanti agli occhi. A 180 gradi stava spalancato l’immenso anfiteatro del Monte Rosa. Emergeva dal buio perché, non ancora non vista da noi, da dietro le montagne alle nostre spalle, una luna piena gettava la sua luce su quelle immense pareti a strapiombo, che fasciavano tutto l’orizzonte: coprendole di lamine d’argento che emergevano dalla texture nera delle rocce. Era una meraviglia da cui era difficile staccare lo sguardo, prova senza necessità di appello della stupefacente bellezza del creato (aggiungo che cantare, come la Chiesa indica per stasera, ultimo dell’anno, l’inno del Te deum avendo negli occhi quello spettacolo, risulta cosa, più che dovuta, naturalissima: “Te Deum laudamus… Pleni sunt caeli et terra majestatis gloriae tuae.”)
Per tornare alla domanda di partenza, non ho in mente pittori che abbiano reso quello spettacolo. Ci avrebbe potuto provare Segantini, con il suo grande cuore, ma le sue montagne alla fine erano troppo zavorrate di una malinconia che ne opacizzava lo sguardo. Ci aveva provato, da lontano, anche Leonardo, disegnando il Rosa visto dalla pianura e in questo evidenziando qualcosa di particolare che è proprio del Rosa: il suo ergersi protettivo rispetto all’immensa quantità di vita che si dipana al di sotto. Non c’è nessun’altra montagna che si scopre, che si lascia vedere così da lontano e così da ogni parte, come il Rosa. Una montagna che nelle giornate belle ti sa commuovere anche se sei nel tran tran della vita, cento chilometri distante. Una montagna non segreta, ma materna.
Scendendo, con la luna che era ormai uscita allo scoperto, disegnando con le nuvole leggere incredibili arabeschi (questi Adam Elsheimer li aveva dipinti…), non sapevo che a poca distanza da lì si stava cercando un ragazzo di 18 anni che sciando fuoripista era purtroppo caduto in un burrone. E ho poi pensato all’immenso, insostenibile, dolore di quella madre. E mi son chiesto che relazione ci potesse essere tra tanta bellezza e tanto dolore. E ho forse capito che l’arte ha proprio un grande senso, che va oltre la semplice e pur meravigliata rappresentazione del creato. L’arte racconta il nesso misterioso tra la bellezza e il dolore. Tante Pietà, che siano Bellini o che siano Michelangelo, sono lì a suggerirci, a farci intravvedere quel nesso misterioso ma così fisico e reale, da cui non si era sottratto un giorno (“…non horruisti Virginis uterum…”, canta sempre quell’inno) neanche colui a cui stasera rivolgiamo il Te Deum.